Orto del nonno, animali al pascolo, cucina della nonna, ricetta della mamma, cucina di un tempo, cibo di un’antica tradizione, preparato e conservato come una volta … e tante altre simili dizioni sono sempre più usate dalla agricoltura convenzionale e dall’industria alimentare, dalla produzione degli alimenti alla loro trasformazione, fino alla produzione di piatti pronti e in ristoranti di tendenza in una mescolanza tra il nuovo e il nostalgico e che ha preso il nome di "newstalgia".
Un profluvio di commenti entusiastici in chiave liberatoria ha accolto l’equiparazione, sancita dal legislatore, dei boschi che oltre alla valenza paesaggistica presentano cospicui caratteri di bellezza naturale, memoria storica, valenza culturale, protetti da vincolo paesaggistico provvedimentale, ai boschi che sono privi di tali connotati, i quali sono automaticamente assoggettati a vincolo paesaggistico per legge esclusivamente in virtù della relativa essenza morfologica.
Fa piacere quando accade che una pubblicazione di informazioni e novità in campo zootecnico, diffusa a livello internazionale, quale è All about Feed, segnali un lavoro prodotto da nostri colleghi italiani. È successo numero del 5 febbraio con “Preserving global land and water resources through the replacement of livestock feed crops with agricultural by-products”, (Nature Food, 2023, 4: 1047-1057).
Gli alimenti di origine animale rappresentano un’importante fonte di proteine nobili nella nostra dieta, ma le attività zootecniche sono messe in discussione perché accusate di inquinare, di usare ampie frazioni di terreno agricolo e grandi risorse di acqua.
Lo studio dimostra come la sostituzione con sottoprodotti agricoli dell’11-16% delle colture intensive, come quelle dei cereali attualmente usate per produrre alimenti per gli animali, può portare a far risparmiare fino a 27.8 Mha di terreno e fino a 19.6 km3 di acqua delle falde (blue water) e 137.8 km3 di acqua piovana utilizzata dalle piante (green water). Secondo i citati ricercatori milanesi, il risparmio di risorse naturali, come l’acqua ed il suolo, è una strategia appropriata per la loro sostenibilità. Ciò comporta che le produzioni animali possano competere, in quanto a sostenibilità, con quelle vegetali.
I sottoprodotti agricoli presi in considerazione nello studio hanno riguardato le crusche di cereali, la polpa di barbabietola, le melasse, i distillers e il pastazzo di agrumi.
La prima osservazione ha riguardato la disponibilità alimentare per l’uomo, che migliorerebbe in molti paesi dove l’impiego dei sottoprodotti agricoli porterebbe ad una più larga scelta di alimenti, insieme al maggior apporto di calorie, con diete più ricche, più sane e sostenibili. Anche per quanto riguarda l’alimentazione animale, l’uso di ingredienti alternativi a quelli classici porterebbe al miglioramento della sostenibilità con la riduzione dell’impatto ambientale, non solo a livello locale.
La seconda osservazione è stata quella che, limitando la necessità di importare mangimi e materie prime dall’estero, si ottiene la positiva conseguenza di benefici economici e sociali: la produzione di certi alimenti per gli animali comporta il colpevole ricorso alla deforestazione selvaggia e l’utilizzo di grandi volumi di acqua, con il conseguente effetto sulla concentrazione dei gas serra e sulla biodiversità.
Le proteste organizzate dagli agricoltori in tutta Europa, e spesso condivise da una buona parte della opinione pubblica, chiamano in causa anche i ricercatori, in particolare quelli che si occupano di discipline agrarie. I temi in causa sono infatti rilevanti per le politiche europee e l’economia agraria, l’agronomia e le scienze del suolo, la difesa fitosanitaria e le scienze ambientali. L’accademia può contribuire a fare chiarezza sulle criticità e indicare alcune possibili strade da percorrere.
Certamente la protesta degli agricoltori evidenzia un collasso dei redditi provenienti dalle attività produttive soprattutto dei piccoli imprenditori e più in generale lamenta poco interesse per la vita reale degli operatori agricoli da parte dei decisori politici ed economici europei e nazionali.
Una prima criticità che viene evidenziata da più parti è la mancanza di regole e certezze nella catena alimentare, dove i più forti hanno buon gioco per la scarsa capacità e possibilità di trattativa da parte dei produttori agricoli. Questa criticità fa sì che la grande distribuzione organizzata e i grandi gruppi delle industrie alimentari possano stabilire pressoché unilateralmente i prezzi di acquisto delle derrate alimentari prodotte dagli agricoltori, decidendo sostanzialmente della vita e della morte delle imprese agricole.
Sono poi messe sul banco degli imputati le politiche europee. Viene anzitutto denunciata la mancanza di reciprocità dei requisiti per le produzioni realizzate nei paesi extraeuropei. Non è possibile per i produttori comunitari sostenere la concorrenza di alimenti importati da paesi dove non valgono le norme europee in tema di uso di presidi chimici, OGM, sfruttamento del suolo e della mano d'opera. Il solo import dal Brasile di soia, per lo più OGM, proviene da un areale di produzione estenso quanto il Belgio, per lo più ricavato dal disboscamento della foresta amazzonica. Dati prodotti da USDA-ERS indicano che l’export di cereali causa nei paesi d’origine, quali Stati Uniti, Brasile e Argentina, una diminuzione importante di sostanza organica e di fertilità dei suoli. La stessa Missione Suolo della Unione Europea ritiene insostenibile questo continuo aumento dell'esportazione della degradazione del suolo al di fuori dei confini europei. Però non vengono emanati regolamenti che limitino le importazioni da Paesi che non considerano gli standard europei. Non si tratta di porre nuovi dazi, ma di esigere che vengano rispettati non solo i livelli qualitativi merceologici, ma anche quelli ambientali.
L’hanno chiamata la “guerra dei trattori” e anche noi usiamo questa definizione, anche se la parola guerra non ci piace e, nel gran circo mediatico che l’ha raccontata, i veri protagonisti non sono i trattori ma una parte del mondo agricolo. Ormai sappiamo che il Governo negli incontri ha confermato il regime agevolato per i carburanti, promesso il mantenimento delle riduzioni fiscali per i redditi più bassi e una moratoria di 6 mesi nell’obbligo dell’assicurazione per i mezzi circolanti su strada. Nell’attesa del voto in Parlamento col famigerato decreto “mille proroghe” che deve essere approvato entro il 28 febbraio, pena la decadenza del solito numero elevatissimo di correzioni e aggiunte alla legge di bilancio, non vorremmo tornare alle cronache, ma sviluppare qualche considerazione a margine di una vicenda che ha tenuto con il fiato sospeso inaspettatamente l’opinione pubblica nella speranza che possano ottenere quell’attenzione che il dibattito parlamentare non potrà concedere.
Il fronte agricolo si è mosso anche in Italia come nel resto dell’Ue. Era composito, ma unito sull’obbiettivo di agire in fretta e con clamore per ottenere alcune cose su cui non tutti convergevano. I protagonisti non erano unanimi. Le Organizzazioni ufficiali hanno tenuto un comportamento responsabile, quasi defilato, le forme “spontanee” invece, con modalità diverse erano più barricadere con l’intento di accreditare un’immagine battagliera, ma divise fra “neonate”, “rinate” e “ricostituite” con nuove sigle ma con volti già noti.
Dopo le molte parole corse nei giorni caldi vorremmo ragionare su tre temi e proporre una riflessione finale
Il primo è quello degli scambi con altri Paesi e presentato con un duplice obiettivo: a) frenare importazioni agricole a basso costo e definite pericolose perché (si dice) ottenute con metodi pirata e insicuri di coltivazione; b) promuovere le esportazioni dei nostri prodotti. Ma il tema è destinato a non andare molto lontano. La materia è regolata da accordi internazionali ottenuti con negoziati lunghi e complessi e la sicurezza delle importazioni è garantita dai controlli in frontiera effettuati dall’Italia. inoltre contiene un’evidente contraddizione: non si può pretendere di ridurre le importazioni e, al contempo, di esportare di più. Serve per tutta la materia quella reciprocità che invochiamo per frenare le importazioni e favorire le esportazioni, gli eventuali partner non accetterebbero uno scambio diseguale come vorrebbero i dimostranti. Infine non dimentichiamo che l’Italia ha bisogno di importare perché la sua produzione, non è sufficiente né al consumo interno né alla trasformazione di ciò che con tanto orgoglio esportiamo.
Come nasce la leggenda che Marco Polo avrebbe portato questo cibo in Italia e da qui diffusi in tutto il resto del mondo? E quale pasta conosce in Cina Marco Polo?
La geodiversità fornisce la base su cui la biodiversità può prosperare. Senza questa diversità di elementi geologici e geografici, gli ecosistemi sarebbero privi di sostegno e le specie animali e vegetali che dipendono da essi si troverebbero in pericolo.
L’invecchiamento, o stagionatura del risone, internazionalmente definito con il termine inglese aging, è tra i numerosi parametri che intervengono a determinare la qualità del riso perché ne perfeziona pressoché tutti i caratteri chimico-fisici ed organolettici.
Con il termine invecchiamento si intende stabilire o individuare il tempo necessario affinché il riso grezzo, greggio o risone, si può dire "maturi" con un lento processo volto a raggiungere la sua massima perfezione qualitativa.
Ai fini qualitativi, l’utilità dell’invecchiamento del riso era nota ed apprezzata fin dai tempi più antichi proprio da quelle popolazioni che del riso ne fecero il principale quando non l'unico alimento.
Un antico scritto sanscrito, in traduzione inglese, recita: “corns and grains, one year after their harvesting, are said to be wholesome” [I grani, un anno dopo il loro raccolto, si sa che sono sani perché il tempo li rende migliori per l’alimentazione]. (Chowkhamba Sanskrit Studies - Volume I - Sutra Sthana).
Non è solo l’antico testo sanscrito che scopre l’invecchiamento e che vanta l’invecchiamento del risone: ancora prima, nella non lontana Cina, poiché l’imperatore non poteva restare senza riso anche in caso di siccità, venivano conservati per lui tre anni di raccolto; semplicemente così si era venuto a scoprire che quello più vecchio era il migliore. Ancora oggi, il riso invecchiato tre anni è conosciuto come “il riso dell’imperatore”.
Nell’Asia del sud era consuetudine conservare una parte del riso raccolto nell’anno di nascita di un bambino, perché potesse essere consumato al momento del suo matrimonio. Oggi, continua ad essere considerato un regalo di pregio donare un sacchetto di riso invecchiato due anni.
In Italia, nelle zone tipiche di produzione, si è sempre saputo che il migliore era il “riso vecchio lavorato fresco” intendendo quello del raccolto precedente da consumare subito dopo la lavorazione.
Presidente Vincenzini, Lei che rappresenta la più antica accademia del mondo ad occuparsi di agricoltura, ambiente e alimentazione, che cosa ne pensa del recentissimo vertice Italia-Africa e dell’approvazione del Piano Mattei con investimenti per 5,5 miliardi nei settori di istruzione, salute, agricoltura, acqua, clima?
Innanzi tutto, devo osservare positivamente che la presenza al vertice del nostro Presidente Mattarella e della Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, hanno rappresentato una sorta di investitura ufficiale dell’Italia per rivestire il ruolo di catalizzatore e promotore delle iniziative di sviluppo per l’Africa, che si allontanino dai vecchi approcci di cooperazione unilaterale. Del resto, l’Italia, per la sua posizione geografica e per la sua storia rispetto ad altri, si presenta come protagonista ideale nei rapporti con il continente africano. Senza dubbio, il Piano Mattei potrà essere meglio definito, ma intercetta la necessità di affrontare le grandi sfide per lo sviluppo attraverso investimenti esteri in Africa. Potrebbe essere un’occasione importante per il nostro Paese, attraverso un cambiamento culturale che sfoci in un piano economico ed industriale strategico per tutti gli stati.
Il Ministro Lollobrigida ha però sottolineato che all’Africa manca ancora molto l’elemento della formazione, l’orientamento al mercato e la presenza delle tecnologie più semplici.
E’ purtroppo vero, ma è un problema certamente affrontabile. A dire la verità, i Georgofili ci avevano già pensato più di cento anni fa …
Nella Dichiarazione Universale dei diritti umani del 10 dicembre 1948, così si legge (Articolo 25):
Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all'alimentazione…
In esso risulta implicito che obiettivo centrale è la salute (ma anche il benessere) cui, in primo luogo, contribuisce l’alimentazione; ora, per chi ha a cuore la salute dell’uomo, non v’è dubbio che la corretta nutrizione implichi cibo sufficiente, ma non solo. Infatti, nel Vertice mondiale sull’alimentazione della FAO (1996) si è affermato: “La sicurezza alimentare, a livello individuale, familiare, nazionale, regionale e globale, viene raggiunta quando tutte le persone, in ogni momento, hanno accesso fisico ed economico ad alimenti sufficienti, sicuri e nutrienti per soddisfare le loro esigenze dietetiche e preferenze alimentari per una vita attiva e sana.”. Quindi, cibo disponibile, acquisibile e utilizzabile e, per quest’ultima esigenza, non può mancare la disponibilità di acqua potabile (garanzia per la funzionalità del digerente = buona utilizzazione).
Pagliai – L’acqua è una risorsa preziosa e indispensabile e non va sprecata; talvolta, purtroppo, diventa calamità quando è troppa (alluvioni) o quando è troppo poca (siccità). A proposito di quando è troppa c’è da osservare che le cause delle catastrofi recenti, a parte la crisi climatica in atto con eventi piovosi sempre più estremi e la cementificazione incessante, vengono da lontano e precisamente intorno agli anni ’60 del secolo scorso in concomitanza del così detto “boom economico” quando il modello di sviluppo di allora portò all’abbandono di vaste aree di collina e montagna considerate marginali e quindi all’abbandono dell’agricoltura e della pastorizia perché quelle braccia erano più redditizie se impiegate nello sviluppo industriale e edilizio. Con l’abbandono dell’agricoltura cessarono anche le opere di manutenzione del territorio e da qui, complici i cambiamenti climatici, sono iniziati quei fenomeni di forte erosione del suolo, con le relative catastrofiche conseguenze. Gli agricoltori rimasti nella bassa collina e nelle pianure furono indottrinati all’aumento delle produzioni, all’uso sfrenato di fertilizzanti chimici, alle monocolture con continue lavorazioni profonde con il risultato che nel tempo si è formato uno strato compatto al limite inferiore dell’aratura (“suola d’aratura”) che di fatto impedisce il drenaggio del terreno; da qui gli allagamenti di questi terreni quando piove in forma di nubifragio come ormai accade di regola.
Bottino – Condivido la tua introduzione, io suggerirei due parole: storia e scienza. Storia perché dobbiamo conoscere l’evoluzione del territorio nel suo complesso e trarne insegnamento. Ad esempio, se esaminiamo una foto aerea del 1954 di Campi Bisenzio vediamo tutti campi coltivati, ben sistemati e regimati; se esaminiamo una foto attuale vediamo tutte case. Scienza perché occorre una completa interazione con tutti gli operatori del settore. I modelli idraulici attualmente disponibili risalgono al 1960 dove, ad esempio, nell’alluvione del 1966 piovvero 170 mm in 24 ore, il 3 novembre scorso sono piovuti 200 mm in 4 ore. In questa situazione il reticolo idrico minore non ha retto e la cementificazione, su ricordata, ha fatto il resto. Per la messa in sicurezza di tale reticolo occorre una programmazione dettagliata e fondi certi. Proprio quest’ultimo è sempre il punto debole, tanto che i Consorzi di Bonifica nelle loro opere di manutenzione sono costretti ad andare avanti operando per lotti in base ai fondi disponibili; in occasione di eventi estremi il punto debole è rappresentato proprio dai lotti incompiuti.
La protesta agricola cresce e si diffonde in tutta l’Europa comunitaria conquistando spazi sempre maggiori nell’informazione. È un fenomeno che attira attenzione e, come si dice, fa notizia. Ma non va confuso con quelli che dopo l’uscita in prima pagina poi scompaiono, travolti dal ritmo frenetico ed effimero dell’informazione. Questo evento è diverso e merita di essere esaminato.
Due osservazioni, innanzitutto. La prima: sui mezzi di informazione trova spazi ed audience, viene accolta quasi con simpatia, il pubblico è portato a condividere una protesta di cui non conosce bene la ragione, un po’ per il vezzo ormai inveterato di esaltare cortei, occupazioni, movimenti di protesta e un po’perché coglie il fatto che questa contiene qualche cosa di autentico, come autentica è l’agricoltura.
La seconda: è un fenomeno che coinvolge i paesi Ue, ma non tutti. È molto forte in Germania, meno e con connotazioni diverse in Francia, in Olanda, ancora meno in altri come l’Italia che è una potenza agricola in Europa. Ma molti Paesi non sono presenti Se si approfondisce il contenuto degli slogan e dei manifesti si scopre che le motivazioni sono diverse, come diverse sono le agricolture, le strutture produttive, le produzioni, le politiche agricole nazionali.
Se si esaminano le motivazioni ne emerge una prima considerazione: siamo di fronte a un problema sfaccettato, ma condiviso, il malessere agricolo nell’Ue. Quali sono le cause? Possiamo riassumerle dicendo che sono le ricadute delle crisi del primo ventennio degli anni 2000 sul settore agricole. L’ultima, la più forte e percepita in agricoltura ora, è l’inflazione con tutto il suo contenuto di incertezza: l’aumento dei costi di produzione, compresi energia e mezzi di produzione, seguiti dai prezzi agricoli ed alimentari. Ma gli andamenti ad un certo punto si sfasano. I prezzi dell’energia e di altre commodity iniziano a scendere e seguite dai mezzi di produzione. Ma quelli agricoli rimangono irregolari e più elevati che all’inizio delle crisi. L’offerta agricola è ridotta perché il clima ha provocato due annate di produzione ridotta. Le prime proiezioni sul 2023 la danno in calo Ue in quasi tutti i Paesi Ue, anche se in modo diverso in relazione alle singole agricolture. Paradossalmente la protesta è più forte nel Paese meno toccato dalla crisi, la Francia, dove però è molto condivisa ed evidente.
La mostra “Le fattorie di Santa Maria Nuova al tempo dei Medici”, allestita in questi giorni nella sede dell’Accademia dei Georgofili e visitabile con ingresso libero fino al prossimo 16 febbraio, usufruisce di una nuova tecnologia di supporto per la visita.
Questo sistema, denominato DIDA, permette di leggere le didascalie traducendole in ben 12 lingue: Italiano, Inglese, Francese, Tedesco, Spagnolo, Portoghese, Giapponese, Cinese, Coreano, Indonesiano, Russo, Olandese. Pensato sul concetto di accessibilità universale, con l'ausilio anche dell’Intelligenza Artificiale, presenta tre diverse versioni: adulti, bambini e persone con disabilità fisiche e cognitive.
Usufruirne è molto semplice, basta inquadrare il QRcode che si trova all’inizio del percorso espositivo.
Abbiamo intervistato uno dei “creatori” di questa tecnologia: Fabio Mochi.
Studi recenti suggeriscono che il melograno è un "super frutto" ricco di benefici per la salute provocando un aumento della domanda del frutto e della sua produzione, purtroppo ancora limitata da disturbi fisiologici, problemi di parassiti e malattie, problemi post-raccolta e di conservazione che la ricerca agronomica sta cercando di superare.
Nel numero del 5 gennaio 2024 della pubblicazione “Dairy Global”, da una nota a firma del corrispondente europeo Vladislav Vorotnikov, apprendiamo che quella del latte sintetico è un’industria emergente con molte start up impegnate nelle fasi di ricerca e sviluppo delle tecniche di produzione.
Nell’articolo si fa riferimento specificamente alla compagnia californiana “Perfect Day” come esempio significativo di una start up impegnata nel progetto.
La funzione turistico-ricreativa è un importante servizio ecosistemico da sempre riconosciuto al bosco. Le attività ricreative sono sempre più importanti per scaricarsi dallo stress quotidiano e il bosco è un luogo ideale a tal fine, soprattutto quando è posto nei pressi dei centri abitati maggiori. In molti casi, la funzione ricreativa del bosco, includendo in essa anche quella salutistica, ha una rilevanza uguale se non maggiore a quella economica.
Come è noto, oltre alla funzione ricreativa e a quella economica, il suolo svolge anche altre importanti funzioni ecosistemiche, quali quella culturale, di mitigazione dei cambiamenti climatici, di tutela della biodiversità e protettiva nei confronti del suolo. Le varie funzioni ecosistemiche e sociali del bosco assumono particolare rilevanza nelle aree periurbane. E’ proprio in queste aree però che possono subentrare più di frequente conflitti tra funzione diverse. In particolare, più è intenso lo sfruttamento del bosco per le attività del tempo libero, più è probabile l'insorgenza di criticità nei confronti della sua funzione protettiva sul suolo.
Il bosco del Parco regionale del Monte di Portofino è in questo senso un esempio emblematico. Il parco è relativamente piccolo, circa mille ettari, ma è posto in una posizione strategica, tra i comuni di Santa Margherita Ligure, Portofino e Camogli ed attrae tutto l’anno decine di migliaia di turisti provenienti anche da fuori regione. Per la storia naturale ed amministrativa del Parco regionale di Portofino rimando a quanto scritto dalla collega Silvia Olivari in Georgofili info del 9 febbraio 2022. Il parco dispone di circa 80 km di sentieri segnati e decine di piste di mountain bike, con diversa pendenza e livello di impegno agonistico. La massiccia frequentazione dei sentieri e soprattutto delle piste di mountain bike provoca fenomeni di erosione del suolo a volte anche intensa, non solo nei tratti più scoscesi. C’è da considerare infatti che molti dei suoli del parco sono ad erodibilità elevata e quindi soggetti ad essere facilmente asportati dalle acque correnti quando non protetti dalla vegetazione, dalle foglie e dai rami morti, come avviene lungo i sentieri e soprattutto le piste.
Locale contro globale. Contrapposizione non nuova, che, in questi ultimi giorni, offre nell’agroalimentare nuovi spunti di riflessione (e più di una preoccupazione). Da un lato, la crisi scatenatasi in poche ore nel Mar Rosso ha messo a nudo la delicatezza degli scambi mondiali (anche alimentari); dall’altro, l’ormai più che invadente uso di imitare i prodotti agroalimentari italiani con tutte le conseguenze economiche del caso, ha scatenato atteggiamenti che lasciano piuttosto perplessi. Le due situazioni, hanno in comune più di un elemento: la globalizzazione alla quale l’agricoltura e l’agroalimentare sono sottoposti, la complessità delle relazioni in gioco, le dimensioni economiche della questione (che molto spesso sfuggono al consumatore comune). Tutto mentre in mezza Europa le proteste degli agricoltori hanno dato il segno tangibile di quanto alta sia la tensione sui temi agricoli e agroalimentari.
Crisi del Mar Rosso. In poche ore, a seguito degli eventi scatenatisi dagli attacchi dei ribelli Houthi dello Yemen alle navi in arrivo dal Canale di Suez, il normale flusso via mare di merci è apparso a rischio. Stando ai primi dati diffusi, e solo per quanto riguarda l’ortofrutta, in difficoltà vi sarebbero vendite per centinaia di milioni di euro. Potenzialmente – è stato spiegato da Fruitimprese, che raccoglie una parte significativa della produzione del comparto -, il danno arriverebbe a 500 milioni di euro, a cui si devono aggiungere le ripercussioni causate da 150mila tonnellate di prodotto di altri paesi europei che potrebbero rimanere sul mercato locale. Per capire, basta sapere che per quanto riguarda il Medio Oriente le vendite valgono circa 350mila tonnellate di ortofrutta, per un valore di 400 milioni di euro. Mentre in India e Sud Est Asiatico arrivano mediamente 120mila tonnellate di frutta e verdura italiane per circa 100 milioni di euro a valore. Situazione difficile, quindi, anche senza tenere conto dell’aumento dei tempi e dei costi di spedizione. “Pirati” alla vecchia maniera che nell’era della globalizzazione e della digitalizzazione, in poco tempo sono riusciti a mettere in crisi interi settori economici, anche a migliaia di chilometri di distanza.
Ci sarà bisogno di un impegno straordinario di risorse economiche, maestranze e tecnici qualificati per riportare nel più breve tempo possibile la rete idrografica minore della media-bassa valle a condizioni di sicurezza idrogeologica accettabile. In questo scenario, gli Agronomi ed i Forestali possono essere figure tecniche di riferimento per progettare e dirigere i lavori di ricostruzione delle opere di sistemazione idraulico-forestale ed agraria, sulle quali si incardina la regimazione idraulica della collina e della montagna.
Nonostante le tante, troppe chiacchiere sulle ‘eccellenze’ della nostra agricoltura, numeri alla mano si scopre che la situazione del nostro settore primario (non dell’agroalimentare complessivo, comprensivo della trasformazione industriale) non è affatto rosea. Ortofrutta in primis. Non lo dico io, lo dice il Crea che per bocca del suo direttore Stefano Vaccari (su Agrisole.it) dice: “Il 2023 si conclude con stime produttive non soddisfacenti per numerosi comparti agricoli. Dopo la campagna 2022, una delle peggiori degli ultimi venti anni sotto il profilo produttivo, ci si aspettava un rimbalzo delle quantità prodotte che invece non c’è stato. Anzi, per alcuni comparti la crisi è proseguita”. Tanti i settori che presentano bilancio col segno meno: vino, cereali, olio d’oliva, per non parlare della frutta.
“Sembra dunque proseguire il trend produttivo negativo del 2022”, continua Vaccari. “L’andamento produttivo negativo del settore primario è evidente da alcuni anni”. I quantitativi prodotti (escluse la zootecnia e i trasformati come vino e olio) sono scesi da 301 milioni di tonnellate del triennio 2000-2002, ai 278 milioni del triennio 2010-2021 ai 273 milioni del triennio 2020-2022. “In sintesi, stiamo producendo mediamente il 10 per cento in meno di quello che producevamo venti anni fa, con buona pace di progresso tecnologico e sostegno pubblico al settore”. “Le riduzioni produttive hanno investito in misura differente i comparti agricoli…Sempre in venti anni, abbiamo perso il 20% della produzione di uva da tavola, il 30% di pesche e il 50% di pere. Solo per le mele assistiamo ad un leggero incremento (3%) in venti anni. Anche per le ortive l’andamento è in larga parte negativo: nell’ultimo triennio 2020-2022 abbiamo prodotto 290mila tonnellate in meno di pomodoro e 578mila di patate in meno rispetto al triennio 2000-2002. Produciamo molte meno carote, melanzane e cipolle di quelle che producevamo venti anni fa. Nel comparto delle ortive crescite significative si sono riscontrate in pratica solamente per le produzioni di cavoli e zucchine”.
Le elezioni europee si avvicinano e, a circa sei mesi dalla data delle votazioni, se ne avvertono sin d’ora i segnali. La politica nazionale è in fermento originando un perpetuo cicaleccio inconcludente e, sostanzialmente, molto povero di reali proposte programmatiche. La storia delle elezioni europee è ormai lunga e meriterebbe un’attenta riflessione per comprenderne l’evoluzione e le conseguenze sullo sviluppo dell’Ue e delle sue politiche, in primis della “figlia primigenia” dell’Ue, la politica agricola comune, PAC. Ad ogni tornata elettorale si rende più evidente che il peso del Parlamento Europeo, è sempre più consistente e, allo stesso tempo, che vi è scarsa conoscenza dei meccanismi istituzionali europei, motivo non ultimo del disamore e delle incomprensioni fra i comuni cittadini e le sedi della politica europea.
Il momento di queste elezioni è fra i più complessi e incerti. L’Italia, l’Ue e il mondo intero rimbalzano da una crisi all’altra. Le conseguenze di quella economica del 2007/2008 sembravano, dopo oltre un decennio, in via di superamento quando è esplosa la crisi sanitaria del COVID-19, affrontata e combattuta con pesanti e incisive misure economiche. Mentre se ne stava uscendo a fatica nel 2022 scoppia, inattesa, ma non imprevedibile nelle onde lunghe della storia, la guerra russo/ucraina che frena la ripresa e fa crescere il debito pubblico mondiale e l’incertezza. Come conseguenza, non l’unica, in pochi mesi si sviluppa un’impennata inflazionistica su scala mondiale. Il ricorso un po’ tardivo alle contromisure monetarie con la crescita dei tassi di interesse rallenta la ripresa e sembra efficace, ma fa salire il costo del denaro e quindi l’indebitamento pubblico. Ai primi di ottobre, dopo l’attacco di Hamas ad Israele, si apre un altro conflitto fra Israele e una parte del mondo arabo. Gli equilibri mondiali in atto dalla fine della seconda guerra mondiale cedono perché vecchi conti ancora aperti non sono stati chiusi. Tutto sembra congiurare per scatenare due crisi gemelle: energetica e alimentare. I sottoalimentati, scesi nel 2017 al minimo di 565 milioni di persone su una popolazione mondiale di 7,5 miliardi (7,5%) salgono a 750 milioni su 8 miliardi nel 2022 (9,3%).
Il quadro generale si oscura sempre più, specialmente se si considera che la transizione energetica e quella ambientale sono state avviate nel tentativo di contrastare l’andamento climatico.
In un contesto sempre più incerto, tuttavia, si notano segnali di possibili evoluzioni, imprevisti passaggi positivi.
Il 12 dicembre si è conclusa a Dubai (Emirati Arabi Uniti) la 28esima Conferenza delle Parti, l’incontro che vede i Paesi del mondo riunirsi per discutere gli interventi per contrastare il cambiamento climatico. Una COP28 delle contraddizioni e delle prime volte, potremmo dire. Delle contraddizioni, perché organizzata in un paese la cui ricchezza è basata sull’estrazione del petrolio e presieduta dall’amministratore delegato della principale azienda petrolifera emiratina. Delle prime volte, perché sono state dedicate intere giornate a temi che finora non erano mai stati affrontati così ampiamente. Stare al passo con le montagne russe di eventi che si sono susseguiti nell’arco di due settimane, dal 30 novembre al 12 dicembre, non è facile. Ma andiamo con ordine.
Questa COP era partita con molto entusiasmo con l’adozione, durante la prima sessione plenaria, del Loss and Damage Fund (fondo a compensazione di perdite e danni) a favore dei Paesi più fragili. Proposto nella precedente COP27, prevede l’istituzione di un fondo che vada ad aiutare economicamente quei Paesi che più risentono della crisi climatica in termini di danni, ma che meno contribuiscono alle emissioni. L’obiettivo è stanziare 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2030; purtroppo siamo ben lontani dal raggiungerlo. Per dare qualche numero, l’Unione Europea ha promesso 225 milioni, gli Emirati Arabi Uniti 100 milioni, il Giappone 10,5 milioni e gli USA (solo) 17,5 milioni di dollari. E l’Italia? A sorpresa, la premier Giorgia Meloni ha dichiarato che il nostro Paese metterà a disposizione 100 milioni di euro. Resta tuttavia da capire che forma prenderanno questi finanziamenti.
Durante la prima settimana di COP28 si è parlato anche di finanza climatica, just transition, diritti umani, dell’importanza della biodiversità e del ruolo delle comunità indigene, oltre a dedicare – per la prima volta – due giornate al tema della salute e a quello dell’agricoltura e sistemi alimentari. Proprio quest’ultimo aspetto ha fatto sì che si parlasse di “COP del cibo”: nonostante il settore agricolo sia considerato allo stesso tempo causa e vittima dei cambiamenti climatici, non gli era mai stato dato ampio spazio all’interno di una COP sul clima.
I ricercatori dell’Università KAUST (King Abdullah Science and Technology) hanno trovato una soluzione rimedio che consentirebbe alle zone aride di utilizzare acqua salata per coltivare. La soluzione sta in un fungo micorrizico, per la precisione, il Piriformospora indica (sinonimo di Serendipita indica). Questo micete permette alle piante di aumentare la loro tolleranza al sale, attraverso una relazione simbiotica che favorisce l’accrescimento in condizioni di stress, in questo caso causato dall’irrigazione salina.
Nel suo intervento alla COP 28, il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha dichiarato che la sfida che dobbiamo affrontare è quella di garantire “healthy food” per tutti. Quindi non solo cibo “safe”, sicuro dal punto di vista igienico-sanitario, ma anche “healthy”, un cibo che abbia valore salutistico e sia benefico per la nostra salute. Questa è una distinzione molto importante e seria.
Pagliai – Non c’è dubbio che il concetto di fertilità del suolo, cioè l’attitudine di un suolo a produrre, si sia notevolmente evoluto. Un tempo si diceva che un suolo fertile era dotato di tutti quegli elementi nutritivi in forma facilmente assorbibile dalle radici che consentivano alle piante stesse di crescere vigorose. Un concetto non sempre chiaro e che spesso veniva confuso con la produttività del suolo che, invece, è la capacità di fornire produzioni di biomassa ottimali su basi di pratiche di gestione standard. La produttività di un suolo dipende sia dalla sua fertilità, sia da fattori esterni come il clima, la disponibilità di acqua, ecc. Ad esempio, la scarsa fertilità si può migliorare con l’aggiunta di fertilizzanti mentre la carenza idrica con l’irrigazione.
In sostanza, il suolo era considerato pressoché esclusivamente quale supporto per le piante e, quindi, la sua funzione era quella di produzione di biomassa, in particolare nei settori dell’agricoltura e della selvicoltura.
Costantini – La fertilità dei suoli è molto variabile e spesso limitata da uno o più fattori. I suoli altamente fertili coprono solo il 3% della superficie terrestre del mondo, ma producono più del 40% del cibo globale. Nel corso dei secoli la fertilità naturale del suolo, basata essenzialmente sul suo contenuto in sostanza organica, accumulatosi nei millenni, è andata diminuendo. Si stima che fino al 75% del contenuto originale in humus dei suoli sia andato perso (circa 135 miliardi di tonnellate di carbonio), essenzialmente a causa della loro coltivazione. Perdite che si sono notevolmente accentuate quando le lavorazioni del suolo si sono approfondite e l’apporto o il riciclo di sostanza organica ridotto o annullato, e rese ancora maggiori dall’erosione del suolo.
La superficie coltivata globale pro-capite è diminuita costantemente fino a ridursi mediamente a livello globale a meno di 0,20 ettari pro capite; parallelamente, la resa ad ettaro ha superato le 42 t/ha di cereali. L’incremento di produttività è avvenuto tramite un costante aumento dell’input energetico e tecnologico, sotto forma di un impiego sempre più elevato di acqua irrigua, fertilizzanti, antiparassitari e macchinari agricoli, a scapito però della conservazione del suolo. L’Unione Europea stima che il 61-73% dei suoli europei mostrino uno o più segni di degradazione.