L'impatto sulla catena alimentare della contaminazione da lubrificanti a base di oli minerali, carburanti e prodotti tecnici vari diventa ogni giorno più evidente. In letteratura sono disponibili numerosi studi sulla contaminazione di numerose filiere agro alimentari.
La polifonia di voci che provengono da settori diversi del mondo scientifico, da quello agronomico, forestale, economico fino a quello medico, converge all’unisono sulla imprescindibilità oggi di azioni pubbliche mirate a tutelare, valorizzare e potenziare la forestazione urbana in funzione dei molteplici servizi ecosistemici che la stessa eroga, attraverso una adeguata, consapevole pianificazione e progettazione a breve e a lungo termine condotta con il supporto indispensabile di esperti della materia e coinvolgendo i cittadini in una logica partecipativa altrettanto irrinunciabile.
Ma in concreto cosa deve fare un’amministrazione comunale che voglia muoversi in questa direzione? Avere l’illuminata umiltà di applicare le norme di hard e soft law che le indicano chiaramente cosa fare, quali strumenti utilizzare, quali indicazioni seguire per una corretta pianificazione, progettazione, manutenzione, come prevenire e affrontare le criticità legate all’invecchiamento delle piante, andando oltre i limitati sia pur meritori confini degli antesignani strumenti del diritto urbanistico.
Come già segnalato in precedenti puntate del mio reportage sulla forestazione urbana, queste norme esistono già fin dal 2013, contenute nella legge 14 gennaio 2013, n. 10, che reca il titolo Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani, corredate nel 2018 dalle Linee guida per la gestione del verde pubblico, e dalla Strategia nazionale del verde pubblico, documenti gli ultimi due egregiamente redatti dal Comitato per il Verde pubblico creato da quella legge e composto da esperti della materia, incardinato presso il Ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica.
Il più comune e dannoso Lepidottero presente negli oliveti è Prays oleae Beranard 1788, noto come Tignola dell’olivo, che svolge tre generazioni annue rispettivamente a spese delle mignole (antofaga), dei frutti (carpofaga) e delle foglie (fillofaga).
I nuovi ricchi trovano chi a loro offre delle nuove pizze che devono dimostrare di avere qualche cosa di particolare, se non unico e solo a loro riservato. Da qui componenti quali il caviale, l’aragosta, alcuni frutti esotici e l’oro zecchino.
Il vero patrimonio dell’Accademia dei Georgofili, nella sua unicità, è innegabilmente costituito dal proprio Archivio storico, dall’insieme delle comunicazioni, relazioni, dibattiti, confronti e concorsi che hanno animato il Sodalizio sin dalla sua fondazione, avvenuta nel 1753.
È una raccolta che narra non solo l’impegno profuso dai suoi membri per il miglioramento di tutti gli ambiti che afferiscono all’agricoltura (dall’economia alla gestione del territorio, dalla sicurezza alimentare alle innovazioni colturali e tecnologiche), quanto soprattutto le relazioni, scientifiche ed anche private, intercorse tra gli accademici sparsi in tutto il mondo.
Il valore del patrimonio conservato non è misurabile tanto in numeri (oltre 12.000 documenti solo nelle 196 unità (buste) che compongono l’Archivio storico dei Georgofili, quanto piuttosto in contenuti, espressi nel primo secolo e mezzo di vita dell’Accademia ed ancora oggi oggetto di studio, di riflessione e di spunto in molti campi delle scienze.
Attualmente, seguendo l’organizzazione e l’impostazione con cui è stato redatto l’inventario a stampa negli anni ’70 del XX secolo e le successive attività di riordino, il materiale è suddiviso in Archivio storico (1753-1911) e Archivio storico - Sez. contemporanea (1900-1960).
Ci sono poi i diversi Fondi aggregati (Giuseppe Tassinari, Ippolito Pestellini, Giulio del Pelo Pardi solo per citarne alcuni), in parte inventariati, in parte in attesa di analisi e sistemazione, che sono ulteriore fonte di materiale per gli studi di settore.
L'Unione Europea ha da tempo messo all'ordine del giorno il preoccupante problema dell'erosione delle specie viventi e, in particolare, delle specie vegetali.
Si può cominciare con la citazione della Risoluzione del Parlamento europeo del 21 settembre 2010 sull'applicazione della normativa UE per la conservazione della biodiversità (2009/2108(INI), mediante la quale il Parlamento manifestava la propria profonda inquietudine per la mancata attribuzione del carattere di urgenza, nell'ambito dell'agenda politica internazionale, alle iniziative volte ad arrestare la perdita di biodiversità. Da questo momento in poi si assiste ad una accelerazione delle decisioni europee in merito alla biodiversità. Nell' ottobre del 2016, in vista della riunione delle parti della Convenzione sulla diversità biologica e relativi protocolli, che si terrà a Cancùn, Messico, nel dicembre successivo, i Ministri dell'Ambiente dell'Unione Europea sottolineano la necessità di agire a livello internazionale per fermare la perdita di biodiversità. Questo Consiglio dei Ministri europei dell'Ambiente sarà lo stesso organismo che nel dicembre 2019 invita la Commissione Europea a elaborare senza indugio una strategia dell'UE per la biodiversità per il 2030, ambiziosa, realistica e coerente quale elemento centrale del Green Deal europeo. L'8 giugno del 2020 i ministri UE dell'Agricoltura accolgono con favore la strategia della Commissione sulla biodiversità. Ciò autorizza la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen a condividere, nell'ambito del vertice delle Nazioni Unite sulla biodiversità, tenutosi nel settembre 2020 a New York, che la perdita di biodiversità e il degrado degli ecosistemi richiedono misure urgenti e immediate a livello mondiale.
Il riassunto sommario delineato sin qui vuole solo sottolineare le premesse di quel Patto verde europeo, che va sotto il nome di Green Deal, e che include una serie di proposte di modifica di varie attività produttive, tutte convergenti al raggiungimento della neutralità climatica entro il 2050. Due strategie fondamentali del Green Deal sono rappresentate dal Farm to Fork, indirizzato sostanzialmente all'agricoltura, e alla Biodiversity, che mira, come detto, al blocco della perdita di diversità di forme di vita sul pianeta e al loro ripristino.
Leggiamo su Poultry Science (Jing liu et al., 2022, Poultry Sci., 101(9), 102040) che l’albero della gomma (Hevea brasiliensis), oltre ad essere fonte preziosa di caucciù, produce dei semi ricchi di un olio efficace contro lo stress immunologico ed i responsi infiammatori da lipopolisaccaridi nelle galline ovaiole.
Coltivare e allevare per aiutare l’emancipazione delle persone più fragili: è la funzione dell’agricoltura sociale. Questa recupera i valori che l'agricoltura aveva nella società rurale – solidarietà, integrazione, valorizzazione delle relazioni interpersonali – e la mette a disposizione dei servizi alla persona. Attraverso iniziative promosse da aziende agricole e quelle del terzo settore (cooperative sociali, Associazioni di volontariato, altri Enti no-profit) intende favorire il reinserimento terapeutico di soggetti diversamente abili nella comunità e, al contempo, produrre beni.
Lo scorso 20 giugno 2023 l'Accademia dei Georgofili ha organizzato un Webinar dedicato all'uso dei dati nelle aziende agricole. L'iniziativa ha avuto l'obiettivo di condividere gli aggiornamenti sulle imminenti disposizioni della Politica Agricola Comunitaria, che prevedono l'inserimento obbligatorio di dati aziendali ai fini delle erogazioni e l'uso di strumenti di gestione delle informazioni a fini di supporto tecnico.
Gli agricoltori, che gestiscono processi molto complessi perché legati ai cicli naturali, raccolgono una molteplicità di informazioni che forniscono ad amministrazioni pubbliche, a fornitori e a clienti, ma usano una minima parte di questi dati. La conseguenza è che la raccolta delle informazioni è vista come un peso e una fonte di costi. Oggi sta crescendo la consapevolezza che l’uso dei dati può avere un grande valore, tanto economico quanto ambientale che sociale, e anche per gli agricoltori avere la possibilità e la capacità di usare questi i dati sarebbe un motore fondamentale di crescita.
Nella grassa Bologna ancora oggi si passeggia sotto il portico del Pavaglione che deve il suo nome alla Piazza del Pavaglione, attuale Piazza Galvani, ove fin da metà del XV secolo si tiene il mercato di bachi da seta (Bombyx mori), quando i poveri delle campagne mangiano il pan di seta per il quale sono usati anche i bachi.
La ricerca nel settore del verde urbano è un campo interdisciplinare che si concentra sullo studio e la gestione di alberi e spazi verdi in ambienti urbani, ma comprende studi in discipline all’apparenza molto distanti dall’arboricoltura e dalla selvicoltura urbana. Sebbene siano stati compiuti progressi significativi nella comprensione dei vantaggi delle foreste urbane, ci sono ancora diverse lacune nella ricerca che devono essere affrontate per la pianificazione, progettazione, realizzazione e gestione delle aree verdi per le città del futuro.
Ad esempio, poco si sa degli impatti a lungo termine delle aree verdi: molti studi si concentrano sui benefici a breve termine, come il miglioramento della qualità dell'aria o la mitigazione dell'isola di calore. Tuttavia, sono necessari studi a lungo termine per comprendere gli impatti sostenuti delle foreste urbane sull'ambiente, sulla salute umana e sulla sostenibilità urbana complessiva. Gli studi longitudinali, ma provenienti da saperi trasversali, possono fornire preziose informazioni sull'efficacia dei progetti di “greening” urbano per periodi prolungati.
Il 20 giugno 2023 è stato firmato a Roma, presso il Palazzo del Quirinale, un protocollo d’intesa finalizzato all’istituzione della “Giornata nazionale della transumanza”. I firmatari del protocollo sono l’Accademia dei Georgofili, l’Università del Molise e l’Associazione Italiana Allevatori.
La firma è il risultato di anni di studi e ricerche culminate nel convegno “Ripensare la transumanza” che si è svolto lo scorso ottobre presso la Tenuta Presidenziale di Castelporziano, il cui scopo è stato quello di far conoscere all’intera società italiana la transumanza, con le sue usanze, i suoi valori culturali e le sue tradizioni.
Il Presidente dell’Accademia dei Georgofili, Massimo Vincenzini, ha voluto così sottolineare l’importanza dell’istituzione di una giornata nazionale dedicata alla transumanza: “Quello dello spostamento di animali e uomini secondo un preciso calendario stagionale è un importante esempio di fenomeno di rilevanza storica in moltissimi Paesi del nostro Pianeta, con origini che si spingono indietro nel tempo per diversi secoli, fino all’Età del bronzo. Per limitarci alle zone a noi più vicine, Europa e area mediterranea, la transumanza si è affermata un po’ ovunque, ora come fenomeno periodico tra territori di alta montagna (Alpi, Pirenei, Carpazi) e le vallate sottostanti, ora come fenomeno di spostamento degli animali tra pascoli tra loro distanti anche varie centinaia di chilometri (Italia, Grecia e Francia meridionale). Sempre, comunque, segnando profondamente i territori interessati e favorendo gli insediamenti umani lungo i diversi percorsi. In tal modo, ovunque sia stata o sia ancora praticata, la transumanza ha generato un insieme di valori che fanno giustamente parte del patrimonio identitario delle popolazioni e dei territori coinvolti”.
L'intelligenza artificiale (AI) sta acquisendo sempre maggiore importanza in vari settori e quello del verde urbano non fa eccezione. Man mano che le città continuano a crescere ed espandersi, la necessità di una gestione e conservazione efficiente ed efficace degli alberi diventa sempre più importante. Conosciamo bene i benefici prodotti dal verde urbano, tuttavia la gestione degli spazi verdi può essere un compito impegnativo e laborioso. È qui che entrano in gioco le soluzioni robotiche basate sull'intelligenza artificiale, che possono rivoluzionare il modo in cui affrontiamo la gestione e la conservazione degli alberi negli ambienti urbani.
Una delle sfide principali è l'identificazione e la valutazione delle specie arboree, della salute e dei fattori di rischio. Tradizionalmente, questo è un processo lungo e laborioso, che richiede l'ispezione fisica di ogni albero da parte di arboricoltori esperti. La robotica basata sull'intelligenza artificiale può semplificare notevolmente questo processo utilizzando algoritmi avanzati di riconoscimento delle immagini e apprendimento automatico per identificare in modo rapido e accurato le specie arboree, valutarne la salute e determinare i potenziali rischi. Ciò non solo consente di risparmiare tempo e risorse, ma consente anche di prendere decisioni più proattive e informate quando si tratta di manutenzione e conservazione degli alberi.
Oltre all'identificazione e alla valutazione degli alberi, la robotica basata sull'intelligenza artificiale può anche aiutare nella cura delle foreste urbane. Ad esempio, i droni dotati di tecnologia AI possono essere utilizzati per monitorare in modo efficiente la salute degli alberi, identificare le infestazioni di parassiti e persino applicare trattamenti mirati alle aree colpite, ovviamente laddove è tecnicamente e legalmente possibile. Inoltre, la robotica basata sull'intelligenza artificiale può essere utilizzata per eseguire attività come la potatura e la rimozione degli alberi, che possono essere pericolose e laboriose se eseguite da lavoratori umani.
Il Parlamento italiano ha alcuni giorni fa approvato un emendamento che apre alla sperimentazione in campo delle piante ottenute tramite le cosiddette TEA, Tecnologie di Evoluzione Assistita, che in Europa vengono chiamate New Genomic Techniques e che in passato erano chiamate New Breeding Techniques.
Perché dobbiamo essere felici di questa decisione? Cisgenesi e il genome editing tramite CRISPR/Cas, che sono le due tecniche che in Italia abbiamo ricompreso nella definizione di TEA, ci permettono di modificare in maniera mirata singoli geni o addirittura singole basi del DNA all’interno dei geni ottenendo risultati che sono indistinguibili da quelli che potremmo ottenere per incrocio o per mutazione spontanea ma molto più velocemente e in maniera più precisa, ossia senza effetti collaterali indesiderati. E possiamo usare queste tecnologie per rendere le piante più resistenti ai patogeni, per renderle più tolleranti alla siccità, per renderle capaci di meglio sfruttare i fertilizzanti azotati ed anche per renderle capaci di meglio sfruttare l’energia solare attraverso il processo della fotosintesi. Tutte modificazioni che ci possono permettere di migliorare la sostenibilità delle produzioni agricole e diminuire l’impatto ambientale dell’agricoltura.
Noi oggi stiamo sfruttando il capitale di risorse naturali del nostro pianeta in maniera non sostenibile, ossia stiamo consumando più risorse naturali di quante non se ne rigenerino spontaneamente. Ce lo fa capire in maniera formale l’equazione dell’impatto globale che mette a confronto l’impronta ecologica delle attività umane con la capacità rigenerativa della biosfera. Oggi l’impronta è pari a 1,6 volte la capacità rigenerativa della biosfera. Ciò vuol dire che stiamo intaccando profondamente il nostro capitale di risorse naturali e più lo intacchiamo più la diseguaglianza aumenta. Dell’impatto sull’ambiente delle attività umane una grossa parte è legata alla produzione di alimenti, anche se comunemente tendiamo a pensare ad altre attività economiche come principali responsabili del degrado ambientale. Il sistema agroalimentare è responsabile, secondo stime recenti, del 34% delle emissioni totali di gas clima-alteranti. Di questo 34% il 71% è dovuto alla sola produzione primaria, cioè alle attività agricole. A ciò si devono assommare, fra gli altri, gli effetti sulla perdita di biodiversità dovuti principalmente alla messa a coltura di superfici che vengono sottratte al loro ruolo di ospiti di ecosistemi naturali che sono sempre molto più ricchi in biodiversità di quanto non lo possa essere un sistema agricolo e gli effetti sulla fertilità dei suoli che tende a diminuire per effetto di molte delle attuali pratiche agricole.
Come possiamo fare per riportare almeno in parità l’equazione? Visto che diminuire la popolazione non si può e diminuire l’attività economica sarebbe assai impopolare, non ci resta che giocare sull’efficienza con cui sfruttiamo le nostre risorse naturali per produrre beni e servizi, in altre parole ricchezza o nel caso specifico cibo. E a cosa corrisponde l’efficienza? A scelte politiche e soprattutto ad innovazione tecnologica.
L'Accademia dei Georgofili ha recentemente realizzato e messo liberamente a disposizione degli interessati sul proprio portale (www.georgofili.it) un documento dedicato al bilancio del carbonio in agricoltura, che presenta vari casi di studio recentemente analizzati e sostenuti da dati numerici e scientifici.
Un nuovo futuro per un cibo antichissimo?
Il 28 marzo 2023 il Consiglio dei ministri ha approvato “con procedura d'urgenza” un disegno di legge che vieta la vendita, commercializzazione, produzione e importazione di alimenti artificiali. Nei comunicati stampa, si è preferito parlare di «carne sintetica».
Facciamo il punto.
In primo luogo, la terminologia. Per la preparazione e l’etichettatura degli alimenti non esiste una nozione di artificiale né di sintetico a livello italiano o europeo. A nessuno verrebbe in mente di definire Louise Brown, la prima persona al mondo a essere stata concepita con la fecondazione in vitro, e gli altri 8 milioni di individui concepiti con lo stesso metodo come “persone sintetiche”.
In effetti, sarebbe più corretto parlare, per distinguerla da quella di allevamento, di carne «coltivata» (nell’opzione di marketing rassicurante) o carne «di laboratorio» (nell’opzione ansiogena). La FAO suggerisce “a base di cellule”. Si tratta infatti di un prodotto di carne animale originata da cellule di un animale, non necessariamente ucciso né geneticamente modificato, sviluppata secondo un procedimento biologico in un ambiente confinato. La scienza necessaria alla produzione di questa carne altro non è che una derivazione di una branca delle biotecnologie nota come ingegneria dei tessuti che mira a trovare possibili applicazioni mediche come nell’ambito della ricerca contro la distrofia muscolare o della produzione di organi per trapianti o pelle per ustionati. In linea teorica si può infatti creare in laboratorio il tessuto muscolare di qualsiasi animale, incluso l'essere umano.
In secondo luogo, perché vietarla oggi e d’urgenza? Una rapida ricerca permette di scoprire che, sebbene diversi progetti di ricerca siano già riusciti nella produzione di carne in laboratorio, sia in Europa che negli Stati Uniti, ad oggi solo Singapore ne ha autorizzato il consumo, dopo due anni di sperimentazione: si tratta di bocconcini di pollo, venduti in un unico ristorante della città-stato.
Il “paesaggio” è una evoluzione linguistica cinquecentesca delle pitture di paese che raffiguravano un territorio per finalità estetiche. Il lemma rimase a lungo oggetto della pittura, anche se si diversificherà occupando gli spazi della soggettività (l’esempio più noto è nella ascensione di Petrarca al Mont Ventoux) o quelli oggettivi delle attività umane per cui la vista di un “paese è cosa artificiata, e diversa molto da quella che sarebbe in natura” (Leopardi).
A lungo considerato tra i beni di interesse artistico, sarà a partire dalla legge Croce del 1922 che verrà definito cosa diversa dal “panorama storico artistico”. Gli scritti di Salvatore Settis sono necessari a seguire un’evoluzione che lo avvia a essere espressione sistemica della realtà naturale, della sua evoluzione storica, della cultura che su di essa è intervenuta e ne è stata improntata. Altre leggi seguiranno: la Bottai del 1939, la Galasso nel 1985, il Codice dei beni culturali e del paesaggio nel 2004. Da una visione riduttivamente estetica si è divenuti attenti all’ecologia, all’economia, al territorio confermando in definitiva quanto era implicito nell’articolo 9 della Costituzione del 1948 che afferma “la Repubblica … tutela il paesaggio” e lo distingue da “il patrimonio storico e artistico”. In rapporto con essi diventa luogo fisico dell’interazione tra i caratteri della natura, la storia e la cultura dell’uomo che li ha modificati a proprio vantaggio per i bisogni alimentari o di materie prime, per la sicurezza, per i piaceri. Il paesaggio definisce non solo ambiti particolari ma i vasti e diffusi territori dell’agricoltura, unici in Italia per diversità biologica e fisica e per la molteplicità delle vicende storiche ed è oggetto della “Storia del Paesaggio Agrario Italiano” di Emilio Sereni. Nel primo capitolo è definito “forma che l’uomo, nel corso e ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale». Aggiorniamo la definizione: se “forma” sembra un giudizio estetico usiamo “struttura” a indicare il mosaico ecologico; al posto di “attività produttive” adoperiamo “servizi ecosistemici” con ciò rifacendoci alla multifunzionalità che adesso il Green Deal europeo invoca. Soffermiamoci quindi sull’attualità dei due avverbi che rimandano al carattere sistemico che si manifesta con l’effetto delle azioni umane sulla intera biosfera e la cognizione di operare all’interno di un sistema complesso che va oltre le parti che lo compongono.
Un singolare battage mediatico ha inopinatamente accompagnato l’attuazione del programma di interventi denominato Rimboschimento urbano e tutela del verde M2C4-31, finanziato con i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resistenza, PNRR, innescando un vortice di reazioni di strenua difesa delle scelte operate in sede ministeriale.
La nebulosità che ha avvolto tale vicenda, e che tuttora sembra, a mio parere, non del tutto fugata, rende opportuno tentare di ricostruirne i contorni in modo sintetico ma aderente al quadro delle norme di riferimento e della posizione assunta riguardo ad essa dalla Corte dei Conti: quest’ultima, lo ricordo, è intervenuta sulla questione nell’espletamento della funzione che il legislatore le ha affidato, di controllo concomitante sulle Amministrazioni dello Stato, volto ad assicurare una verifica tempestiva ed un’azione propulsiva finalizzata al corretto impiego delle risorse disponibili, comprese quelle provenienti dall’Unione Europea e rimesse alla gestione pubblica, al fine di intercettare nelle gestioni in corso di svolgimento e, ove possibile, prevenire, attraverso un dialogo aperto e collaborativo con le stesse Amministrazioni, gravi irregolarità gestionali o gravi deviazioni da obiettivi, procedure o tempi di attuazione stabiliti da norme nazionali, dell’Unione Europea, o da direttive del Governo, e suggerire interventi correttivi in corso d’opera tali da poter determinare il mancato avverarsi o l’interruzione di situazioni illegittime o pregiudizievoli. Ricostruiamo in modo sintetico la vicenda per comprendere meglio i termini della vexata quaestio sulla quale polarizzare l’attenzione.
L’esigenza di mitigare l’inquinamento atmosferico, l’impatto dei cambiamenti climatici, la perdita di biodiversità, e la consapevolezza che tali derive ambientali toccano in maniera particolarmente incisiva le città metropolitane, ha ispirato la previsione nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza dell’Investimento 3.1 “Tutela e valorizzazione del verde urbano ed extraurbano”, collocato all’interno della Linea di intervento n. 3 “Salvaguardare la qualità dell’aria e la biodiversità del territorio attraverso la tutela delle aree verdi, del suolo e delle aree marine” della Componente n. 4 “Tutela del territorio e della risorsa idrica”, la quale a sua volta si inserisce nell’ambito della Missione n. 2 “Transizione ecologica e rivoluzione verde”.
Le vinacce, uno dei principali e più ingombranti scarti della filiera vitivinicola, da tempo costituiscono per le aziende un fastidioso fardello di cui disfarsi, con grave dispendio economico e impattanti ripercussioni ambientali. La ricerca scientifica ha tentato negli anni di indicare una strada per mitigare i deleteri effetti dell’accumulo delle vinacce, proponendone un possibile riciclo nell’ottica dell’economia circolare.
Nell’Ottocento i cereali raramente hanno rese che superano i millecinquecento chilogrammi per ettaro. Soltanto nel Millenovecento si ha una svolta grazie alla ricerca e all’applicazione del metodo scientifico alla coltivazione agricola che consentono di studiare e di utilizzare le informazioni dei caratteri ereditari.
Le varietà antiche sono grani che erano diffusi in un tempo non necessariamente remoto, e che oggi non lo sono più perché caratterizzate da rese per ettaro basse e perché poco adatte ad una coltivazione intensiva. L’aggettivo “antico”, dunque, è usato impropriamente ed ha una connotazione più commerciale che reale. Sarebbe preferibile indicare queste varietà come varietà autoctone o landraces. Dopo la “rivoluzione verde” della metà del XX secolo, le varietà autoctone di frumento sono state progressivamente sostituite con cultivar a taglia bassa più produttive. Questo ha comportato una progressiva erosione genetica (perdita di variabilità) dovuta all’eccessiva uniformità varietale e all’alto grado di specializzazione degli agroecosistemi.
I risultati recentemente ottenuti in frumento rimarcano la necessità di esplorare l’ampia biodiversità che caratterizza le risorse genetiche poco sfruttate o inesplorate in modo da utilizzarla nei programmi di breeding. Le varietà autoctone, infatti, sono dotate di capacità di adattamento ambientale, di tolleranza agli stress e di peculiari caratteristiche qualitative, e rappresentano una potenziale fonte di alleli favorevoli per lo sviluppo di nuove combinazioni genotipiche (varietà). La necessità di garantire la conservazione a lungo termine delle varietà autoctone di frumento appare, pertanto, indispensabile.
Il Comitato per lo sviluppo del verde pubblico del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica ha lanciato una consultazione pubblica il cui obiettivo è quello di individuare le criticità per lo sviluppo del verde pubblico in aree urbane e periurbane. La richiesta mira infatti a raccogliere da associazioni, enti, operatori economici e anche privati cittadini, proposte operative per il miglioramento della qualità del verde cittadino ma anche suggerimenti di semplificazione normativa da trasmettere al governo.
Ci sono voluti dei drammatici fatti in Trentino e gli attacchi dei lupi in Toscana e poi ancora incidenti in Abruzzo per far capire che il rapporto fra fauna selvatica e territorio è una questione seria, che non si può affrontare sulla base di ideologie superficiali ancorché care al mondo variopinto dello spettacolo e della comunicazione. Oppure della retorica ecologista.
All’inizio della lettura di questo contributo il pianeta contava circa 8.034.664.100 abitanti e nel giro di circa 10 minuti ha acquisito 800 nuovi ospiti pur considerando il bilancio fra natalità e mortalità. Il trend di crescita demografico è impressionante per cui in un anno si aggiungono al pianeta circa lo stesso numero degli stessi abitanti che popolano l’Italia.
Parallelamente, le risorse naturali rinnovabili per produrre alimenti sono sempre più sfruttate e vengono richiesti sempre più acqua, terreni coltivabili, energia e tanto altro ancora. Ad oggi India e Cina assommano a oltre il 30% dell’umanità e le loro abitudini alimentari non si basano su proteine di origine animale per motivi religiosi o per tradizioni culturali.
Basta pensare che in Cina, dal 1980 il consumo di carne dai 13 kg pro-capite è cresciuto a 53 kg nel 2004 e, l'attuale tendenza, li porterà nel 2031 a equiparare i 97 kg all’anno consumati di carne dell’odierno nordamericano. L’OMS e la FAO hanno da tempo sottolineato che l’incremento dei consumi di proteine di origine animale in questi paesi renderà insostenibile la gestione delle risorse naturali aggiungendo un ulteriore pericolo per la sopravvivenza della specie umana.
Una possibile alternativa è identificare altre fonti di proteine non di origine animale o vegetale che possano sostenere sia la crescita demografica che il diritto ad una alimentazione equa senza creare problematiche di sicurezza alimentare.
Gli insetti sin da tempi remoti sono stati considerati alimenti o in molti casi dei veri e propri scrigni di principi terapeutici grazie al loro patrimonio di sostanze bioattive. Il futuro ci sta chiedendo di ripensarli come una fonte di macronutrienti utili per il sostegno alimentare specie nelle aree dove ci sono difficoltà ad ottenere gran quantità di proteine per la popolazione.
Sono oltre 2.000 le specie di insetti edibili, molti dei quali sono comuni in Africa, Asia o America del Sud, e studiarli per avere una valida alternativa e sostenere i consumi alimentari dell’umanità è un dovere per i paesi più avanzati pur se quest’ultimi non hanno ancora la necessità di usarli come fonte alimentare. L’allevamento degli insetti può sia sostenere la maggiore richiesta di proteine di qualità che la riduzione dei consumi delle risorse rinnovabili rendendosi utili in qualsiasi momento del loro ciclo di crescita a partire dalle larve e pupe potendo così ottimizzare i loro tempi di “raccolta” e utilizzo.
Oggi gli insetti come cibo sono usuali per quasi due miliardi persone nel mondo, ma per i restanti consumatori la loro accettazione come cibo è una barriera dura da superare. Il primo ostacolo è legato alla “neofobia alimentare” ovvero alla paura del nuovo in tavola; qualcosa di simile accadde agli inizi del ‘900 col rifiuto di accettare il latte pastorizzato anziché il latte crudo. Un secondo motivo di rifiuto è nell’essere semplicemente disgustati dagli insetti perché collegati ad ambienti sporchi, a fenomeni di carestie, alle bibliche invasioni e ad alcune malattie di cui sono vettori.
Eccoci ancora una volta nel giro di pochi mesi a piangere vittime di alluvioni: dopo le Marche nel settembre 2022, Ischia nel novembre scorso e ora l’Emilia Romagna si aggiungono ad una drammatica lista di disastri simili a cominciare da quello di Sarno nel 1998.
Già in occasione di quel disastro nei report scientifici e nelle analisi degli studiosi del suolo dell’epoca si leggeva, nelle loro conclusioni, che la gestione del suolo e delle risorse idriche sarebbe stata la sfida del futuro: ora possiamo dire che quella sfida l’abbiamo già persa!
La causa è sempre la stessa e ha origine intorno agli anni ’60 del secolo scorso in concomitanza del così detto “boom economico” quando il modello di sviluppo di allora portò all’abbandono di vaste aree di collina e montagna considerate marginali e quindi all’abbandono dell’agricoltura e della pastorizia perché quelle braccia erano più redditizie se impiegate nello sviluppo industriale e edilizio. Gli agricoltori rimasti nella bassa collina e nelle pianure furono indottrinati all’aumento delle produzioni, all’uso sfrenato di fertilizzanti chimici, alle monocolture con continue lavorazioni profonde con il risultato che nel tempo si è formato uno strato compatto al limite inferiore dell’aratura (“suola d’aratura”) che di fatto impedisce il drenaggio del terreno; da qui gli allagamenti di questi terreni quando piove in forma di nubifragio come ormai accade di regola.
Di fronte all’immane tragedia dell’alluvione in Romagna ci si sarebbe aspettato di tutto tranne che iniziasse un insistente botta e risposta alimentato da quello che il prof. Franco Prodi ha acutamente definito, anche su queste pagine, con un neologismo di grande effetto “la giornalistura” e cioè la dittatura dei giornalisti che senza quasi conoscere ciò di cui discettano si allineano al pensiero unico che in quel momento meglio si adatta a fare presa su un’opinione pubblica disorientata. Condividiamo questo termine e lo estendiamo a un “sistema” complesso che comprende mezzi di informazione, interessi economici dell’editoria di grande informazione cartacea e on line, vanagloria personale coltivata da giornalisti avidi di presenze su carta e in video, politica, alla costante ricerca dell’effimero consenso dei sondaggi. Non conta di che cosa si parli e il valore personale del singolo esperto, l’importante è l’obiettivo barocco del fare meraviglia.
Oggi, gettati nell’assurdo tritacarne delle notizie accanto a Prodi, un insigne fisico dell’atmosfera con particolare competenza in fisica delle nubi, vi sono i geologi troppo trascurati dal citato sistema insieme agli agronomi rumorosamente silenti, agli esperti della protezione civile con anni di esperienza in una mischia insopportabile e inconcludente insieme a sfaccendati di incerta competenza sulle più elementari realtà del nostro ambiente e delle sue componenti fisiche.
Le nostre terre appartengono all’unica grande pianura italiana dove si accentra il grosso della produzione agricola e alimentare del Paese. Qui vive una popolazione che parla dialetti diversi, ma conosce una sola lingua, quella della fatica e del lavoro, che impugna qualsiasi attrezzo e lavora a spalare il fango e l’acqua perché da subito riprendano la vita, il lavoro, l’economia, la società, senza sprecare tempo. E siamo coinvolti perché figli di questa gente e di un mondo che è il nostro.