Da alcuni anni le api trovano sempre più difficoltà a raccogliere il nettare dai fiori abitualmente visitati poiché le piante mellifere hanno notevolmente ridotto la secrezione a causa degli anomali andamenti climatici sempre più sfavorevoli all’attività dei pronubi, e di alcune attività umane che incidono negativamente sull’attività dell’alveare.
Nel 1975, Antonio Cederna espresse una verità fondamentale che rimane attuale: "Conservazione della natura significa soltanto, alla fine, conservazione dell’uomo e del suo ambiente, incolumità e salute pubblica e quindi anche, proprio per questo, progresso economico, culturale e sociale." Questa frase incapsula una visione olistica della relazione tra l'umanità e il mondo naturale, sottolineando come la protezione dell'ambiente sia intrinsecamente legata al benessere umano e al progresso della società.
Già nell’Antico Egitto è usato nella cura degli avvelenamenti da serpenti (The Brookyln Papyrus 47.218.48 e 47.218.85) e oggi il suo potenziale nutraceutico è documentato dalle ricerche di diversi studiosi che pongono questo frutto tra gli alimenti funzionali da usare nel trattamento di varie patologie e disturbi e tra queste malattie cardiovascolari, problemi legati all'invecchiamento, obesità, diabete, ulcere e vari tipi di cancro.
Essere riformisti significa capire quello che può essere cambiato adesso, e quello che si può fare nel medio lungo-periodo. E quello che non si potrà fare mai. La politica è il regno degli annunci, spesso lo sono anche le leggi quando contengono norme che sono scritte in modo tale per non funzionare mai (vedi l’art. 62 del D.L. 24 gennaio 2012 per le pratiche sleali) ma servono solo a consentire al politico di turno di fare un annuncio. L’ex ministro Maurizio Martina una volta disse: “Non farò mai annunci, parlerò solo a cose fatte”. Proposito risibile, finito subito in cavalleria, tant’è che poi il buon Martina è finito nel dorato buen retiro della FAO che è il regno degli annunci (e dei convegni).
Allora, un conto è far invertire la rotta alle politiche agricolo-ambientali dell’Europa, rimettendo la barra sulla necessità di produrre, di garantire cibo e qualità ai cittadini dell’Unione, di non farsi strozzare dagli accordi commerciali coi Paesi terzi, di non essere dipendenti da importazioni senza regole di reciprocità, di rimodulare il Green Deal voluto da Timmermans non con gli agricoltori ma “contro” il mondo produttivo. Tutto questo più o meno è stato portato a casa grazie alle proteste dei trattori in tutta Europa che hanno messo con le spalle al muro la commissione Ue, la sua presidente Ursula Von der Leyen e il commissario polacco che nessuno rimpiangerà. La baronessa tedesca si è dimostrata un’abile navigatrice politica e si ricandida a guidare la Commissione magari con una diversa maggioranza e una politica agricolo-ambientale completamente ‘rimodulata’. Ma, ci chiediamo, basterà per tacitare le proteste del mondo produttivo?
Mentre in Olanda entra in carica il governo del ‘partito dei contadini’, lo scorso 4 giugno a Bruxelles sono tornati a protestare gli agricoltori. E i risultati delle elezioni europee getteranno ulteriore benzina sul fuoco delle proteste agricole cui la nuova Commissione UE non potrà fare orecchi da mercante. Venendo a noi bisogna dire che i temi legati al mondo dell’ortofrutta sono ancora tutti lì, nonostante la buona volontà del governo Meloni e delle misure introdotte dal DL Agricoltura. Intanto – singolare coincidenza - in concomitanza con questo decreto legge alcune catene sono partite con promozioni su frutta e verdura a 0,99 cent/kg, il che significa “zero ai produttori”, in pratica un calcio negli stinchi. Poi sui temi della copertura assicurativa (e di Agricat) siamo ancora in alto mare, con l’impossibilità di assicurarsi per tantissime aziende per i costi proibitivi. Infine sui due temi collegati del prezzo equo (mai al di sotto dei costi di produzione, si dice) e della stretta sulle pratiche sleali si naviga anche qui a vista.
Tra l’acqua e il suolo si instaura da sempre una relazione profonda che costituisce “le fondamenta dei nostri sistemi agroalimentari, del nostro ambiente e della nostra stessa esistenza” (Qu Dongyu, Direttore Generale FAO). La connessione tra i due “elementi” è alla base dei processi produttivi e della sostenibilità, e comprende implicazioni importanti in termini di degrado e conservazione delle risorse, con evidenti implicazioni nella fertilità dei terreni. Ad esempio, la siccità influisce e rafforza il fenomeno dell’erosione del suolo: in Italia si perdono ogni anno circa 10 tonnellate di suolo fertile per ogni ettaro e, complessivamente, 360 mila tonnellate di carbonio.
Secondo le stime della FAO, a livello mondiale l’agricoltura attualmente è responsabile del 72% del consumo di acqua dolce. Con il crescere della popolazione mondiale, si stima che la richiesta d’acqua per questo settore aumenterà di un ulteriore 35% entro il 2050. Parallelamente a queste stime, le attuali tendenze climatiche mostrano un aumento diffuso di fenomeni di siccità (+29% dal 2000) e di eventi calamitosi come alluvioni, inondazioni e piogge intense. A livello globale, circa l’11% delle attuali superfici coltivate potrebbero essere vulnerabili alla riduzione della disponibilità di acqua e perdere parte della loro capacità produttiva (con Africa e Medio Oriente, Cina, Europa e Asia particolarmente a rischio).
Come conseguenza di una prolungata scarsità d’acqua, i territori possono andare incontro a processi di degrado del suolo fino ad arrivare alla desertificazione dello stesso. In Europa, dal 2008 si osservano processi di desertificazione sia nei paesi del Mediterraneo che dell'Europa centrale e orientale. La desertificazione non causa soltanto la perdita di fertilità del suolo, mettendo a rischio la sicurezza alimentare, ma provoca anche un impoverimento della biodiversità nel terreno e in superficie, contribuisce al cambiamento climatico a causa della perdita di carbonio dal suolo e causa indigenza e problemi di salute, che a loro volta sono motori di flussi migratori.
Proprio il suolo è la seconda grande risorsa da proteggere e valorizzare, insieme all’acqua. Il suolo è una risorsa non rinnovabile che fornisce numerosi servizi ecosistemici (cibo, materie prime, prodotti vegetali per abbigliamento e costruzione, legno, piante medicinali). Nel suolo avvengono i processi biologici, chimici e fisici che consentono la vita di vegetali e animali. Anche in questo caso, l'attività dell’uomo sta minando la qualità dei suoli e la crisi climatica ne rafforza gli effetti negativi.
I suoli si stanno degradando a causa di fenomeni come l'impermeabilizzazione, la contaminazione e lo sfruttamento eccessivo, combinati con l'impatto del cambiamento climatico e degli eventi meteorologici estremi I suoli degradati riducono la fornitura di servizi ecosistemici, il cui valore è stimato in Europa pari a circa 50 miliardi di euro all'anno.
In chi guarda un film mangiando cibi ultraprocessati o bevande zuccherine o alcooliche, la presenza delle stesse nel contesto del film anche come elemento secondario, può avere un effetto di tipo inconscio giustificatorio che tende a rinforzare il cattivo se non malefico comportamento di mangiare o assumere bevande ultraprocessate che portano a sovrappeso e obesità.
Dal suolo deriva oltre il 95% delle calorie necessarie all'umanità e circa il 50% del prodotto interno lordo mondiale dipende totalmente o parzialmente dal suolo. Ciononostante, già oltre il 60% dei suoli soffre di una o più forme di degradazione, situazione che potrebbe peggiorare a causa del previsto aumento delle pressioni antropiche e climatiche.
Dopo i record di temperature registrati a livello globale nel 2023, l'urgenza di affrontare l'impatto del cambiamento climatico sulla salute non è mai stata così evidente. Il Rapporto Europeo 2024 del Lancet Countdown sottolinea questa urgenza, dipingendo un quadro spietato dei rischi per la salute derivanti dal cambiamento climatico e della necessità di un'azione immediata.
L'Europa si trova al centro di questa crisi, con temperature in aumento al doppio della media globale. Questo riscaldamento accelerato minaccia la salute di milioni di persone in tutto il continente, amplificando il rischio di malattie e mortalità. Fondato nel 2021, il Lancet Countdown Europe ha monitorato con diligenza l'intersezione tra cambiamento climatico e salute, con l'obiettivo di stimolare i leader europei a prioritizzare gli sforzi di mitigazione e adattamento.
Sulla base del suo rapporto inaugurale del 2022, il Lancet Countdown ora monitora 42 indicatori, fornendo una valutazione completa degli impatti sulla salute del cambiamento climatico. Questi indicatori mettono in luce non solo le conseguenze negative dell'inazione, ma anche le evidenti disparità nella risposta al clima tra le nazioni europee.
In modo cruciale, il rapporto identifica opportunità mancate per tutelare e migliorare la salute pubblica attraverso azioni mirate sul clima e offre una comprensione sfumata dell'interazione complessa tra clima e salute.
Inoltre, il rapporto getta luce sul carico disuguale sopportato dalle comunità marginalizzate all'interno dell'Europa. Mettendo in risalto gruppi a rischio e sottolineando il contributo sproporzionato dell'Europa alla crisi climatica, sottolinea l'urgenza di affrontare il cambiamento climatico attraverso una lente di equità e giustizia.
Aree chiave di preoccupazione evidenziate nel rapporto includono la sicurezza alimentare, le emissioni del settore sanitario e l'urgente necessità di investimenti in energie pulite. Sottolineando l'interconnessione tra azione climatica e salute pubblica, il Lancet Countdown sottolinea che le due non sono imperativi mutualmente esclusivi ma piuttosto mutualmente rinforzanti.
Forse ancora più importante, il Lancet Countdown si presenta come un appello all'azione. Sottolinea che il tempo per misure incrementaliste è passato e che è necessaria un'azione audace e trasformativa per mitigare gli impatti sulla salute del cambiamento climatico. Dalle politiche alle iniziative basate sulla comunità, il rapporto sottolinea l'importanza di un'azione collettiva a tutti i livelli per tutelare la salute e il benessere delle generazioni presenti e future.
I fautori dell'agricoltura verticale promettono una vera e propria rivoluzione nel mondo agricolo. Gli investitori stanno scommettendo sul suo successo, e molti analisti prevedono tassi di crescita notevoli nel settore. L’agricoltura verticale, infatti, risponde al desiderio di industrializzazione dell’agricoltura che molti investitori hanno sempre sognato.
Grazie a un ambiente chiuso e controllato, con l'agricoltura verticale si può chiudere quasi completamente i cicli dei processi. La presenza di agenti patogeni esterni può essere drasticamente ridotta, eliminando così la necessità di usare pesticidi. I sistemi chiusi dell'agricoltura verticale permettono di applicare i principi dell'agricoltura di precisione in modo estremo, rendendo i processi agricoli più prevedibili e gestibili, e possono fornire un’enorme quantità di dati utile a modellizzarli.
I veri punti critici dell’agricoltura verticale sono il costo dell’energia, in quanto l’agricoltura verticale non beneficia dell’illuminazione naturale, cosa che rende questa industria dipendente dall’industria dell’energia, e il costo del capitale, il cui rapporto con gli altri fattori è molto superiore a quella dell’agricoltura tradizionale.
Per capire gli sviluppi futuri dell’agricoltura verticale bisogna analizzare in che modo i principali megatrends potranno influenzarne l’adozione su scala globale. La convergenza di tecnologie digitali, genetiche, energetiche e dell’economia circolare è alla base dell’agricoltura verticale. Le tecnologie digitali, come l’Internet delle Cose (IoT) e l’intelligenza artificiale, permettono un monitoraggio e una gestione ottimali delle colture. Le tecnologie genetiche, anche grazie alla grande mole di dati che vengono raccolti, possono contribuire a sviluppare piante più adatte alla coltivazione verticale. Utilizzando principalmente energia elettrica, l'agricoltura verticale può sfruttare più facilmente le fonti di energia rinnovabile, soprattutto laddove si possa utilizzare l’energia in eccesso rispetto alla capacità di assorbimento della rete. Inoltre, è possibile il riutilizzo di acqua, Co2 e ossigeno.
Pur senza stabilire un più o meno stretto o quasi indissolubile rapporto tra sviluppo del cervello e presenza frugivora nella nostra alimentazione, un indubbio interesse hanno le recenti ricerche sui rapporti che esistono tra e il nostro cervello e alcuni frutti antichi, come quelli di bosco, e tra questi la fragola che con i moderni sistemi di coltivazione non è più una rarità, ma è un cibo comune ampiamente disponibile.
Il 19 aprile scorso Tom Howarth, collaboratore della rivista mensile britannica “BBC Science Focus”, ha pubblicato un interessante articolo riguardo all’importanza futura della presenza del latte di cammella nella nostra alimentazione, soprattutto in conseguenza dei cambiamenti climatici e di tutto ciò che ne consegue a livello globale. Il titolo è fiduciosamente lapidario: “Why camel milk could soon become the world’s most essential drink”.
Pagliai – Caro Enrico che bello ritrovarsi ancora una volta a parlare di agricoltura! Sembra quasi continuare un dialogo iniziato 60 anni fa nei corridoi di quel mitico Istituto Tecnico Agrario di Grosseto. Ma lasciamo l’emozione e veniamo a noi e, a proposito di ricordi, noi apparteniamo a quella generazione alla quale i nostri Maestri di Agronomia nelle loro lezioni all’Università ci dicevano che “con la modernizzazione dell’agricoltura si è persa la coscienza sistematoria”. Le conseguenze di quell’abbandono sono ben evidenti, soprattutto nell’ultimo decennio. Inoltre, sempre a titolo di esempio, già alla fine del secolo scorso furono lanciati allarmi inerenti i cambiamenti climatici e l’insorgere di problemi di siccità. Questo per sottolineare che i risultati della ricerca meriterebbero maggior attenzione.
Bonari – Caro Marcello, grazie per l’invito e per le belle parole con cui hai introdotto il nostro dialogo sulla sostenibilità dell’agricoltura oggi! È difficile esprimersi in maniera univoca sui riflessi negativi che la modernizzazione dell’agricoltura avrebbe avuto sulla perdita della “coscienza sistematoria” degli agricoltori e, quindi, sulla conservazione delle sistemazioni idraulico-agrarie dei terreni. A mio avviso, infatti, le crescenti necessità di meccanizzazione delle operazioni colturali e di riduzione dei costi di produzione a livello aziendale, hanno promosso una inevitabile revisione degli elementi fondamentali delle “sistemazioni”, sia nelle aree di pianura che in quelle collinari. Il problema della conservazione della funzionalità del sistema, è sorto allorché si è pensato che gli appezzamenti coltivati potessero essere lunghi e/o larghi a nostro piacimento per la massima velocizzazione del lavoro delle macchine, senza tener conto (o quasi) di tutte le problematiche relative alle caratteristiche del suolo, dell’entità delle piogge e della loro distribuzione sul territorio, ma, soprattutto, senza tener conto che le sistemazioni del terreno e le lavorazioni dello stesso sono inevitabilmente interagenti nel creare e mantenere nel tempo condizioni di ottimale abitabilità per gli apparati radicali delle piante coltivate. Credo anche io che un approccio multidisciplinare al problema ed una più attenta ed accettabile politica degli interventi a scala territoriale, avrebbe potuto far raggiungere un sufficiente livello di “modernizzazione” dei sistemi colturali senza incorrere negli effetti negativi frequentemente registrati – ed esaltati dai cambiamenti climatici – anche in termini di rischi di erosione del suolo, di abbandono delle aree coltivate, di conservazione della fertilità del terreno e, di conseguenza, anche del paesaggio agrario delle nostre regioni. Se poi alle valutazioni più squisitamente agronomiche aggiungiamo i problemi sollevati, soprattutto nelle aree pianeggianti – ma non solo – dal pressoché incontrollato espandersi delle costruzioni civili ed industriali, appare chiaro come l’argomento dovesse da tempo essere affrontato con un approccio decisamente più “sostenibile”. Non c’è spazio per trattare come meriterebbero i molti rimedi che è possibile mettere in campo come, ad esempio, la manutenzione delle affossature permanenti, la rinaturalizzazione dei corsi d’acqua, l’agro-forestazione diffusa, il maggior ricorso alle affossature temporanee, i piazzali e parcheggi drenanti, le aree di raccolta e di fitodepurazione delle acque di scolo, i sistemi di rifornimento delle falde acquifere, ecc.
Spesso, in queste settimane di campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento Europeo, leggo articoli e interviste in cui viene affermato che “l’agricoltura è tornata ad essere centrale” nella politica europea. A mio parere, questa affermazione non è sufficientemente rassicurante.
Certo, l’agricoltura, fin da quando è stata concepita e messa in atto, è stata e continua ad essere strategicamente centrale per l’intera Umanità, in quanto è la fonte del nostro sostentamento e senza cibo non si può vivere. Portare l’agricoltura al centro della politica europea è, quindi, necessario.
Tuttavia, alquanto spesso, le scelte politiche assunte dal Parlamento europeo si sono rivelate dannose per il settore primario, incapaci di tracciare percorsi virtuosi condivisi con agricoltori e allevatori. Portare l’agricoltura al centro della politica europea non è, quindi, sufficiente.
Al riguardo, furono illuminanti le parole che il nostro Presidente Onorario, prof. Franco Scaramuzzi pronunciò nel Salone dei 500 di Palazzo Vecchio, in occasione della inaugurazione del 262° Anno Accademico, avvenuta il 13 aprile 2015. La prolusione, integralmente riportata negli Atti dei Georgofili, fu di una chiarezza disarmante, fin dal suo titolo: “Un grande errore: demolire l’agricoltura”. Le “improvvide disattenzioni” di cui l’agricoltura è stata vittima, con speciale riferimento al periodo iniziale del terzo millennio, furono impietosamente ricordate dal prof. Scaramuzzi, come anche furono descritti con grande lucidità gli effetti negativi delle decisioni politiche assunte a carico del settore primario, tanto da fargli affermare che “la nostra agricoltura ha ancora potenzialità ma la sommatoria delle disattenzioni la sta demolendo”.
Motivi culturali e sociali sono alla base di una sempre più ridotta presenza della carne di coniglio sulle tavole degli italiani. Per contrastare questa situazione è utile ricordare quanto avviene nel mercato mondiale dove sono disponibili alternative innovative tra cui prodotti affumicati, in scatola, congelati, stagionati, raccolti in salsa, essiccati e arrostiti, nonché salsicce di carne di coniglio.
Il kiwi (actinidia) è davvero uno dei frutti più globali che ci siano e l’Italia è il terzo produttore al mondo dopo Cina e Nuova Zelanda. Nell’export tricolore di ortofrutta il kiwi è al terzo posto dopo mele e uva da tavola per un controvalore di oltre 600 milioni di euro. Cambiamento climatico, moria del kiwi e cancro batterico sono tra i problemi principali che gli agricoltori si vedono oggi costretti a fronteggiare.
Il dibattito scientifico sulla rarefazione della biodiversità è molto vitale. Secondo il rapporto FAO 2019 sullo stato della biodiversità mondiale, sono molti i fattori responsabili di tale rarefazione: elevato sfruttamento delle risorse naturali, inquinamento, cambiamenti climatici, crescita della popolazione e diffusa urbanizzazione. Tra questi, è verosimile che anche l’esercizio della agricoltura giochi un ruolo cruciale sulla contrazione della biodiversità complessiva del pianeta, alla luce del fatto che il 30% circa delle terre emerse sono impiegate per la coltivazione di cibo per l’alimentazione umana e di vegetali per uso zootecnico. Infatti, la semplificazione strutturale che l’ecosistema naturale subisce quando messo a coltura (agroecosistema) lo rende molto simile a un ecosistema al primo stadio della successione ecologica (poche specie a elevata densità), nell’ambito del quale per mantenere una sufficiente resilienza ecologica è necessario un frequente intervento antropico e l’impiego fertilizzanti e agrofarmaci. Risulta allora essenziale implementare la biodiversità del campo coltivato e assecondarne la complessità naturale. A tale proposito, gli insetti pronubi hanno un ruolo cruciale nella fornitura di molteplici servizi ecosistemici a supporto del mantenimento della biodiversità degli habitat e, aspetto non meno importante, della produzione di alimenti. È noto, infatti, che 39 delle 57 più importanti colture a livello mondiale necessitano dell’impollinazione mediata da insetti. Più in generale, gli insetti nel loro complesso rappresentano anelli essenziali delle catene trofiche e agiscono anche come significativi fattori di regolazione biotica di altri organismi viventi, animali e vegetali.
Nel capoluogo siciliano si torna a coltivare il caffè a più di un secolo di distanza dal primo esperimento di coltivazione in Sicilia. Lo scenario è l’Orto Botanico che fa parte del sistema museale dell’Università di Palermo, un luogo di meraviglie naturalistiche che contiene migliaia di specie differenti di piante.
Nel 1905, il direttore dell’Orto Botanico palermitano e il capo giardiniere, con l’intento di coltivare il caffè in piena terra misero a dimora 25 piante di caffè. Malgrado le piante fossero state posizionate a ridosso di un muro con esposizione a mezzogiorno e riparate da una tettoia costruita di fogliame, non riuscirono a superare le temperature invernali che si ebbero per alcuni anni e che raggiunsero valori inferiori ai -3° C. Un altro tentativo venne fatto nel 1911, ma anche in quel caso un’ondata di gelo distrusse le piante.
Vediamo come si configura il progetto al giorno d’oggi, parlandone insieme al Prof. Paolo Inglese, georgofilo e ordinario di Scienze Agrarie all’Università di Palermo.
Professore Inglese, innanzi tutto di che cosa ha bisogno la pianta del caffè per crescere bene?
Il caffè è una specie rustica e sebbene sia coltivata da tempo mantiene delle caratteristiche tipiche e vicine a quelle delle piante “selvatiche”. Di fatto, nelle nostre condizioni, il problema più grande è la stagionalità in termini di escursione termica annuale, che nelle zone di origine è molto ridotta mentre qui ha la variabilità stagionale che conosciamo, con il rischio di temperature estreme dannose sia come minime che come massime termiche. Inoltre, il caffè è specie che negli ambienti naturali vive sotto le grandi specie della foresta subtropicale umida e in coltura è spesso consociato a specie ombreggianti. Alle nostre latitudini e con il clima Mediterraneo, il problema delle lunghe giornate estive con l’elevata radiazione, unita a un elevato VPD, possono portare a problemi che variano dalla semplice scottatura della chioma al suo disseccamento. Per questo, le piante vanno ombreggiate, al fine di garantire loro un certo equilibrio termico e radiativo che non ne comprometta la crescita e lo sviluppo.
Vengono messi in campo particolari accorgimenti nell'orto botanico di Palermo?
Quella dell’orto botanico non è l’unica e la prima delle prove. La più importante la stiamo conducendo, con il professore Farina e lo staff del dipartimento di scienze agrarie della nostra Università, sempre a Palermo ma in ambiente protetto. La piccolissima parcella dell’orto ha un valore storico, perché testimonia la storia dell’orto botanico, da sempre e in quegli spazi impegnato a provare le specie di origine “coloniale”, come si diceva in un tempo per fortuna assai lontano culturalmente e storicamente. La particolarità di questa piccola parcella è legata al fatto che le piante per la prima volta sono fuori dall’ambiente protetto e risiedono in uno spazio condiviso con agrumi e con le Cebie che forniscono la necessaria copertura vegetale, simulando in qualche modo un habitat naturale. Vicino al caffè ci sono esemplari monumentali di avocado e giovani piante di mango, oltre che svariate altre specie tropicali, da frutto e non. Non sappiamo cosa succederà, se lo sapessimo, non sarebbe una parcella sperimentale. Concimeremo con compost prodotto dall’orto e avremo il controllo fenologico e produttivo con le piante in serra.
L’esperienza delle emergenze degli ultimi anni indica la necessità di pensare e attuare un’ampia strategia di valorizzazione della produttività dell’agricoltura e non il suo depotenziamento.
L’abbinamento alimentare si basa sull'ipotesi che più i diversi alimenti condividono le componenti del gusto, meglio si abbinano e l'effetto è più forte quando le componenti gustative condivise sono anche le rispettive componenti sensoriali principali, in altre parole i sapori chiave, e quando la sovrapposizione di sostanze aromatiche in due alimenti è elevata e possono sostituirsi. Per questo un abbinamento alimentare è di successo quando l'esperienza sensoriale della combinazione di sapori è maggiore della somma dei singoli componenti, in un effetto sinergico.
Il legno di castagno rappresentava in passato la naturale fonte di materia prima nella realizzazione dei contenitori per la conservazione e l’affinamento del vino in Toscana e nelle altre regioni appenniniche. Con gli anni il cambiamento dell’assetto dell’agricoltura, il miglioramento e la modernizzazione delle pratiche enologiche e, infine, l’adozione di stili e gusti più internazionali, hanno portato gradualmente all’abbandono del castagno e all’introduzione dei contenitori in rovere.
Il 9 maggio scorso nella sede della Scuola di Agraria dell’Università di Firenze è stato presentato il progetto ToSca nel quale, con l’aiuto della ricerca svolta dal dipartimento DAGRI dell’Università di Firenze, si approfondiranno le peculiarità e le caratteristiche dei vini fermentati o affinati nei carati di legno di castagno locale, per dare sempre maggiore identità e territorialità all’enologia toscana.
Il progetto ToSca, finanziato nell’ambito della sottomisura 16.2 del PSR Regione Toscana 2014-2022, è il terzo di una serie di progetti destinati a ricreare in Toscana la filiera bosco-vino, che lega il comparto forestale al settore vitivinicolo, dando valore alla produzione legnosa e al tempo stesso recuperando e reinterpretando in chiave moderna un elemento della tradizione enologica toscana quale è la botte di castagno.
“Nei due progetti precedenti, il progetto ProVaCi e il progetto ReViVal, ci siamo chiesti inizialmente da dove venisse il legno con il quale in passato si facevano le botti e l’indagine storica e genetica ha confermato che erano i boschi della Toscana, spesso quelli dell’azienda stessa, a dare il legname, prevalentemente castagno, che veniva utilizzato per realizzare i contenitori presenti nelle cantine”, ha spiegato nel suo intervento Marco Mancini della Fondazione per il Clima e la Sostenibilità, che fino dall’inizio ha seguito questi progetti, nati dall’intuizione di Raffaello Giannini, presidente del comitato scientifico della Fondazione e del suo fondatore Gianpiero Maracchi, scomparso nel 2018. “Successivamente ci siamo posti l’esigenza di creare un modello di gestione forestale adatto per far ripartire la produzione di legno destinato a utilizzi di valore come quello delle botti. Lo scopo è quello di valorizzare i prodotti del bosco, perché se anche solo una piccola parte delle utilizzazioni forestali potessero essere indirizzate verso questa filiera, l’incremento di valore per il comparto forestale potrebbe essere significativo”.
Dopo essere stato abbandonato nell’enologia moderna con l’introduzione soprattutto delle barrique in rovere, e superate alcune criticità legate alla correttezza dei vini e non solo del loro contenitore, il legno di castagno può essere oggi reintrodotto nelle cantine quale elemento distintivo. La necessità che il progetto ToSca andrà a colmare è relativa alla creazione di un modello enologico nuovo e diverso da quello tradizionale delle botti in castagno del passato, grandi e utilizzate molto a lungo senza una particolare attenzione alle cessioni, l’igiene o l’impatto organolettico.
Tra i dati riportati da Mancini quelli sul valore delle possibili utilizzazioni legnose: mentre un metro cubo di cippato prodotto per la produzione di energia viene pagato intorno ai 7 Euro, lo stesso volume di doghe di rovere destinate alla produzione di barrique ha un costo di circa 3000 euro. Di conseguenza per quanto il valore del castagno dei boschi della Toscana non raggiunge quello del rovere e anche se la sua resa di trasformazione dal toppo (il tratto di fusto abbattuto) alla doga è stata valutato nei precedenti progetti intorno al 24%, questa utilizzazione rappresenterebbe comunque un incremento in valore molto significativo.
Leggendo quotidiani e sfogliando siti internet non specializzati, non si può fare a meno di notare la retorica onnipresente sull’importanza della natura in città. Parchi, giardini verticali, slogan che inneggiano al verde e alla biodiversità. Sembra che l'ambiente sia diventato una priorità assoluta per le amministrazioni locali, sia, come si dice adesso, “mainstream”. Ma dietro questa facciata verde si nascondono spesso ipocrisie e contraddizioni che mettono a rischio la reale sostenibilità urbana. Ma esistono politiche concrete delle città, oppure sono solo promesse di armonia con la natura, che poi puntualmente vengono tradite con la giustificazione che, purtroppo, ci sono altre priorità?
Anche l'agricoltura urbana è un altro tema molto in voga. Orti sui tetti, coltivazioni verticali, mercati a km zero. Sembra l'immagine di un futuro idilliaco, dove le città si nutrono da sole in modo sostenibile come aveva prospettato Ebenezer Howard nel suo libro “Garden Cities Of Tomorrow” (1902). Ma la realtà è spesso diversa. Molte pratiche di agricoltura urbana richiedono un uso sproporzionato di acqua, fertilizzanti e input energetici, con un impatto ambientale non sempre positivo. Se sono innegabili i vantaggi per la salute umana derivante dal lavoro fisico e dall’appagamento emotivo legato alla coltivazione delle piante, l'agricoltura urbana presenta alcune problematiche da considerare tra cui la disponibilità di spazio, la qualità del suolo, come detto l'accesso all'acqua e le questioni legate alla regolamentazione. Inoltre, i costi elevati dei prodotti agricoli urbani li rendono inaccessibili alle fasce più povere della popolazione.
Le politiche agricole dell’Unione europea hanno da tempo fatto la scelta di sostenere il processo di innovazione delle imprese e dei territori rurali. Da almeno tre cicli di programmazione, i regolamenti europei volti a promuovere lo sviluppo e la sostenibilità mediante il sostegno ad investimenti strutturali propongono e finanziano azioni di diffusione delle innovazioni mediante interventi di crescita del capitale umano e di cooperazione.
Analizzando gli obiettivi e le modalità proposte dalla Commissione europea in questi 18 anni, è possibile notare un’evoluzione nei contenuti, nelle metodologie adottate e nell’approccio.
Si è passati da un sostegno a strumenti tradizionali come formazione, informazione e consulenza che avevano l’obiettivo generico di far crescere le professionalità impiegate in agricoltura e avvicinarle ai temi dell’innovazione (2007-2013) ad un’impostazione più strutturata che, finanziando gli stessi interventi, li ha posti decisamente al servizio delle priorità della politica agricola quali acceleratori delle specifiche istanze di competitività, sostenibilità e inclusione (2014 -2027).
Un altro aspetto evolutivo ha riguardato l’attenzione che le politiche hanno rivolto agli approcci e agli elementi metodologici proponendo precise scelte tecniche, operative e di governance. E’ stata infatti evidenziata l’importante differenza fra attività di informazione e attività di consulenza segnalando quanto la prima sia rivolta ad un pubblico più vasto e generalizzato e la seconda sia invece un servizio “tailor made” (su misura) che deve essere calibrato alle esigenze della singola impresa e dello specifico territorio. Per la diffusione delle innovazioni è stata data preferenza al modello interattivo utilizzando lo strumento della cooperazione e della progettazione di interventi che coinvolgessero un ampio partenariato di soggetti (i Gruppi Operativi del Partenariato europeo per l’innovazione in agricoltura).
Nel 1974 in Italia si coltivavano 1,6 milioni di ettari di grano duro, la resa media era di 18,4 q/ha e la produzione nazionale era di 2,84 milioni di tonnellate. Nello stesso anno la produzione di pasta era di 0,87 milioni di ton. e il fabbisogno di materia prima veniva soddisfatto con le importazioni di grano duro dall’estero. Qualche anno prima in Italia era stata varata la legge 580/1967, le cui norme vincolavano i produttori di pasta all’utilizzo esclusivo della semola di grano duro. Questo provvedimento amplificò ulteriormente la necessità di aumentare la produzione nazionale, estendendo la coltivazione del grano duro all’Italia centro-settentrionale, con la prospettiva di limitare l’approvvigionamento dall’estero. La possibilità di sostituire la produzione di grano tenero al Nord era però legata alla necessità di poter disporre di varietà di grano duro capaci di esprimere lo stesso potenziale produttivo.
E’ in questo contesto che si inserisce l’esperienza rivoluzionaria del Creso e del suo costitutore Prof. Alessandro Bozzini, agronomo e genetista agrario, allievo del Prof. Francesco d'Amato durante i suoi studi a Pisa. Alla fine degli anni ’50, durante la specializzazione post-laurea all’Università del Minnesota, Bozzini ebbe l’opportunità di conoscere il futuro premio Nobel N. Borlaug. Nell’occasione, Borlaug gli confidò l’intenzione di trasferire i geni per la riduzione della taglia, presenti nel frumento tenero giapponese Norin 10, anche nel frumento duro, attraverso un programma di incroci da realizzarsi in Messico al CIMMYT. Bozzini, in quell’occasione, gli consigliò di utilizzare, nel nuovo programma di incroci, la varietà Cappelli, esaltandone l’ampia adattabilità e le spiccate caratteristiche qualitative della granella.
Nel frattempo, tornato a Roma, Bozzini iniziò a lavorare su un programma di citogenetica, mutagenesi artificiale e miglioramento genetico presso il Centro Studi Nucleari della Casaccia (CNEN), sotto la guida del Prof. G.T. Scarascia Mugnozza. Anche in questo caso l’obiettivo era quello di identificare e selezionare mutanti di grano duro a taglia bassa, a partire dalle varietà coltivate all’epoca, particolarmente sensibili all’allettamento. Il risultato di questo programma portò alla selezione di mutanti più bassi rispetto ai parentali di origine, di circa 15-30 cm. Tuttavia, questi materiali non assicuravano un buon rendimento agronomico, si presentavano con un ciclo di sviluppo eccessivamente tardivo ed una scarsa qualità della granella. Tra essi solo il mutante Cp B144, derivato da Cappelli, possedeva una granella vitrea di buona qualità.
1.- Il Regolamento (UE) 2024/1143: la dimensione sistemica
Il 23 aprile 2024 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea in nuovo Regolamento (UE) 2024/1143 sulle Indicazioni Geografiche e sulle altre indicazioni di qualità, in applicazione dal 13 maggio 2024.
Si tratta di una disciplina originale ed innovativa, che conferma – già nella scelta della base giuridica (l’art. 43.2. TFUE sul perseguimento degli obiettivi della politica comune dell'agricoltura e della pesca, e l’art. 118 TFUE sulla tutela dei diritti di proprietà intellettuale) – la capacità espansiva della Politica Agricola Comune, che dalle regole di produzione si estende a comprendere le regole di comunicazione nel mercato, in una dimensione che non è soltanto europea, ma sempre più investe l’intero mercato globale.
Le novità introdotte sono numerose, nel merito, nelle procedure, e nel disegno istituzionale.
Un primo elemento va sottolineato: la dichiarata ambizione sistemica del legislatore europeo, che dopo aver unificato nel 2012 DOP, IGP, ed STG, e collocato in un unico testo normativo anche gli altri regimi di qualità, prosegue oggi lungo questo percorso, accogliendo nel nuovo regolamento sui prodotti di qualità anche i vini e le bevande spiritose, sin qui tradizionalmente oggetto di testi normativi formalmente (ed in più punti anche sostanzialmente) separati e distinti. Tutto ciò ha, fra l’altro, conseguenze rilevanti per il settore del vino, a cominciare dalla generalizzata applicazione della tutela ex officio, che il Regolamento del 2012 aveva introdotto con formula innovativa ma limitata alle sole DOP e IGP dei prodotti agricoli ed alimentari, e che oggi è estesa anche al vino ed alle bevande spiritose.
2.- Le nuove disposizioni di merito ed istituzionali
All’interno di questo approccio unitario e sistemico, le novità sono numerose, nel merito e sul piano istituzionale e dei procedimenti.
Nel merito, oltre alla tutela ex officio (art. 42), e l’esplicita estensione della tutela ai nomi di dominio (art. 26 e 35), ed alla disciplina tra IGs e marchi, novità importanti sono state introdotte, fra l’altro: quanto all’uso dell’IG nella denominazione di vendita di prodotti che contengono tale IG fra i propri ingredienti (art. 27) con la previsione, fra l’altro, della notifica preventiva scritta di tale uso al gruppo di produttori riconosciuto per l’IG; nonché quanto all’applicazione della disciplina a tutti i prodotti realizzati nel territorio dell’Unione Europea, anche se destinati esclusivamente all’esportazione al di fuori dell’Unione (art. 26).
Trova conferma, nelle nuove disposizioni di merito così introdotte, il dialogo fra istituzioni europee e nazionali, e fra legislatori e giudici (ad esempio quanto all’adozione di una specifica disciplina UE sull’uso del nome protetto all’interno della denominazione di prodotti composti, che propone alcune prime risposte al noto caso dello Champagne Sorbet deciso dalla Corte di giustizia, e riprende alcuni elementi della disciplina italiana in materia; e quanto all’estensione della tutela anche ai prodotti destinati esclusivamente all’esportazione al di fuori del territorio dell’Unione, che offre risposte alle criticità evidenziate dalla Corte di giustizia nella decisione del 2022 sulla produzione in Danimarca di un formaggio denominato “Feta” che non rispettava il disciplinare di tale prodotto).
Anche sul piano istituzionale e dei procedimenti, le nuove disposizioni introducono modelli innovativi, che tengono conto delle esperienze maturate in sede nazionale, e delle criticità sin qui manifestate.
Esplicito rilievo è assegnato alle collettività di produttori, investite del governo delle denominazioni e chiamate a rispondere alle domande, anche in tema di sostenibilità, dell’intera società, complessivamente intesa, oltre che dei produttori e dei consumatori.
Il cambiamento climatico ha già avuto e ancor più avrà in futuro un forte impatto negativo sull’agricoltura, che è tra i settori che più ne subisce gli effetti a causa: dell’accelerazione di eventi estremi con l’alternarsi di ritorni di freddo, ondate di calore e di precipitazioni torrenziali; delle temperature elevate con lunghi periodi di siccità e cronica carenza della risorsa idrica.
In merito, il servizio sul cambiamento climatico di Copernicus ha reso noto che nel 2023 la temperatura media globale è stata di 14,98 °C. Il 2023 è stato più caldo di 0,60 °C rispetto alla media del periodo 1991-2020 e di 1,48 °C rispetto al livello del periodo preindustriale 1850-1900. L’incremento delle temperature per l’agricoltura comporta un aumento dell’evapotraspirazione delle colture, e quindi la necessità di aumentare gli interventi irrigui al fine di tutelare quantità e qualità della produzione.
Lo scorso 22 aprile l’UNASA, l’Accademia di Agricoltura di Torino e il DISAFA dell’Università di Torino, nell’ambito dell’incontro preparatorio dei G7 clima, energia e ambiente svoltosi presso la Reggia di Venaria Reale (TO), hanno promosso un Convegno dal titolo “Cambiamento climatico e irrigazione sostenibile in agricoltura”. L’obiettivo, alla vigilia della nuova legislatura europea, è stato quello di fornire un contributo di conoscenza ai decisori pubblici nazionali ed europei, mirato a evidenziare gli aspetti relativi all’approvvigionamento e alla gestione della risorsa idrica nel quadro della situazione climatica in corso. Di seguito vengono riportati alcuni degli elementi emersi.
Per cercare di far fronte agli effetti del cambiamento climatico attraverso la salvaguardia della risorsa idrica in modo da garantirne un uso multifunzionale (potabile, agricolo, energetico), è importante attuare una corretta progettazione infrastrutturale in grado di evitare le elevate perdite dell’acqua piovana. Da qui la necessità di realizzare nuovi bacini di raccolta dell’acqua. La progettazione deve però tenere conto delle reali necessità dei diversi territori, al fine di definirne capienza e costi e di valutare, con attendibili dati tecnico-scientifico ed economici, la effettiva necessità della costruzione. Non solo la costruzione, ma anche la progettazione di bacini di grandi dimensioni, richiede investimenti molto elevati che non possono essere lasciati a carico dei soli privati, per cui è necessario che vi sia un concorso pubblico-privato.
La flavescenza dorata è una grave malattia della vite nota in Francia dal 1922 dove è stata studiata a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso. Poiché la sintomatologia di questa malattia non è distinguibile da quella associata alla presenza di altri fitoplasmi che, pur infettando la vite, hanno caratteristiche epidemiologiche diverse è fondamentale che venga effettuata l’identificazione del patogeno ad essa associato tramite metodiche diagnostiche molecolari specifiche.
Nassim Nicholas Taleb, nel suo libro "Il Cigno Nero" (2008), ha introdotto il concetto di eventi imprevedibili e di grande impatto che possono cambiare radicalmente il corso della storia.
Il libro di Taleb esplora il concetto di eventi imprevedibili e altamente impattanti che hanno conseguenze significative, ma che sono difficili da prevedere in anticipo e l’autore usa il termine "cigno nero" per riferirsi a questi eventi, ispirandosi alla credenza errata diffusa in passato che tutti i cigni fossero bianchi, fino alla scoperta di esemplari neri in Australia.
Il 23 aprile 2024 l’Accademia dei Georgofili e l’Accademia Italiana della Vite e del Vino hanno celebrato il centenario dell’istituzione dell’Office International du Vin (OIV), avvenuta a Parigi il 29 novembre 1924 con la sottoscrizione di un accordo fra Italia, Francia, Spagna, Lussemburgo, Tunisia, Ungheria, Grecia e Portogallo per far fronte alle devastanti conseguenze economiche e sociali prodotte dalla fillossera sul territorio europeo, aggravate dal dramma del primo conflitto mondiale. In questi 100 anni l’OIV ha ampliato il suo raggio di interesse a tutti i prodotti della vite diventando nel 1957 Office International de la Vigne et du Vin e poi Organizzazione Internazionale della Vite e del Vino nel 2001
Nel tempo l’OIV ha affrontato tutte le tematiche tecniche, normative e istituzionali di interesse della filiera vitivinicola guadagnandosi il ruolo di Ente di armonizzazione a livello globale. Negli anni, il numero dei paesi membri è progressivamente cresciuto: oggi si contano 50 membri, includendo paesi con interessi nella produzione e/o nel consumo dei prodotti vitivinicoli. Le 1432 risoluzioni approvate dalle assemblee generali dell’OIV rappresentano il riferimento per l’orientamento delle legislazioni vitivinicole nazionali, anche di paesi non membri dell’OIV, nonché per la definizione di accordi commerciali bilaterali. Ciò ha agevolato l’applicazione degli accordi raggiunti in sede di Organizzazione Mondiale per il Commercio per quanto riguarda le barriere tecniche agli scambi (TBT), le barriere sanitarie e fitosanitarie (SPS) e la protezione della proprietà intellettuale (TRIPS) in materia di indicazioni geografiche. A livello europeo, l’UE con il regolamento 1308/2013 art.80 assume l’OIV come riferimento esplicito in materia di norme vitivinicole. Di particolare rilievo sono le risoluzioni che hanno consentito di compilare i Codici internazionali delle pratiche enologiche e dei prodotti utilizzabili in enologia, i compendi dei metodi di analisi, le norme internazionali di etichettatura del vino e delle bevande spiritose di origine vitivinicola, i cataloghi delle varietà di vite, delle indicazioni geografiche e dei programmi di formazione, nonché aggiornamenti statistici sul settore vitivinicolo, linee guida e raccomandazioni.
Le risoluzioni dell’OIV sono approvate dai rappresentanti dei governi degli stati membri ma sono preparate dagli esperti che operano in quattro commissioni scientifiche (Viticoltura, Enologia, Economia e diritto, Sicurezza e salute), ciascuna articolata in gruppi di esperti e in due in sottocommissioni (uva non da vino e suoi derivati; metodi di analisi) cui sono affidati temi specifici. Nel tempo migliaia di ricercatori internazionali di università e centri di ricerca hanno avuto modo di confrontarsi con rappresentanti del mondo della produzione, delle professioni e delle amministrazioni, con rigido autocontrollo scientifico dei risultati generati dalle loro conoscenze, garantendo in questo modo sempre l’autorità e l'indipendenza intellettuale e morale dell’OIV.
Pagliai – Non c’è dubbio che negli ultimi cinquant’anni le conoscenze sul suolo sono aumentate a dismisura; oggi disponiamo di miriadi di dati nella letteratura scientifica internazionale e le metodologie e la strumentazione attualmente a disposizione dei ricercatori non hanno niente da invidiare, ad esempio, ai mezzi adoperati per lo studio del corpo umano, basti pensare all’evoluzione della sensoristica, dell’analisi d’immagine fino ad arrivare alla microtomografia basata su radiazione di sincrotrone. A fronte di queste conoscenze, nell’ambito della comunità scientifica, si riscontra nell’opinione pubblica, inclusi i decisori politico-amministrativi a livello globale, una quasi totale mancanza della percezione dell’importanza della risorsa suolo e dal fatto che da essa dipenda il 95% del cibo necessario all’umanità. Ma tornando all’evoluzione delle metodologie non vi è dubbio che l’affermazione dell’uso dei sensori nello studio del suolo rappresenta una delle metodologie più innovative ed in forte espansione.
Priori – Si, negli ultimi 10-15 anni c’è stato un progressivo e continuo sviluppo tecnologico sui sensori per il monitoraggio e la cartografia del suolo. Esistono due grandi famiglie di sensori, quelli da remoto, ovvero utilizzati tramite satellite, aereo o drone, e quelli prossimali, utilizzati a diretto contatto o a pochi cm dalla superficie. I sensori remoti, in particolar modo quelli da satellite, hanno la capacità di coprire grandi aree, ma, per il monitoraggio del suolo, sono soggetti a maggiori errori legati alla copertura vegetale, ai residui colturali, alla diversa zollosità del terreno ed alla pietrosità superficiale. Inoltre, riescono ad indagare solamente i primi cm di suolo. I sensori prossimali superano queste difficoltà e riescono ad indagare anche profondità superiori al metro, ma hanno la possibilità di coprire superfici minori. I sensori prossimali si dividono, a loro volta, in sensori mobili, utilizzati nella cartografia, e sensori fissi o puntuali, utilizzati per il monitoraggio delle variazioni temporali del contenuto idrico o di altre caratteristiche, tra cui la salinità.
Nonostante le caratteristiche nutrizionali, funzionali e nutraceutiche del grano saraceno la sua produzione nell’Unione Europea non soddisfa la domanda e si ricorre soprattutto alle importazioni.
Nel caso delle bovine da latte l’effetto principale dell’inclusione nella loro dieta del derivato del peperoncino (Capsicum oleoresina), da solo o in combinazione con l’olio essenziale di chiodi di garofano, è stato quello di far utilizzare più efficacemente agli animali l’energia alimentare, con la conseguenza di limitare la produzione di metano enterico.
La sgangherata riforma del mercato europeo dello zucchero del 2006, che tutti applaudirono (a proposito di ‘follie’ dell’Europa) che ci ha consegnato mani e piedi alle importazioni da Francia e Germania, privandoci per sempre di una commodity strategica per la nostra industria agroalimentare, portò alla chiusura di quasi tutti i nostri zuccherifici: invece di puntare sull’innovazione e sulla ricerca preferimmo una montagna di milioni, sul cui utilizzo non è mai stata fatta una indagine esaustiva. Chi invece ha puntato sull’innovazione nel suo settore (le patate) è il gruppo Pizzoli che nel sito di uno degli zuccherifici chiusi (a San Pietro in Casale nel Bolognese) ha aperto un impianto-modello all’avanguardia per le patate surgelate, il più grande di tutto il sud Europa.
Nelle città di tutto il mondo, gli alberi sono spesso considerati l'elemento vitale per la salute ambientale e il benessere della comunità. Tuttavia, dietro l'incantevole scenario di fronde verdi e ombre ristoratrici si nasconde una realtà inquietante: la mancanza di cure adeguate e di un adeguato monitoraggio in grado di fornire informazioni utili alla gestione sta portando al degrado accelerato di questi preziosi ecosistemi urbani.
Uno dei principali problemi da affrontare riguarda l’età e le condizioni vegetative degli alberi presenti nelle nostre città. Molti di questi alberi sono ormai vetusti, affetti da problemi fitopatologici e strutturali, che li rendono vulnerabili agli impatti dei cambiamenti climatici con problemi sempre più evidenti. Con fenomeni meteorici estremizzati e l'aumento della virulenza dei parassiti, anche quelli precedentemente considerati endemici, gli alberi urbani diventano purtroppo bersagli facili e costosi in termini di gestione.
Come possiamo/dobbiamo agire? Il tutto potrebbe essere riassunto in tre parole: monitoraggio, cura e rinnovo.
L'ignavia di alcune amministrazioni locali e la timidezza dei politici nel fronteggiare queste problematiche rappresentano una vera e propria condanna per il futuro del verde urbano.
Riguardo al monitoraggio, inteso come rilevazione periodica e sistematica di parametri chimici, fisici e biologici, mediante appositi strumenti, allo scopo di controllare la situazione o l'andamento di sistemi anche complessi, seppur molte amministrazioni si sono dotate di adeguati sistemi, ancora resta molto da fare e su questo potranno sicuramente dare una mano le nuove tecnologie come l’uso di sistemi avanzati come le tecnologie GIS per web e applicazioni mobili per la gestione dei dati territoriali e altri strumenti innovativi per le smart cities del futuro, incluso le opportunità che potrà fornirci l’intelligenza artificiale.
Relativamente al rinnovo graduale delle alberature, mentre alcune persone si impegnano con lodevole determinazione per sensibilizzare e proteggere gli alberi urbani, altre mostrano ostilità verso la pubblica amministrazione e pretendono interventi privi di fondamento tecnico o scientifico, oppure il mantenimento sine die di alberi con evidenti problemi. La pressione di un estremismo ambientalista, spesso miope e non disponibile al dialogo, che in alcune sue componenti ha preso una strada senza uscita, non aiuta certo a migliorare l’ambiente, ma rappresenta un problema aggiuntivo. L’essere sempre contro senza giustificazioni è deleterio, perché non c’è coscienza ambientale senza conoscenza.
È, infatti, cruciale comprendere che la cura degli alberi urbani non è solo una questione estetica, ma una necessità imprescindibile per preservare la qualità della vita nelle nostre città. Gli alberi forniscono una serie di benefici vitali, dall'assorbimento di CO2 e la produzione di ossigeno alla riduzione della temperatura urbana e al controllo delle acque piovane. Tuttavia, se non vengono adeguatamente monitorati e curati, questi benefici diminuiscono drasticamente, lasciando le città vulnerabili a una serie di rischi ambientali e sanitari.
Il futuro dell’agricoltura comincia oggi.
Attualmente è il Green Deal che delinea i percorsi dell’agricoltura del continente europeo con un obiettivo preciso: quello di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Eppure, siamo giunti a metà del percorso che era stato immaginato con l’Agenda 2030 e siamo in ritardo su tutti gli obiettivi, a livello nazionale, europeo e locale!
Le scelte da compiere necessitano tempi medio lunghi per la loro realizzazione, quindi si impone al più presto una riflessione da parte della comunità scientifica agraria, che possa indicare le migliori strategie da perseguire, basate su dati sperimentali responsabilmente valutati.
L’agricoltura, pur con accenti diversi, è oggi obbligata a trovare un punto di equilibrio tra le necessità di incrementare la produzione delle materie prime e di salvaguardare l’ambiente nella sua accezione più vasta. Questo punto è stato definito, in vari stati europei, come “intensificazione sostenibile”, che si può tradurre sinteticamente come l’utilizzazione di tecnologie avanzate per consentire alti livelli produttivi, senza impoverire le fondamentali risorse ambientali.
L’Accademia dei Georgofili ha quindi organizzato un ciclo di incontri, dall’emblematico titolo “Agricoltura 2030”, che si svolgeranno tra la metà di maggio e la metà di luglio, data in cui dovrebbe insediarsi la nuova Commissione UE. La finalità è quella di fornire una visione del prossimo futuro e proporre alla politica indicazioni e strategie di indirizzo per il settore agricolo.
Il ciclo si articolerà in 9 iniziative dedicate ai principali temi da approfondire: la difesa delle colture, la gestione del suolo e dell’acqua, le nuove tecnologie, la gestione delle foreste, le produzioni vegetali e animali, la lotta al cambiamento climatico, il trasferimento delle conoscenze, gli aspetti normativi e la prossima Pac.
Ogni incontro sarà moderato da un esperto georgofilo e vedrà l’intervento di tre o quattro relatori di chiara fama. Al termine di ogni evento, a cura del coordinatore e dei relatori, verrà resa disponibile una articolata sintesi, di cui potranno beneficiare tutti gli operatori agricoli.