Al termine di una campagna elettorale lunghissima e, francamente, non bella né entusiasmante, a tratti scorretta, per noi europei troppo spettacolare e poco “politica”, il verdetto è giunto netto e indiscutibile. Trump, “the Donald”, il discendente di un muratore tedesco immigrato, ha vinto al di là di ogni dubbio: ha conquistato la maggioranza dei voti degli Stati, quella del Senato e quella della Camera. Ha battuto gli incerti avversari anche negli Stati in teoria più ostili come la California, New York e gli Stati della costa orientale. Caso quasi unico, viene rieletto una seconda volta con un mandato interposto, quello di Biden. All’indomani del voto borsa alle stelle e non solo in America. Tutti fattori che fanno credere che, contrariamente a quanto si dice altrove, gli elettori sapessero bene chi si accingevano ad eleggere.
Una vicenda che merita qualche considerazione.
In una manciata di suolo si trova un universo di microrganismi che supera in numero le stelle dell’universo, formando un “mondo invisibile” in interazione costante con piante, animali e con l’essere umano
Frusciante - Le nuove tecnologie genetiche e genomiche, come le Tecnologie di Evoluzione Assistita (TEA), hanno notevolmente esteso le possibilità di miglioramento genetico delle piante. Un esempio significativo è rappresentato dal pomodoro: grazie all'uso di queste tecnologie, è stato possibile realizzare un processo di "domesticazione" de novo. Nella specie selvatica Solanum pimpinellifolium, progenitrice del pomodoro coltivato (Solanum lycopersicum), sono stati modificati sei caratteri agronomici che, che, attraverso la selezione naturale, hanno impiegato migliaia di anni per evolversi.
Il principale vantaggio di queste tecnologie risiede nella capacità di mantenere intatto il genoma originale, preservando così le risorse genetiche della pianta e intervenendo selettivamente solo sui caratteri di maggiore rilevanza economica.
Nicolia - La capacità di intervenire in modo preciso e mirato su uno o più geni rappresenta senza dubbio il punto di forza delle TEA. Questo è possibile grazie all'uso di strumenti come CRISPR/Cas9, che offre un’elevata flessibilità e facilità d'uso rispetto a tecnologie molecolari meno recenti, come TALEN e ZFN.
Un esempio straordinario di questa applicazione è la “domesticazione” de novo di Solanum pimpinellifolium, resa possibile proprio grazie a CRISPR/Cas9. Tuttavia, è importante sottolineare che queste tecnologie richiedono ancora la manipolazione in vitro del pomodoro. I protocolli delle TEA sono ben consolidati su varietà di riferimento ampiamente utilizzate nei laboratori, come M82 e Money Maker. Tuttavia, si riscontrano spesso fenomeni di “ricalcitranza” in linee di interesse per il settore sementiero, comprese le risorse genetiche. Pertanto, sebbene le TEA ci offrano la possibilità di mantenere il genoma originale modificando solo pochi caratteri selezionati, esiste un potenziale limite legato alla disponibilità di sistemi efficienti per la manipolazione in vitro o in planta.
Frusciante - Il pomodoro è una delle specie ortive che ha tratto i maggiori benefici dalle TEA. Grazie a queste tecniche avanzate, è ora possibile intervenire su numerosi caratteri della pianta, ottenendo miglioramenti significativi sia in termini di resistenza a stress biotici, come malattie e attacchi di parassiti, sia a stress abiotici, quali siccità e salinità del suolo. Oltre a rafforzare la resistenza della pianta, le TEA possono contribuire a migliorare la qualità dei frutti, intervenendo su aspetti come il sapore, il colore, la consistenza e il contenuto di nutrienti.
Nicolia - Il pomodoro è senza dubbio una specie “più semplice” rispetto ad altre, grazie alla sua diploidia, autogamia, ciclo annuale e alla disponibilità di un genoma completamente sequenziato. Inoltre, esistono protocolli ben consolidati per la manipolazione in vitro, sebbene siano sempre da considerare i limiti già menzionati.
Tra i caratteri modificati utilizzando CRISPR/Cas9, possiamo citare il pomodoro “Sicilian Rouge”, commercializzato in Giappone e arricchito in acido gamma-amino-butirrico (GABA), una molecola nota per i suoi effetti positivi sulla pressione arteriosa, grazie alla modifica di due geni. Un altro esempio è il pomodoro resistente a batteriosi, ottenuto attraverso la modifica del gene DMR6.
Inoltre, è degno di nota un recente studio in cui, in un solo ciclo colturale, sono stati riprodotti tre mutanti spontanei per il colore del frutto in tutte le possibili combinazioni a due a due.
Infine, desidero menzionare un progetto che mi vede attivamente coinvolto, finalizzato a conferire resistenza alle piante parassite. Questo obiettivo viene perseguito attraverso la manipolazione, tramite le TEA, di uno o più geni coinvolti nella biosintesi e nel trasporto degli strigolattoni, molecole cruciali nel processo di infezione da parte delle piante parassite. Finora, questo progetto ha portato allo sviluppo di linee di pomodoro promettenti che spero di poter testare in campo nel prossimo futuro.
L’amore per il glutine (glutenofilia) alla fine del Millenovecento inizia a diminuire e nel Duemila si diffonde una paura per il glutine (glutenofobia), scompaiono le paste glutinate, spuntano e crescono alimenti con la dizione “senza glutine” e sempre più persone scelgono un regime alimentare senza glutine, scegliere di alimentarsi senza glutine diviene una vera tendenza, ma è giusto?
Come è noto, l’impiego degli insetti e delle loro larve come alimento proteico, per il momento per uso prevalentemente zootecnico, sta assumendo sempre più importanza. Ciò comporta, conseguentemente, che gli studi sulle caratteristiche nutrizionali, ovvero di composizione chimica di questo alimento si stiano intensificando.
Dopo quattro anni di stagnazione, il bio in Italia dà timidi segnali di ripresa. Consumi in Gdo +5,2% a quota 3,8 miliardi €, e piccola crescita anche in volume +0,2%. La spesa da un anno all’altro è cresciuta di 191 milioni € ma per il secondo anno consecutivo la quota di mercato del bio sul totale food è scesa, a quota 3,5%.
Le attuali pratiche agricole ad alto input, come l’applicazione intensiva di fertilizzanti e prodotti chimici per l’agricoltura e la monocoltura continua, stanno provocando il degrado del suolo e la perdita di servizi ecosistemici da parte degli agroecosistemi. Le principali forme di questo degrado includono l’erosione del suolo, la perdita di materia organica del suolo, l’aumento delle emissioni di gas serra, l’acidificazione, la salinizzazione e la perdita di biodiversità. Il degrado del suolo sta avvenendo a un ritmo allarmante, contribuendo a un drammatico declino della produttività delle terre coltivate e dei pascoli in tutto il mondo. Ad oggi il Joint Research Center (JRC) stima che in Europa più del 60% dei suoli è in uno stato di degrado evidenziando perdite per erosione complessiva (idrica ed eolica) pari a 1 miliardo di tonnellate l’anno. Questo genera un danno economico di circa 50 miliardi di euro all'anno che, a livello mondiale è stimato compreso tra i 235 e i 577 miliardi di dollari l’anno. In tale contesto il Segretario della Convenzione delle Nazioni Unite ha promosso un progetto pilota sulla Land Degradation Neutrality a cui l’Italia ha aderito. Al riguardo la Comunità Europea ha proposto, nell’ambito dei progetti Horizon Europe, la mission “A soil deal for Europe” finanziando progetti di ricerca e innovazione al fine di proteggere e ripristinare i suoli degradati in Europa e oltre. A tal fine è prevista la creazione di 100 Living Labs (LLs) per guidare la transizione verso suoli sani entro il 2030. Il più recente bando si è chiuso ad inizio ottobre 2024. Al riguardo la Comunità Europea si è posta gli obiettivi utopistici di recuperare il 30%, 60% e 90% dei suoli degradati rispettivamente entro il 2030, 2040 e 2050. Tra gli aspetti principali c’è il recupero e/o miglioramento della biodiversità, del contenuto di carbonio organico e la riduzione dei fenomeni erosivi nei suoli al fine di migliorarne la resistenza e, soprattutto, la resilienza agli stress sia biotici che abiotici.
Nel lontano 2007 l’AIDA (Associazione Italiana di Diritto Alimentare) e l’IDAIC (Istituto di Diritto Agrario Internazionale e Comparato) hanno organizzato congiuntamente un Convegno a Roma, che ha individuato “Le Regole del vino” quale tema di generale e diretto interesse, nel quadro delle rilevanti riforme che andavano investendo in quegli anni le Regole del cibo con il Regolamento (CE) n. 178/2002 sulla General Food Law, e le Regole dell’agricoltura con il Regolamento (CE) n. 1782/2003 di riforma della PAC.
L’occasione di tale Convegno nasceva dalla proposta di nuova OCM vino, introdotta pochi mesi dopo con il Reg. (CE) n. 479/2008, che ha radicalmente modificato la precedente disciplina europea, con esiti immediati e diretti anche sul piano nazionale.
Il regolamento del 2008 non ha concluso il percorso. Il legislatore europeo è più volte intervenuto sul tema negli anni successivi, sino ai regolamenti di riforma della PAC del dicembre 2021, che non hanno sostituito con un nuovo provvedimento il vigente Regolamento (UE) n. 1308/2013 sulla OCM unica, ma hanno introdotto una serie di modifiche, particolarmente rilevanti per i vini in generale ed i vini di qualità in particolare, investendo un’area disciplinare ben più ampia e tuttora lungi dall’essere stabilmente definita.
Le novità così adottate sono numerose: dalla possibilità di produrre e porre in vendita “vino dealcolizzato” e “vino parzialmente dealcolizzato”, superando il risalente divieto di attribuire il nome “vino” a tali prodotti; divieto che per molti anni era stato occasione di vivaci confronti, tecnici oltre che politici, in sede OIV; alla possibilità di utilizzare per i vini DOP non soltanto uve da Vitis vinifera, come prevede da tempo la disciplina in materia, ma anche uve “da varietà di viti appartenenti alla specie Vitis vinifera o da un incrocio tra la specie Vitis vinifera e altre specie del genere Vitis”, abbandonando regole consolidate e legate alla tradizione in ragione della necessità di tenere conto dei cambiamenti climatici e di adeguare le tecniche produttive e le specie vegetali utilizzate ad una dimensione ambientale profondamente modificata (con la confermata prevalenza dell’innovazione rispetto alla tradizione, anche in settori come quello del vino, che molto evoca la tradizione nella comunicazione rivolta al mercato)
Pagliai – È ampiamente riconosciuto che uno dei fattori di degradazione dei nostri suoli è rappresentato dal continuo declino della sostanza organica dovuto sia all’intensificazione delle pratiche agricole degli ultimi decenni, sia ad una sensibile riduzione dell’apporto della stessa visto che gli apporti di letame sono ormai quasi, se non del tutto, scomparsi da oltre cinquant’anni a causa della profonda trasformazione degli allevamenti zootecnici.
Zaccone – In base ai dati forniti dall’Osservatorio Europeo per il Suolo, circa il 47% dei suoli italiani è in uno stato di “cattiva salute”, con erosione (23%) e la carenza di carbonio organico (19%) come principali cause di degrado. Infatti, la maggior parte dei suoli italiani, ed in particolare quelli coltivati, hanno un contenuto di carbonio (C) organico da molto basso (< 1%) a basso (1-2%), situazione che è andata via via peggiorando passando dall’agricoltura del primo dopoguerra, caratterizzata dalla distribuzione diffusa della zootecnia nell’ordinamento colturale aziendale, a un’agricoltura che ha visto il progressivo abbandono delle stalle nelle singole aziende e il sopravvento della fertilizzazione chimica.
È bene però sottolineare che, nella maggior parte dei casi di degrado del suolo, un ruolo fondamentale lo gioca, direttamente o indirettamente, proprio la sostanza organica, essendo essa in grado di influenzare la fisica, la chimica e la biologia dei suoli stessi. Di conseguenza, essa rappresentare il comune denominatore tra diverse problematiche ambientali, quali, ad esempio, perdita di biodiversità, cambiamenti climatici, qualità delle acque e sicurezza alimentare. Ne deriva che la sua continua diminuzione ha gravi conseguenze su diversi livelli. In un recente Report SNPA, tra il 2012 e il 2020 è stata stimata in Italia una perdita di circa 2,9 mln di tonnellate di C immagazzinato a causa della variazione di uso e copertura del suolo; in termini economici, questo ha significato una perdita patrimoniale media del servizio ecosistemico sequestro di C di circa 210 mln di €, che si è tradotta in una perdita di produzione agricola di circa 155 mln €/anno.
Questo è uno dei motivi per cui oggi si parla sempre più di tecniche che possano favorire il sequestro del C nel suolo, e perché il ricorso al riciclo delle biomasse in agricoltura rappresenti un must, ossia una scelta obbligata più che un’opportunità.
Il Ministero Neozelandese dell’Industria sta finanziando un progetto di ricerca per produrre alimenti zootecnici a partire dai gas serra. Il progetto parte dall’osservazione che due microrganismi, un batterio ed un’alga che vivono in condizioni estreme di temperatura in siti geotermici, producono biomasse proteiche a partire dai due gas climalteranti anidride carbonica e metano, le bestie nere dei gas digestivi prodotti dai ruminanti.
Introdotto probabilmente in epoca greca, il fico ha trovato in molte aree dell’Italia meridionale condizioni pedo-climatiche ideali per il suo sviluppo. In particolare, in Calabria la coltivazione del fico risulta intimamente connessa alle tradizioni agricole di questa regione.
Culicoides, chi sono costoro? Non come le farfalle sotto l’Arco di Tito questi moscerini pungitori sono i trasmettitori di una malattia virale che colpisce i ruminanti e non l’uomo: la Febbre Catarrale degli Ovini o Blue Tongue. Questa malattia oggi presente in circa tremila focolai è uno dei concreti segnali di un cambiamento climatico in corso che riguarda l’Italia, che sempre più sta diventano un paese con un clima subtropicale con tutte le inevitabili conseguenze e caratteristiche nella flora, fauna, agricoltura, allevamenti senza contare dell’impatto sociale ed economico.
La Blue Tongue, malattia virale dei ruminanti domestici e selvatici è causata da un Orbivirus che non colpisce l’uomo e che si differenzia in oltre ventiquattro sierotipi e ceppi diversi per virulenza, patogenicità e capacità di produrre nuove varianti. Largamente presente in forma endemica in Africa, dagli anni Duemila arriva in Europa colpendo l’Italia e iniziando dalla Sardegna ora è su gran parte della penisola sfiorando i tremila focolai con gravi danni al nostro patrimonio soprattutto ovicaprino, dove pecora è la specie più sensibile e manifesta sintomi tipici della malattia tra febbre, fragilità capillare e colorazione bluastra ed ingrossamento della lingua, da cui origina il nome di Lingua Blu (Blue Tongue). Nel bacino del Mediterraneo l’infezione è diffusa da insetti del genere Culicoides e in Italia per primo è arrivato il C. imicola e ora il C. obsoletus è il principale responsabile dell’infezione.
La presenza e la diffusione della Blue Tongue in Italia è condizionata da tre diversi e tra loro correlati ambiti: animali recettivi, culicoidi, ambiente e suo clima. Animali recettivi sono i ruminanti domestici come bovini, ovini e caprini degli allevamenti, sui quali si può intervenire prevenendo e controllando la malattia con vaccinazioni continuamente aggiornate al tipo di virus. Importante è la vaccinazione anche dei bovini che infettati mantengono il virus nel loro sangue per due mesi. Non è invece possibile intervenire con vaccini nei ruminati selvatici (cervi, caprioli, daini) presenti nei boschi che ora coprono circa un terzo dell’Italia.
Sui culicoidi, o moscerini succhiatori di sangue che vivono e si moltiplicano soprattutto nei terreni incolti e nei boschi e con i venti arrivano dovunque, a parte qualche intervento protettivo degli animali in allevamento non si può pensare ad interventi con antiparassitari su più o meno vaste aree territoriali. Sull’ambiente e sul clima e sue variazioni che condizionano la presenza e l’entità delle popolazioni di culicoidi le attuali conoscenze indicano l’importanza di diversi fattori climatici, tra cui temperatura, umidità e precipitazioni.
L’olivo è una pianta sempreverde che presenta interessanti aspetti del processo fotosintetico e della traslocazione dei carboidrati verso i frutti per la sintesi, principalmente, dei grassi e di numerose altre sostanze caratteristiche (vedi sostanze fenoliche, aromatiche, ecc.).
Dai ricercatori dell’Università olandese di Wageningen e degli Stati Uniti ci arrivano novità che rendono ancora più interessante l’allevamento di insetti per l’alimentazione animale.
In particolare, l’argomento della tesi di dottorato di Kelly Niermans all’Università di Wageningen ha riguardato la capacità che hanno certe larve, come quelle della mosca domestica, del Black Soldier, della tarma della farina e del grillo, di trasformare le micotossine in molecole assolutamente innocue.
La storia della vite e del vino passa attraverso il messaggio culturale che accompagna il percorso della bevanda attraverso i millenni: il simposio. Pratica conviviale ritualizzata e rispondente a precise regole che implicitamente invitavano alla moderazione nel bere, il simposio si svolgeva alla fine del banchetto greco tra conversazioni alternate al suono di musiche e canti, recita di poesie, danze e giochi; mediato dal mondo etrusco giunge ai Romani e sino ai nostri giorni nel comune denominatore del “bere insieme” (da synpinein). Convivialità e moderazione, socialità e responsabilità sono concetti pregnanti della cultura del vino, richiamati al Museo del Vino a Torgiano MUVIT da collezioni archeologiche, artistiche e tecniche.
Il consumo consapevole del vino è un concetto antichissimo che compare già negli episodi biblici come monito all’eccesso (L’ebbrezza di Noè, Lot e le figlie) e accompagna la diffusione della viticoltura nel Mediterraneo. Dono di Dioniso, il vino era per i Greci essenza stessa della civiltà e l’ebbrezza che causava era considerata compensazione degli affanni della vita, a patto di farne un uso giudizioso.
Durante il simposio i modi e i quantitativi del vino erano dettati dal simposiarca e in molte kylikes (coppe da vino) di età arcaica compaiono due grandi occhi, evocativi della maschera silenica o interpretati come personificazione della coppa stessa: nell’atto del bere, sollevando la coppa, la fissità dello sguardo è ammonimento e richiamo ai simposiaci. Ne è esempio la Kylix a occhioni del sec. VI a.C., dalla raccolta archeologica del MUVIT, che presenta al suo interno una maschera gorgonica come doppio monito all’eccesso.
Al Museo il percorso prende cronologicamente avvio dal III millennio a.C. con il richiamo ai luoghi storici della agricoltura e della viticoltura, alla Mezzaluna fertile, attraverso testimonianze pre ittite e ittite, siriane, cicladiche che attestano un uso quasi sacrale del vino ma è il simposio il leitmotiv nel susseguirsi delle civiltà mediterranee. Brocche, calici, versatori, kylikes, kyathoi (attingitoi), oinochoi (brocche) e altre forme del bere greche, etrusche, romane richiamano un consumo diffuso del vino e la sua presenza costante nei banchetti dell’antichità. Una presenza che accomuna tanto le mense contadine quanto quelle conventuali, principesche di età medievale, rinascimentale, moderna, sino ai nostri giorni; in tutte il vino è immancabile.
Il 3 dicembre 2024, nella sede dell’Accademia dei Georgofili, si terrà la Giornata di Studio conclusiva del progetto LIFE ‘LIFE4FIR’ (LIFE18 NAT/IT/000164) finanziato dal sottoprogramma ‘Natura e Biodiversità’. Il progetto LIFE4FIR ha avuto come obiettivo generale quello di sviluppare ed applicare strategie in situ and ex situ per la conservazione e la salvaguardia dell’Abete delle Madonie (Abies nebrodensis), una specie endemica del Parco delle Madonie, situato nell’area centro-settentrionale della Sicilia. L’ Abies nebrodensis è classificato come a rischio critico di estinzione e, per questo motivo, inserito nella lista rossa della IUCN tra le 50 specie più minacciate di estinzione del Mediterraneo. La popolazione naturale residua oggi è, infatti, costituita da soli 30 alberi adulti, distribuita in un’area di circa 84 ettari all’interno del Parco ed è protetta dalle normative previste dagli standard EU.
Il tema affrontato riguarda la protezione della biodiversità e la salvaguardia delle specie vegetali dai rischi antropogenici come il sovrasfruttamento, l’introduzione di specie non native, la degradazione e frammentazione dell’habitat e il cambiamento climatico. Le specie in via di estinzione sono una componente essenziale della biodiversità e la loro perdita può avere un profondo impatto sugli ecosistemi. Esse contribuiscono alla biodiversità svolgendo ruoli esclusivi a livello ecologico e, quando queste specie scompaiono, l’equilibrio dell’ecosistema viene compromesso. La perdita di biodiversità può rendere gli ecosistemi più vulnerabili alle sollecitazioni ambientali, come inquinamento, cambiamento climatico e malattie. Pertanto, proteggere le specie a rischio di estinzione è essenziale per preservare la biodiversità e il funzionamento degli ecosistemi.
Il progetto LIFE4FIR è stato avviato nel 2019 con l’obiettivo di migliorare lo stato di conservazione dell’Abete delle Madonie, rispondendo alle principali cause di vulnerabilità: l’erosione genetica, la frammentazione della popolazione (e la conseguente autogamia), la scarsa rinnovazione naturale, la sovrappopolazione di erbivori selvatici (daini e cinghiali) e la possibile ibridazione con abeti non nativi. Il progetto è stato attuato da IBE-CNR, Università di Palermo, Università di Siviglia, Ente Parco delle Madonie e il Dipartimento per lo Sviluppo Rurale e Territoriale della Regione Sicilia, con il coordinamento dell’IPSP-CNR (Coordinatore, Dr. Roberto Danti).
Senza cibo si può vivere un mese, senz’acqua non si supera la settimana!
La messa in opera di pannelli solari fotovoltaici può produrre energia attraverso la combinazione di tecnologie per l’energia rinnovabile, incluse quelle marine. Si tratta infatti di pannelli solari posizionati sull’acqua e flottanti, in cui la potenza viene trasferita verso un convogliatore energetico tramite cavi subacquei. Il loro uso è promettente nelle condizioni ideali di lago o diga, dove le acque sono calme e non ci sono problemi di perdita di ancoraggio.
La pianura di Pistoia è oggi occupata quasi interamente dalle attività vivaistiche, di pieno campo o in contenitore, che hanno sostituito, ormai da molti decenni, i campi di seminativo vitato, caratteristici di queste giaciture nel periodo della conduzione mezzadrile. In realtà i vivai ormai stanno risalendo le colline, prendendo il posto di mosaici colturali di stampo “più “tradizionale”.
Infatti, salendo sui rilievi collinari non è insolito vedere nel giardino di una graziosa villetta non le quattro, cinque rose che potremmo aspettarci, ma cinquecento rose in contenitore!!! La vasetteria ha invaso gli spazi come un fiume in piena! Certamente questo fenomeno crea difficoltà di convivenza con la popolazione non direttamente interessata alla produzione, perché si tratta di un’agricoltura intensiva anche se effettuata con competenza e perizia, quindi deve rappresentare un obiettivo prioritario la valutazione attenta e capillare della sostenibilità ambientale finalizzata a preservare la salute delle piante senza recare alcun danno alle persone.
Una volta affrontato questo tema centrale con la volontà di individuare soluzioni efficaci in tempi brevi, guardiamoci intorno e chiediamoci cosa vediamo, cosa vedono gli abitanti di questi luoghi, cosa vedono le persone che percorrono l’autostrada in prossimità di Pistoia, cosa percepiscono i visitatori, i turisti; qual è l’immagine di Pistoia nel mondo: superfici infinite di alberi e arbusti in filari regolari, di genere e specie simili o diverse tra loro per portamento, fiori, fogliame, colori. I filari possono avere orientamento diverso, avere prato tra di loro, terra oppure ghiaia. Tutte queste piante sono in attesa di essere destinate a diventare parti e componenti di parchi, giardini, aiuole, etc.
Ma, esse stesse, in quanto alberi, arbusti, viali, differenti colori e fiori…a cosa corrispondono se non a un grande giardino? Un giardino destinato a dar luogo a giardini ma un giardino esso stesso, con un alto grado di manutenzione, di cura, e, certamente, anche di biodiversità. Molti vivai, sia appartenenti a grandi aziende, sia quelli di piccole dimensioni, hanno lavorato e lavorano per migliorare l’immagine e la qualità paesaggistica, ad inventarsi un progetto di parco fruibile dell’intero vivaio, non solo nelle parti di vetrina commerciale, quelle usate come catalogo vivente.
Il Regolamento europeo sul ripristino della natura, dopo ampie e dettagliate considerazioni (ben 88 punti), si sviluppa in sei capitoli di cui il primo riguarda le “Disposizioni generali” (articoli 1-3); il secondo “Obiettivi e obblighi di ripristino” (articoli 4-13); il terzo “Piani nazionali di ripristino” (articoli 14-19); il quarto “Monitoraggio e comunicazione” (articoli 20-21); il quinto “Atti delegati e atti di esecuzione” (articoli 22-24); il sesto “Disposizioni finali” (articoli 25-28). Il documento termina con 7 allegati.
Il suolo è menzionato 13 volte nelle considerazioni iniziali, 5 nei capitoli e 3 negli allegati. Totale 21 volte.
Il documento contiene una serie di principi e obiettivi condivisibili. Da una lettura dello stesso nel suo insieme si evidenzia, però, la difficoltà a rappresentare in modo omogeneo le diverse situazioni pedo-ambientali dell’intera Unione Europea. Ad esempio, si dà grande spazio alle torbiere, diffuse nel nord Europa ma molto scarse in Italia e nei paesi mediterranei. Dall’altra parte, invece, non si rileva il problema della salinizzazione che ormai riguarda larga parte delle zone costiere del sud Europa.
Non viene dato sufficiente rilievo alle problematiche della gestione delle risorse idriche alla luce della crisi climatica in atto. È noto, ad esempio, che i lunghi periodi di siccità contribuiscono al degrado non solo degli habitat agricoli e forestali, ma anche di quelli urbani, specialmente se alla siccità si associano le sempre più frequenti e intense ondate di calore.
Per quanto riguarda il suolo è da sottolineare che è stato principalmente trattato nel pacchetto di iniziative previste dal Green Deal europeo, tuttavia in questo regolamento viene giustamente considerato parte integrante degli ecosistemi terrestri ed è altrettanto giusto l’auspicio di invertirne i processi degradativi con l’aumento dello stock di carbonio organico; è ampiamente noto il ruolo della sostanza organica ed è altresì assodato che il suo declino causa la degradazione del suolo stesso ed è altrettanto noto che il contenuto di sostanza organica è direttamente proporzionale alla biodiversità del suolo. Giusto, quindi, aver individuato quale indicatore proprio lo “stock di carbonio organico” nei suoli. Giusto anche monitorare questo indicatore determinando il suo contenuto nei suoli coltivati ad una profondità compresa tra 0 e 30 cm. Anche se i pedologi vorrebbero la sua determinazione lungo tutto il profilo!
In modo analogo alla chirurgia robotica una cucina robotica può supportare l'utente in vari modi, per cui in futuro i robot cooperativi guidati a distanza possono essere integrati nelle cucine come ogni altro apparecchio, in diversi scenari in cui il robot supporta l'essere umano, con le sfide che tale configurazione comporta.
Intervista al Dott. Alberto Laddomada, ex dirigente della Commissione Europea per la salute animale ed ex direttore generale dell’Istituto Zootecnico Sperimentale della Sardegna, esperto virologo ed epidemiologo di lungo corso.
In quarant'anni di carriera nella genetica agraria, ho assistito a profondi cambiamenti e ho utilizzato le tecnologie più avanzate disponibili in ogni epoca: dagli anni '80 e '90, con la rigenerazione delle piante da protoplasti, la transgenesi e l'isolamento e lo studio funzionale dei geni, fino alle più recenti tecniche di decifrazione dei genomi e le NGT “New Genomic Techniques”, che noi genetisti italiani chiamiamo TEA (Tecnologie di Evoluzione Assistita). Questi strumenti della ricerca di base per approfondire la conoscenza, solo in alcuni casi, sono sfociati in innovazioni e applicazioni pratiche. Tuttavia, nonostante i progressi, non ho mai potuto osservare le piante modificate geneticamente in laboratorio crescere al di fuori di una serra. Questa frustrazione, più professionale che personale, è stata condivisa con molti colleghi: come si comporteranno queste piante in un ambiente agricolo reale? Riusciranno a esprimere nelle condizioni operative il carattere genetico valutato in laboratorio? Questa incertezza ha caratterizzato gran parte della mia vita professionale e quella di altri ricercatori nel campo delle biotecnologie agrarie, sia in Italia che in Europa.
Oggi le piante ottenute mediante TEA, considerate OGM da un obsoleto regolamento del 2001, vedono finalmente aperta la sperimentazione in pieno campo. Le TEA consentono, a seconda degli obiettivi, di trasferire geni all'interno del pool genetico della stessa specie (cisgenesi) o di eseguire mutazioni di precisione attraverso il gene editing con l’uso di forbici molecolari come CRISPR/Cas9, che agiscono con estrema specificità sul bersaglio genomico. La cisgenesi e il gene editing, insieme alla profonda conoscenza dei genomi e della funzione dei geni, costituiscono le più grandi innovazioni nel miglioramento genetico moderno delle piante agrarie.
Frusciante. La viticoltura italiana è ai primi posti della produzione mondiale, sia per quanto riguarda l’uva da vino, sia per quella da tavola, ma la vite è anche la specie che ha usufruito meno dei progressi del miglioramento genetico rispetto ad altre specie agrarie. Probabilmente perché, l’uva da vino, in particolare, è ancora fortemente legata al binomio vitigno-terroir che incide in maniera determinante sulle esigenze della promozione commerciale senza tener conto, però, della sostenibilità ambientale.
Polverari. Il miglioramento genetico per la resistenza è stato fondamentale per tante specie agrarie e non possiamo pensare di farne a meno proprio in una coltura così impattante come la vite. Le nuove varietà di vite resistenti ottenute mediante incrocio con un enorme sforzo scientifico e imprenditoriale, hanno raggiunto lo scopo di ridurre del 60-70% i trattamenti al vigneto, ma ovviamente i caratteri originali vanno perduti e introdurre innovazioni di gusto in enologia è molto difficile, richiede una grande consapevolezza e sensibilità del consumatore ai temi ambientali e una disponibilità al cambiamento che in questo settore mancano ancora.
Oggi la tradizione enologica può trovare alleati potenti nei nuovi strumenti biotecnologici di miglioramento genetico, per produrre viti più resistenti senza cambiarne l’assetto genetico originale e quindi preservandone il gusto e il valore.
Il Consiglio dell'Ue, su impulso della Commissione Europea, ha adottato la decisione di presentare, a nome dell'Unione europea, una proposta di modifica del livello di protezione del lupo previsto dalla Convenzione internazionale sulla Conservazione della Vita Selvatica e degli Habitat naturali in Europa, adottata a Berna nel 1979 e giuridicamente vincolante. Nello specifico, si prospetta di abbassare la tutela del lupo declassandolo da “specie faunistica rigorosamente protetta” a “specie faunistica protetta”. La proposta sarà presentata alla 44esima riunione del Comitato permanente della Convenzione di Berna, responsabile della valutazione dello stato di conservazione delle specie, che si terrà a dicembre 2024 (Fonte AGI).
Percorriamo brevemente le principali tappe che hanno portato all’attuale stato protettivo del lupo.
Il Green Deal è disastroso, lo cambieremo, dice Giorgia Meloni all’assemblea di Confindustria. Il tema è l’automotive, l’industria, le tecnologie ma il segnale è inequivocabile. Praticamente nelle stesse ore la neo-vicepresidente esecutiva della Commissione UE, la spagnola Teresa Ribera, parlando con l’Ansa, si è detta “certamente” convinta della volontà di portare avanti – e forse anche intensificare – gli sforzi per realizzare il criticato Green Deal, sia pure nella nuova versione (coniata da Ursula von der Leyen) di “clean industrial plan”.
Oltre alla peste suina, c’è un’altra malattia che preoccupa molto gli allevatori: la Blue Tongue o Lingua blu o febbre catarrale dei ruminanti. Ne abbiamo parlato con Giovanni Savini, Head of Public Health Department, Director of the European Reference Laboratory for RVF, WOAH and National Reference Laboratory for Bluetongue dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell'Abruzzo e Molise.
Che cos’è la lingua blu o la bluetongue?
La Bluetongue è una malattia virale che colpisce i ruminanti ed è, per lo più, trasmessa da moscerini appartenenti a specie del genere Culicoides. Il virus della Bluetongue include oltre 35 diversi sierotipi, tra cui i più importanti da un punto di vista clinico e normativo sono quelli da 1 a 24. Ogni sierotipo è immunologicamente distinto dagli altri e all'interno di ciascun sierotipo possono esserci più ceppi o stipiti virali. La distinzione tra i sierotipi è fondamentale, poiché un vaccino prodotto contro un determinato sierotipo generalmente è efficace per tutti i ceppi virali appartenenti a quel sierotipo.
Qual è la situazione in Europa e nel nostro Paese?
La situazione in Italia e in Europa è piuttosto complessa. Ci troviamo a fronteggiare sierotipi diversi e ceppi virali altamente virulenti. Attualmente, il ceppo virale prevalente nel centro-nord Europa appartiene al sierotipo 3. Introdotto nei Paesi Bassi nel settembre dello scorso anno, questo virus si è rapidamente diffuso, causando gravi danni alla zootecnia in diverse nazioni europee. Dal territorio olandese, infatti, il virus si è propagato in Belgio, Germania, Inghilterra, Francia, Lussemburgo, Svizzera, Danimarca, Norvegia, Svezia, Austria e Portogallo. Si tratta di un ceppo estremamente virulento, capace di determinare seri quadri clinici ed elevata mortalità, soprattutto tra le pecore. Sono stati inoltre segnalati sintomi e cali di produzione anche nei bovini, in particolare in Francia. La nuova emergenza europea ha spinto diverse aziende farmaceutiche a sviluppare vaccini contro questo sierotipo. Vari prodotti sono stati sviluppati e introdotti sul mercato, e alcuni sono già in uso in diverse nazioni europee dove ne è autorizzato l'impiego. Un altro ceppo che sta interessando in modo significativo l'Europa appartiene al sierotipo 8; presenta caratteristiche genomiche che lo differenziano da altri ceppi dello stesso sierotipo che precedentemente erano circolati in Europa e in Francia. Anche questo ceppo ha mostrato spiccate caratteristiche di virulenza. In Francia, i primi focolai clinici causati da questo ceppo virale sono stati osservati nell'agosto del 2023 nella regione meridionale del Massiccio Centrale. Da lì, il virus si è diffuso in Corsica e, successivamente, in Sardegna (ottobre 2023). Con l'arrivo della nuova stagione vettoriale 2024, il virus si è propagato anche in Spagna, nelle Isole Baleari, in Andorra e in Svizzera. Anche per questo sierotipo sono disponibili vaccini sul mercato.
Pochi giorni fa sono finito per caso su una pagina di un social dove ho letto i commenti riguardo all’abbattimento di un platano in cui si arrivava addirittura a minacciare “il responsabile” di tale abbattimento, insieme a offese di vario genere. Ora, conoscendo proprio quella situazione e la motivazione della scelta fatta, legata al limitare il progredire del cancro colorato del platano, la cui lotta è obbligatoria per legge e la cui omissione è un reato penalmente perseguibile, vorrei fare qualche riflessione sulla questione della gestione degli alberi in città e della necessità, che talvolta sorge, di doverli abbattere e sostituire.
L’abbattimento degli alberi in contesti urbani è diventato uno dei temi più dibattuti e, purtroppo, spesso affrontato con superficialità. Quello che dovrebbe essere un dibattito pubblico maturo e consapevole sulla gestione del verde urbano si trasforma sempre più spesso in una caccia al colpevole, un’escalation di accuse e aggressioni che mina la possibilità di un dialogo costruttivo. La cultura dominante sembra essere quella della condanna immediata, in cui non solo si ignorano le ragioni tecniche e scientifiche dietro certe scelte, ma si attacca violentemente chi lavora per la salvaguardia del territorio, in particolare gli operatori e i tecnici incaricati della gestione degli alberi che, mi preme sottolinearlo, si assumono anche responsabilità importanti.
Questa cultura della colpa a tutti i costi è un sintomo di una tendenza preoccupante: la mancanza di volontà di comprendere. Siamo ormai così intrappolati in un meccanismo di indignazione che la prima reazione è accusare, senza fermarsi a chiedere il "perché". È un atteggiamento che rispecchia un allarmante distacco dalla realtà dei fatti, dove l’emotività prevale sul ragionamento critico. Gli alberi sono visti come simboli di un’innocenza violata, e ogni loro rimozione è interpretata come un crimine contro la natura, senza tener conto delle possibili motivazioni che possono rendere necessario l’abbattimento. Malattie, pericolo di crolli e rischio spesso connesso in ambito antropizzato, interferenze con infrastrutture e piani di rigenerazione urbana sono solo alcune delle ragioni che spesso giustificano interventi, certo dolorosi, ma necessari.
Roma è una città che presenta criticità ambientali legate all’inquinamento e al traffico veicolare lungo la rete stradale, ma al contempo possiede un significativo capitale “naturale” costituito dai parchi delle ville storiche, dalle aree naturali protette, dalle vaste aree archeologiche che creano porosità verdi all’interno del tessuto urbano. A Roma, inoltre, le alberature stradali contribuiscono alla identità paesaggistica: le “olmate” di memoria papale, i platani dell’epoca umbertina, i cipressi delle passeggiate archeologiche, i lecci del quartiere Prati e i pini domestici hanno contribuito a creare l’immagine paesaggistica della città.
La possibilità di realizzare missioni spaziali estese, con lunghi periodi di permanenza a bordo di piattaforme spaziali orbitanti o in colonie spaziali sulla Luna o su Marte, è legata alla capacità di creare un sistema biorigenerativo di supporto alla vita e, tra tutti gli organismi studiati per questa funzione, a oggi le piante rappresentano i rigeneratori più promettenti. È qui che entra in gioco l’agricoltura spaziale, la pratica di coltivare piante per sostenere la vita in un ambiente extraterrestre. Stefania De Pascale, pioniera assoluta a livello internazionale in questo campo, spiega quali sono le sfide biologiche e tecnologiche che abbiamo di fronte e come potremmo fare per superarle nel suo ultimo libro: “Piantare patate su Marte. Il lungo viaggio dell'agricoltura” (Ed. Aboca).
Con la partecipazione di capitali privati, la corsa allo spazio ha subito un’enorme accelerazione: Elon Musk ha recentemente dichiarato che i primi voli con equipaggio su Marte avverranno tra 4 anni e che il numero dei voli crescerà esponenzialmente, con l’obiettivo di costruire una città autosufficiente in circa 20 anni. Questo, dunque, significherà praticare agricoltura nello spazio ... ma COME?
La visione di Elon Musk per la colonizzazione di Marte è certamente ambiziosa perché ci sono ancora molte sfide da superare. Secondo i piani di Musk, la prima città su Marte dovrebbe essere costruita in circa 20 anni. Per rendere questa città autosufficiente nello spazio, sarà fondamentale sviluppare sistemi di supporto alla vita biorigenerativi (BLSS), veri e propri ecosistemi artificiali in grado di rigenerare aria, acqua e cibo in modo continuo direttamente su Marte, per ridurre la dipendenza dai rifornimenti dalla Terra. Si tratta di ecosistemi artificiali basati sulle interazioni tra esseri umani (consumatori), batteri e altri organismi decompositori, alghe, piante e batteri fotosintetizzanti (produttori), alloggiati in relativi compartimenti, in cui ciascun componente utilizza i prodotti di scarto dell’altro come risorsa, in un ideale ciclo chiuso.
Pagliai – Le produzioni di nicchia rappresentano, in molti casi, una vera eccellenza nel panorama delle produzioni agricole e forestali che, per la verità, non stanno attraversando un periodo particolarmente florido, sia da un punto di vista ambientale, sia, soprattutto, da un punto di vista economico. Fra queste produzioni di nicchia vi è sicuramente il tartufo a cui, negli ultimi decenni, si sono intensificati gli studi proprio per conoscerne le condizioni di crescita nel tentativo di migliorarne la produzione. A parte le piante micorizzate, quali sono le condizioni ottimali del suolo per la produzione dei vari tipi di tartufo?
Bragato – Premettendo che i veri tartufi, i corpi fruttiferi dei funghi Ascomiceti del genere Tuber spp., le caratteristiche che influiscono sull’ambiente suolo che colonizzato sono separabili in due gruppi. Da una parte le caratteristiche chimiche dei suoli ricchi in Calcio: presenza di carbonato di Ca e/o complesso di scambio dominato dal Ca, con valori di pH superiori a 6,5 e molto spesso maggiori di 7,2. Dall’altra aspetti fisici determinati da una struttura del suolo molto porosa e permeabile.
La componente chimica è stata verosimilmente un fattore di speciazione del genere Tuber. Con l’emersione di rocce e sedimenti calcarei, l’adattamento delle specie tartufigene ad ambienti chimicamente preclusi a gran parte dei funghi micorrizici ha aperto grandi spazi in cui diffondersi quasi in assenza di concorrenza. La componente fisico-strutturale consente invece un facile accesso all’ossigeno atmosferico (i funghi micorrizici sono organismi aerobi obbligati) e favorisce lo sviluppo dimensionale dei tanto apprezzati tartufi.
Le due componenti hanno anche un diverso peso in rapporto alla distribuzione geografica degli habitat tartufigeni. Secondo i criteri chimici, più di metà del territorio italiano sarebbe idoneo ai tartufi, ma quelli fisico-strutturali riducono drasticamente le aree vocate. Non esistono stime in questo senso, ma la mia esperienza sul tartufo bianco pregiato (T. magnatum) mi fa propendere per valori inferiori all’1% dei suoli a carbonati/ricchi in Ca scambiabile.
La grande selettività della componente fisico-strutturale è attribuibile alla presenza di molti pori con diametro maggiore di 30 µm che, oltre a facilitare i movimenti dell’aria, determinano una elevata capacità drenante del suolo, rendendo potenzialmente aridi i suoli da tartufo. Di conseguenza, gli habitat tartufigeni si restringono alle aree in cui vengono limitate le perdite d’acqua per evaporazione e/o garantiscono agli alberi simbionti l’accesso a riserve idriche sotto superficiali anche profonde.
Da un punto di vista biologico la combinazione elevato drenaggio/adeguata idratazione determina la prevalente maturazione dei tartufi in autunno-inverno. Grazie a specifici adattamenti biologici, solo due specie maturano in periodi diversi. Il tartufo bianchetto o marzuolo (T. borchii), prediligendo suoli tendenzialmente sabbiosi, matura a marzo-aprile, quando le sabbie inumidite dalle piogge primaverili raggiungono la massima sofficità e offrono la minima resistenza allo sviluppo dimensionale dei corpi fruttiferi. Il tartufo estivo (T. aestivum), invece, sfrutta l’ispessimento del peridio del corpo fruttifero (da cui il nome alternativo di “tartufo scorzone”) come difesa dal disseccamento. Con questa modifica anatomica, lo sviluppo dimensionale viene disgiunto dalla fase di maturazione: le piogge primaverili consentono l’ingrossamento dei tartufi, segue una fase di stasi fino alle poche piogge estive che attivano la fase di maturazione nel periodo più secco dell’anno.