La stevia è una pianta perenne tipica delle regioni tropicali del Sud America, ricca di molte sostanze dalle caratteristiche immunoregolatorie, antiossidanti ed antiinfiammatorie. La composizione analitica del residuo dopo l’estrazione del dolcificante è complessa per i numerosi principi attivi che contiene, fra cui l’acido caffeico, l’acido clorogenico, flavonoidi, la quercetina e alcuni loro derivati.
Se al Nord sono arrivate le tanto desiderate piogge e nevicate, al Sud permane una situazione meteorologica tragica di siccità, ormai giunta a condizioni non più sostenibili.
Non si tratta semplicemente di rinnovare le solite raccomandazioni per un uso ragionato e razionale delle risorse idriche, ma di implementare una serie di riflessioni e programmazioni, a tutti i livelli, per cercare di arginare un problema che sembra, ormai, sfuggito a ogni forma di gestione e controllo. Non basta risparmiare acqua, ma bisogna riciclarla e accumularla quando e dove il terreno non è in grado più di tesaurizzarla.
Il termine “biodiversità” esprime un concetto molto più ampio di quanto comunemente si pensi, poiché racchiude la variabilità tra gli organismi viventi all’interno di una singola specie (diversità genetica), fra specie diverse e tra ecosistemi. La biodiversità potremmo dire è l’accumulo di 3,5 miliardi di anni di coesistenza e di esperienze di tutte le forme di vita, un’eredità che non possiamo perdere ai ritmi frenetici e angosciosi degli anni recenti.
In Italia ci sono circa 10mila piante secondo il nuovo censimento e sono 46 in più le specie autoctone e 185 in più quelle aliene. Dai dati complessivi aggiornati rispetto al 2018, emerge che nel nostro Paese ci sono oggi 8.241 specie e sottospecie autoctone, di cui 1.702 endemiche (cioè esclusive del territorio italiano) mentre 28 sono probabilmente estinte. A queste si aggiungono 1.782 specie aliene. Tra di esse, 250 sono invasive su scala nazionale e ben 20 sono incluse nella 'lista nera' della Commissione Europea, che elenca una serie di piante e animali esotici, la cui diffusione in Europa va assolutamente tenuta sotto controllo.
“Rispetto all’analogo censimento pubblicato sei anni fa abbiamo un incremento dei numeri totali: ciò è dovuto a nuovi studi e all’esplorazione di nuovi territori, ma anche, per quanto riguarda le aliene, all’ingresso di numerose nuove specie, da monitorare attentamente e se possibile eradicare”, racconta Lorenzo Peruzzi, fra i coordinatori della ricerca, professore di Botanica sistematica nel Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa e direttore dell’Orto e Museo Botanico.
Gli elenchi aggiornati della flora vascolare (ossia felci e affini, conifere e piante a fiore) autoctona e aliena presente in Italia sono stati appena pubblicati sulla rivista internazionale “Plant Biosystems”, organo ufficiale della Società Botanica Italiana. Si è trattato di una ricerca collaborativa, realizzata grazie agli sforzi congiunti di 45 ricercatori italiani e stranieri. Insieme a Lorenzo Peruzzi hanno coordinato lo studio anche Gabriele Galasso del Museo Civico di Storia Naturale di Milano e Fabrizio Bartolucci e Fabio Conti dell’Università di Camerino. Tra gli autori della ricerca anche Francesco Roma-Marzio, Curatore dell’Erbario dell’Orto e Museo Botanico dell’Ateneo pisano.
“C’è ancora molto da fare – conclude Peruzzi – e il lavoro di continua ricerca e verifica svolto dai floristi e dai tassonomi per descrivere la biodiversità vegetale italiana è ben lungi dall’essere concluso. Certamente, però, il quadro delle conoscenze che abbiamo oggi è sempre più completo e potrà permettere azioni di tutela maggiormente mirate e consapevoli”.
Per quanto nel mondo occidentale, da alcuni lustri, si sia fatta strada una agricoltura più rispettosa dell'ambiente, dobbiamo ammettere che la maggioranza dell'attività dei campi è ancora orientata, soprattutto, dal livello produttivo e dal ricavo economico aziendale. Questi due obiettivi vengono ancora individuati, troppo frequentemente, nella monocoltura. Si impone pertanto una considerazione sulla indispensabilità -al fine di ottenere una maggiore stabilità degli ecosistemi- della biodiversità come modello che, dalle comunità della flora spontanea, venga introdotto, con opportuni accorgimenti, all'interno dei sistemi agricoli.
Una tendenza sempre più diffusa, nel tessuto urbano contemporaneo, è quella di integrare elementi naturali all'interno delle città, con l'obiettivo di creare spazi verdi che migliorino la qualità della vita dei cittadini. Tra le molte opzioni disponibili, l'idea di introdurre alberi anche nei centri storici può apparire promettente: oltre a fornire un piacevole aspetto estetico, gli alberi possono contribuire a migliorare il microclima di certe aree. Tuttavia, dietro questa apparente idilliaca immagine, si nasconde una serie di sfide e difficoltà che rendono l'impresa molto più complessa di quanto si potrebbe immaginare e i risultati potrebbero essere molto diversi rispetto a quanto prospettato, soprattutto in ambienti ostili come i canyon urbani.
Una delle prime e più ovvie sfide nell'introdurre alberi in certe situazioni è lo spazio limitato a disposizione e il volume di suolo utilizzabile. Le città sono caratterizzate da una densità abitativa sempre crescente e da una costante competizione per l'uso del suolo. In quest'ottica, trovare spazio sufficiente per ospitare alberi può essere un compito arduo, se non impossibile.
E anche se si riesce a trovare lo spazio necessario, ci si trova di fronte a un altro ostacolo significativo: la selezione delle specie più adatte alla vita urbana. Le città presentano, come è noto, una serie di condizioni ambientali avverse per la crescita delle piante, tra cui l'inquinamento atmosferico, il calore urbano, la carenza di suolo e l'ombra degli edifici circostanti.
Tuttavia, nonostante queste difficoltà, molte città stanno promuovendo la piantagione di alberi spesso senza una valutazione accurata delle specie più adatte al contesto urbano e senza, soprattutto, un’adeguata analisi del sito d’impianto. Spesso vengono scelte specie che richiedono terreni profondi e fertili, che non possono essere facilmente garantiti nelle città. Inoltre, alcune specie richiedono una grande quantità di acqua e gestione, rendendo difficile il loro mantenimento nelle condizioni urbane.
Il termine biodiversità, usato in molteplici circostanze e talvolta abusato, è molto più di una semplice parola alla moda. Questo concetto, cruciale in ecologia, si riferisce alla vasta varietà delle forme di vita ed è stato introdotto dall'entomologo Edward O. Wilson nel 1986. La biodiversità abbraccia la variabilità genetica entro le specie, la diversità tra specie diverse e la varietà degli ecosistemi. Questa diversità biologica è vitale per la resilienza e la sopravvivenza delle specie e degli ecosistemi, permettendo loro di adattarsi ai cambiamenti e alle perturbazioni ambientali. Tuttavia, l'interpretazione comune di biodiversità spesso ignora la sua estensione, limitandosi all’agrobiodiversità, ovvero alla varietà di piante coltivate e animali domestici, che rappresenta solo una piccola frazione della biodiversità complessiva seppure di vitale importanza. L’agrobiodiversità si riferisce al patrimonio di risorse genetiche vegetali, animali e microbiche, prodotto dal lavoro di generazioni di agricoltori e allevatori che, dall'alba dell'agricoltura, hanno selezionato, domesticato e trasferito specie da diverse zone geografiche per ottenere prodotti utili all’uomo.
La cosiddetta Rivoluzione Verde (1940-1970) ha segnato un’epoca di industrializzazione agricola con incrementi produttivi notevoli, ma a spese di un elevato consumo energetico e di una riduzione della diversità agroalimentare. La biodiversità delle colture è stata particolarmente compromessa: secondo la FAO nel corso del XX secolo abbiamo perso il 75% delle varietà di colture disponibili. Oggi, il sistema agroalimentare mondiale si affida a un numero molto limitato di specie: meno di 200 delle 6000 coltivate per la produzione di cibo contribuiscono significativamente all'approvvigionamento alimentare globale, con solo 9 specie che dominano la produzione (rappresentando il 66% della produzione totale).
La storia ha mostrato gli effetti catastrofici di epidemie su colture geneticamente uniformi, come la carestia della patata in Irlanda nel 1845 o l'epidemia di Bipolaris maydis negli Stati Uniti nel 1970. Esempi recenti in Italia includono il punteruolo rosso della palma (Rhynchophorus ferrugineus), che dal 2005 si è diffuso in Italia soprattutto lungo la linea costiera trovando la sua via tra i filari di palme, o la Xylella fastidiosa che ha infettato ventuno milioni di ulivi pugliesi, coprendo ottomila chilometri quadrati, circa il 40% del territorio regionale. Secondo la FAO, inoltre, molti effetti negativi del cambiamento climatico sulle piante hanno parassiti come intermediari; la presenta di insetti benefici, diminuita dell'80% negli ultimi tre decenni, sta aumentando il rischio di invasioni di insetti dannosi. Un esempio chiaro di quest’ultimo fenomeno sta avvenendo in modo drammatico nell'Africa orientale dove negli ultimi decenni avvengono infestazioni di locuste senza precedenti.
Giorgio Vasari nella biografia dedicata al pittore friulano Giovanni da Udine elogia l’artista per aver dipinto intorno al 1518 nella villa romana di Agostino Chigi, oggi detta ‘Farnesina’: “…stagione per istagione di tutte le sorte di frutte, fiori e foglie con tanto artifizio lavorate, che ogni cosa vi si vede viva e staccata dal muro e naturalissima”.
La coltivazione degli agrumi si configura come un sistema complesso nel quale è sempre più difficile incastrare i diversi vincoli che rischiano di contrarre il già insoddisfacente reddito degli imprenditori. Vi è quindi un costante e crescente bisogno di innovazioni, dalla fase di impianto sino al post raccolta dei frutti, che permettano di utilizzare in maniera efficace i diversi input dei quali queste specie hanno storicamente bisogno.
Dopo il momento di grande interesse mediatico della cosiddetta guerra dei trattori, coinvolta, volente o nolente, nell’inizio della campagna elettorale per le ormai incombenti elezioni per il Parlamento Europeo dei primi di giugno, e dopo la pronta risposta delle Istituzioni europee con le decisioni di fine marzo su alcuni adattamenti della Pac in vigore, sembra essere calato il silenzio su presente e futuro della Politica agricola europea. Lo stesso avviene per quanto riguarda le diverse transizioni, in particolare quella ambientale e quella energetica che, al contrario, dovrebbero essere al centro del dibattito politico e dei programmi dei partiti europei e delle forze nazionali che li costituiscono.
Ma se la Politica, quella con la maiuscola, rimane paradossalmente in secondo piano nel momento in cui si prepara il futuro scenario politico europeo, altrettanto non si può dire per l’attività agricola che non può rimanere ferma sia per ragioni di prospettiva e di indirizzi sia perché il trascorrere dei giorni è fondamentale.
Il mondo agricolo ha visto con sorpresa che il tabù dell’intangibilità della Pac e delle transizioni non era poi tanto rigido e poteva essere quantomeno modificato. Le piccole correzioni concesse mostrano che qualche cosa si potrebbe fare, se solo si volesse seguire il sentiero della concretezza e della compatibilità con le condizioni che determinano il quadro di fondo delle politiche economiche dell’Ue.
Perché ciò potesse accadere, però, bisognerebbe entrare nel concreto. Un esempio fondamentale, che oltre a tutto collega la Pac alle politiche di transizione, ci sarebbe e riguarda proprio un elemento chiave nell’esercizio dell’agricoltura e nella formazione stessa dell’ambiente: l’acqua.
Francamente fanno amaramente sorridere le trite celebrazioni della Giornata dell’acqua, officiate secondo un copione pseudo ambientalista e falsamente agricolo, oltre che anti umanitario, ma in realtà più obbligate e fredde che spontanee e sentite dal resto del mondo non agricolo.
Gli episodi che fanno notizia sono le sempre più frequenti calamità provocate ed aggravate dalle alterazioni meteo, l’alternanza sempre più evidente di periodi anomali di siccità e di eccessi di piovosità, le gravi carenze di acqua per gli usi umani ed agricoli che ne derivano.
Tradizionalmente le foglie di basilico (Ocimum basilicum L.) sono raccomandate per vari disturbi cerebrali con evidenze scientifiche di una loro capacità di produrre un miglioramento cognitivo, ma poco si conosceva sul composto o sui composti responsabili di questo effetto e sul loro meccanismo. Recentemente sono stati studiati le molecole responsabili degli effetti di miglioramento della memoria, precisandone anche il loro meccanismo d'azione.
Le fonti dei gas serra prodotti dall’uomo sono molte. La quota prodotta dalle attività zootecniche è senz’altro minoritaria (FAO, 2019), eppure le attività zootecniche, in particolare quelle da latte, sono spesso indicate come le peggiori responsabili. Riconosciamo che non è così, anche alla luce dei nuovi sistemi di valutazione e di calcolo che, ridimensionando le responsabilità dei ruminanti, ci fa sentire meno in colpa.
Pagliai – Non c’è dubbio che negli ultimi decenni è cambiata l’agricoltura, soprattutto il modo di fare agricoltura e fra le pratiche agricole che hanno subito i maggiori cambiamenti vi è proprio l’irrigazione. Oggi nelle campagne non si vedono più, o quasi, i grandi getti d’acqua sopra le colture o lo scorrimento sul suolo di grandi masse d’acqua, ma si vedono sempre di più le ali gocciolanti lungo la fila delle colture stesse. Un cambiamento verso la modernizzazione indotto sia dai cambiamenti climatici che, con i lunghi periodi di siccità, è necessario non solo risparmiare acqua ma anche garantirla per la maggiore richiesta delle colture, sia per abbassare l’impatto sul suolo, visto la sua continua degradazione o, come si dice oggi, il suo precario stato di salute.
Mastrorilli – Voglio ricordare quanto grande sia stato il ruolo della Ricerca italiana nell’ambito della idrologia del Suolo e di conseguenza sulla Scienza Irrigua. Perché di Scienza bisogna parlare anche in Irrigazione. “Aridocoltura” fu scritto da Enrico Pantanelli all’inizio dello scorso secolo. Pantanelli precisò che l’acqua è solo uno dei mezzi di produzione che si applicano ai sistemi colturali. Questi si gestiscono armonizzando tutte le “regole” della Agronomia, senza sconti. Alle prassi agronomiche tradizionali si è aggiunta una serie di aggiornamenti scientifici e tecnici, in continua evoluzione che riguardano la relazione “acqua – produzione”. La Ricerca produce innovazioni che poi si vedono applicate in campo a decenni di distanza. Le attuali tecniche irrigue si uniformano a istanze economiche, ambientali e sociali: l’acqua per l’agricoltura (e per tutti i settori produttivi) scarseggia, il costo dell’esercizio irriguo sale, i consumatori sono attenti all’impronta idrica dei prodotti agricoli. La micro-irrigazione fu concepita nei laboratori di ricerca più di mezzo secolo fa per ottimizzare le rese, ma solo oggi è largamente adottata come unico rimedio per contenere i volumi irrigui. Questa tecnica irrigua si pratica solo se l’azienda dispone di acqua “a domanda”.
Dottor Frescobaldi, in occasione dell'inaugurazione del 75° anno accademico dell'Accademia della Vite e del Vino, che si è svolta pochi giorni fa, Lei come Presidente dell'Unione Italiana Vini (UIV) ha svolto una prolusione dal titolo: "Situazione attuale e prospettive per il settore vitivinicolo nazionale". Innanzi tutto, qual è lo stato di salute generale del settore?
Avete registrato flessioni per i cambiamenti climatici o a seguito della campagna salutista contro il consumo di alcol, che ogni tanto ritorna anche sui media italiani?
Lo stato di salute del settore può essere definito buono, soprattutto se lo guardiamo in rapporto al contesto in cui stiamo vivendo, fatto di turbolenze quando non di vere e proprie tempeste. Dopo il Covid, ci eravamo illusi che il mondo sarebbe ritornato su un sentiero di relativa tranquillità e invece ci siamo trovati ad assistere a più di una guerra, a subire tensioni economico-finanziarie e politiche. Anche il 2024 non è iniziato nel migliore dei modi, come dimostrano gli accadimenti recenti. Il vino, essendo un prodotto fatto dagli uomini per gli uomini, non può non risentire di tutto questo: quando si ha la febbre, si cerca prima di tutto di guarire. Quindi, alla luce di quanto sta accadendo, le performance – anche leggermente negative – che hanno contraddistinto il 2023 devono essere prese con ottimismo. Vero che – guardando nello specifico del nostro settore – le politiche antialcol stanno facendo clamore, ma riteniamo che in linea generale non siano queste a incidere sui consumi. E’ in atto – soprattutto in Occidente – una presa di coscienza dell’importanza della propria salute, un effetto post-pandemico spesso sottovalutato, per cui le persone tendono a cercare nel cibo che mangiano e nelle bevande che bevono sia elementi salutari, sia edonistici. Il vino – ma direi anche l’alcol in genere - sta in questa seconda aspirazione: oggi si beve qualcosa per il piacere che esso dà in termini anche e soprattutto di gratificazione, sia essa personale o anche sociale. Le persone scelgono la bevanda alcolica sempre più spesso in rapporto alla coerenza che essa ha con il proprio stile di vita. La sostenibilità di cui tanto si parla dimentica spesso e volentieri l’elemento umano, ma la ricerca di prodotti “sostenibili per lo spirito e per il corpo” – quindi, tanto per fare esempi non esaustivi, a basso contenuto non solo alcolico ma anche zuccherino - è oggi uno degli elementi chiave nei processi d’acquisto, che stanno portando a una riduzione strutturale dei consumi tradizionali, compensata da un aumento di quelli non tradizionali.
L’accelerazione dei cambiamenti climatici registrata negli ultimi anni impone una decisa risposta da parte di tutte le attività produttive che direttamente o indirettamente contribuiscono alle modifiche in corso.
Anche l’agricoltura deve dare il suo contributo e diversi settori, tra cui la viticoltura, si stanno adeguando sulla scorta di una maggiore sensibilità e percezione del valore ambientale da parte dei consumatori.
L’evoluzione della meccanizzazione può essere significativamente espressa attraverso l’esame dell’evoluzione della macchina principe dell’agricoltura, cioè del trattore.
All’inizio degli anni ‘80 del secolo scorso il trattore, costruito con una tecnologia prettamente meccanica, da macchina per la trazione, grazie alla presa di potenza e all’attacco a tre punti, diventa centrale mobile di potenza nei lavori agricoli.
Nel 1980 l’immatricolazione dei trattori era pari a 66.000 unità per una potenza media di 45 kW, mentre gli occupati in agricoltura erano circa 3 mln. Quindi una forte presenza di manodopera e una meccanizzazione, in conformità col trattore, poco evoluta tecnologicamente, la cui gestione non richiedeva particolare competenza.
Alla fine degli anni ‘80 l’elettronica inizia ad interessare le macchine agricole. L’immatricolazione era intorno alle 40.000 unità, mentre la potenza media saliva a 50 kW e gli occupati in agricoltura scendevano a poco più di 2 mln. L’incidenza della manodopera è ancora elevata, si registra un incremento della potenza dei trattori immatricolati, senza che vi siano state innovazioni significative.
E’ negli anni ‘90 che avviene il passaggio dalla cosiddetta agricoltura 2.0 all’agricoltura 3.0. Questo grazie alla meccatronica applicata alle macchine agricole, cioè al connubio tra meccanica, informatica ed elettronica e alla digitalizzazione, che portano: allo sviluppo della sensoristica di prossimità e da remoto; all’introduzione dei dispositivi per la geolocalizzazione satellitare (GPS, RTK); a software sempre più evoluti grazie alla crescente disponibilità di dati e di informazioni acquisite. Si tratta di informazioni fornite, non solo dai sensori a terra o montati sulle macchine, ma anche da altre fonti, come, ad esempio, le immagini multispettrali di Sentinel-2 del programma Copernicus (disponibili ogni 4 giorni), o quelle ottenute dai droni, ecc. Dai dati acquisiti si ricavano informazioni che servono, ad esempio, per creare le mappe di prescrizione, ed anche per ottenere gli indici di vegetazione, quali l’indice di vigoria, l’indice di stress idrico, l’indice della clorofilla, ecc. Tutte informazioni di supporto alle decisioni che consentono di attuare una corretta smart farming.
Nel mondo moderno, dove l'attenzione verso l'ambiente e la sostenibilità è diventata una priorità, la narrativa ambientale ha spesso assunto il ruolo di un catalizzatore per la sensibilizzazione e l'azione. Tra le molte iniziative promosse, una delle più diffuse è la piantagione degli alberi. Tuttavia, mentre la narrativa attorno a questo tema è ricca di entusiasmo e speranza, la realtà pratica spesso svela una serie di sfide e ostacoli che possono rendere difficile tradurre gli ideali in azioni concrete.
In molti discorsi pubblici e campagne di sensibilizzazione, si parla con fervore della necessità di piantare alberi per contrastare il cambiamento climatico, proteggere la biodiversità e migliorare la qualità dell'aria. Eppure, quando si passa dalla teoria alla pratica, emergono molte questioni complesse che possono minare tutte queste promesse.
Uno dei principali ostacoli è rappresentato dalla disponibilità di terreni idonei per la piantagione. In molte aree urbane e rurali, il suolo è già impegnato per altri scopi o è degradato a causa dell'urbanizzazione, dell'agricoltura intensiva o dell'industria. Trovare spazi adeguati e adatti per piantare alberi diventa quindi una sfida logistica e politica che richiede tempo, risorse e coordinamento tra diverse parti interessate.
Inoltre, anche quando si identificano aree idonee per la piantagione, sorgono ulteriori ostacoli legati alla mancanza di risorse finanziarie e umane. Piantare e mantenere alberi richiede investimenti significativi, che possono non essere disponibili o prioritari rispetto ad altre esigenze urgenti. Infine, la manodopera qualificata per gestire e curare gli alberi può essere limitata, specialmente nelle comunità più svantaggiate.
Un altro aspetto spesso trascurato è la necessità di una pianificazione a lungo termine e di un impegno continuo. Piantare alberi è solo l'inizio di un processo che richiede cure costanti nel corso degli anni. Senza un adeguato follow-up e una altrettanto adeguata cura, gli alberi possono morire prematuramente o non raggiungere il loro pieno potenziale nel contribuire agli obiettivi ambientali.
In ultimo, ma forse primo per importanza, c'è l'assoluta necessità di acqua per la cura degli alberi nei primi anni dopo la loro piantagione. Abbracciare questa soluzione come se l'acqua fosse un bene infinitamente disponibile può portare a dei fallimenti perché la realtà è ben diversa. Viviamo in un mondo dove l'acqua, risorsa vitale per ogni forma di vita, è sempre più scarsa e contesa. La crisi idrica è una realtà che non possiamo più ignorare. Anni sempre più siccitosi ci mettono di fronte a una sfida senza precedenti.
La redazione della rivista Sherwood ha sintetizzato in 10 punti le Linee Guida europee per la gestione forestale, dando recentemente vita a un “Manifesto per una selvicoltura più vicina alla Natura”, che è stato sottoscritto anche dall’Accademia dei Georgofili.
Chiediamo a Paolo Mori, direttore di Sherwood e accademico georgofilo: perché la necessità di questo manifesto?
Negli ultimi anni in Italia sono stati fatti molti passi in avanti nei campi della governance, della normativa, della raccolta dati, della comunicazione, dell’associazionismo e dello sviluppo di filiere nazionali del legno. Manca tuttavia un adeguamento dell’operatività quotidiana. Si percepisce una notevole distanza tra “selvicoltura predicata” nei documenti internazionali e nazionali, nei risultati delle attività di ricerca così come nelle pratiche innovative testate e proposte attraverso progetti europei e “selvicoltura praticata” nella gestione ordinaria del patrimonio forestale.
Non è una novità di questi anni il ritardo della selvicoltura praticata rispetto a quella predicata. È normale che tra la conoscenza più avanzata e quella che poi viene tradotta in azioni sul territorio ci sia una certa distanza. Il fatto che ci ha spinto a produrre il Manifesto è la diffusa mancanza di una cultura dell’aggiornamento costante degli attori della gestione forestale. Senza un sistema che promuova e si organizzi per un costante aggiornamento culturale, l’operatività non ha la capacità di recepire l’innovazione, trasformarla in possibilità di agire e quindi di adattarsi ai nuovi bisogni delle persone, delle associazioni, delle imprese e… ai nuovi scenari climatici e ambientali.
La selvicoltura che viene praticata nel patrimonio forestale italiano non dipende da una sola categoria di operatori, ma da un ampio insieme di soggetti che devono lavorare insieme; ognuno con il proprio ruolo e le proprie competenze. Si parte da chi forma tecnici e operatori per passare ai legislatori, ai tecnici pubblici, ai liberi professionisti, agli imprenditori, agli addetti al controllo fino a chi si occupa di monitoraggio, informazione e comunicazione. Tutti devono avere la cultura dell’aggiornamento e la capacità di tradurla in scelte coerenti e consapevoli, finalizzate a soddisfare, con il minor impatto possibile sull’ambiente, le esigenze di ogni categoria di persone. Se anche una sola categoria non si aggiorna culturalmente, tutte le altre ne subiranno le conseguenze e il sistema non sarà in grado di progredire.
Per realizzare un’agricoltura fortemente competitiva bisogna fare un uso intelligente e leale degli strumenti offerti da natura e scienza.
Negli ultimi decenni si sono verificati dei profondi mutamenti nella percezione del valore totale dell’ambiente e delle foreste. Oggi non si può prescindere dalla consapevolezza dell’impossibilità di trasformare un bosco, cioè un sistema biologico complesso, in un semplice insieme di alberi organizzato in modo da assolvere alle sole esigenze produttive. La Foresta di Vallombrosa può essere considerata un caso esemplare di questa svolta.
Il frumento, la coltura principale nel mondo per superficie e seconda per produzione, ha una storia millenaria nel commercio internazionale. Considerando il suo ruolo fondamentale nella sicurezza alimentare globale, non può non essere oggetto di attenzione il fatto che, a partire dal 2000, il mercato mondiale ha visto cambiare in modo consistente i suoi assetti. Gli Stati Uniti, un tempo il principale paese esportatore, hanno ceduto la posizione di leadership nelle esportazioni alla Russia e dell’Ucraina. Il conflitto tra questi due paesi ha fatto emergere chiaramente la necessità di ripensare le politiche di questo delicato settore anche in una chiave geopolitica.
L’Europa, all’inizio del secondo dopoguerra importatore netto, è oggi uno dei grandi attori del mercato globale, in quanto è uno dei principali esportatori mondiali. Al tempo stesso, per la segmentazione dei mercati e la diversa specializzazione dei suoi membri all’interno della catena del valore, l’Europa è anche un grande importatore. Tra i paesi europei l’Italia, ad esempio, pur essendo un importatore netto, ha un ruolo significativo nell'export di prodotti trasformati.
Nello spiegare i cambiamenti nel mercato globale del grano, è importante considerare che la mutata sensibilità dei consumatori ha sollecitato un passaggio da modelli di mercato basati sulla quantità a modelli basati sulla qualità, all’interno del quale si inserisce anche una crescente determinazione da parte dei policymaker occidentali a limitare gli incentivi alla produzione e incoraggiare pratiche più sostenibili. In questo passaggio i modelli di business tradizionali, basati sulla cerealicoltura specializzata con tecniche convenzionali sono da tempo caduti in una crisi di prospettive, vedendo la loro quota di valore progressivamente erosa a vantaggio degli operatori a valle e risultando esposti alla variabilità dei prezzi degli input produttivi, strettamente correlati con i prezzi dell'energia. Le proteste degli agricoltori degli ultimi mesi, per le quali e il taglio dei sussidi della PAC ha rappresentato un fattore scatenante, sono in buona parte legate a questa tendenza di fondo.
Ascoltare in un parco di Vienna musiche viennesi eseguite da un’orchestrina mentre si gusta una fetta di torta Sacher è una doppia Street Art, musicale e gastronomica? Allo stesso modo può essere Street Art a Napoli mangiare un verace piatto partenopeo, da una pasta a una pizza, mentre un piccolo complesso suona con un interprete di canzoni napoletane?
Il concetto di biofilia, coniato da Edward O. Wilson nel 1984, ha rappresentato un importante punto di svolta nella nostra comprensione della relazione tra l'uomo e l'ambiente naturale. Esso enfatizza la profonda connessione emotiva ed evolutiva che l'essere umano ha con la natura, suggerendo che la separazione da essa possa avere ripercussioni negative sul benessere individuale e collettivo.
L'approccio biofilico alla pianificazione del verde non riguarda solo la contemplazione estetica della natura, ma implica un riconoscimento profondo della sua importanza per la nostra salute fisica, mentale e spirituale.
Le preoccupanti condizioni delle attività agricole in conseguenza dei cambiamenti climatici e la conseguente scarsa disponibilità di alimenti proteici stanno spingendo i ricercatori a cercare nuove fonti, soprattutto a partire dai sottoprodotti e dagli scarti alimentari.
I gusci delle mandorle, oltre ad essere comunemente usati come combustibile al posto dei pellet, possono essere un ottimo materiale di partenza. È questo l’argomento di un recente lavoro dal titolo “Production of high protein yeast using enzymatically liquefied almond hulls”, (Sitepu et al., PLoS One, 2023, 18(11): e0293085).
I ricercatori dell’Università di Davis (California) sono partiti dal fatto che in California la produzione delle mandorle genera circa tre tonnellate di biomassa all’anno, di cui il 50% sotto forma di gusci. Ed hanno proposto per i gusci di mandorle una possibile utilizzazione come sottoprodotto di scarto, potenziale fonte di proteine alimentari.
Siamo tutti d’accordo che, con il riscaldamento globale che incombe e con la necessità di fornire soprattutto proteine alimentari alla popolazione mondiale che cresce esponenzialmente, ben vengano iniziative come quella dei ricercatori dell’università di Davis che propongono una forma sostenibile di produzione proteica, compatibile con l’agricoltura circolare, da usare in alimentazione animale. L’impiego di sottoprodotti e prodotti di scarto alimentari, non solo contribuisce a ridurre l’impiego di terreno coltivabile e la necessità di bruciare i residui, con produzione di gas serra, ma può portare benefici alla nutrizione proteica degli animali da reddito.
I gusci delle mandorle vengono fermentati con lieviti che consumano una larga porzione dei saccaridi contenuti nei gusci come fonte energetica per produrre grandi quantità di aminoacidi essenziali, importanti per l’alimentazione animale. L’analisi della composizione dei gusci di mandorla ha dimostrato che questo materiale è ricco di pectine e saccarosio. Pertanto, il processo inizia con la fermentazione indotta da enzimi pectinolitici che liquefano il prodotto e rilasciano zuccheri solubili e proteine prodotte dai lieviti usati come fonti enzimatiche per le fermentazioni.
Gli stessi ricercatori della UC Davis stanno lavorando anche su un altro prodotto agricolo di scarto, il pastazzo d’uva. Usandolo come substrato fermentativo con gli stessi lieviti impiegati sui gusci di mandorle, se ne ricava un olio che solidifica a temperatura ambiente che può egregiamente sostituire i grassi animali e, in particolare, il famigerato olio di palma, come componente energetico nelle diete per animali.
Lo scorso 21 febbraio su Georgofili.info è uscito un interessante commento, a cura della Professoressa Nicoletta Ferrucci (v. https://www.georgofili.info/contenuti/risultato/29693), sulla questione che tanto ha scaldato gli animi nelle ultime settimane: la deroga alla necessità di autorizzazione paesaggistica per le aree forestali sottoposte a “doppio vincolo” rispetto al Codice dei beni culturali e del paesaggio. In seguito alla decisione del Governo, nella valanga di commenti entusiasti da un lato e di indignazione condita da fake news dall’altro, abbiamo trovato finalmente, in questo articolo, una critica pacata, seria e costruttiva sui cui a nostro avviso vale la pensa soffermarsi.
Ci occupiamo di questo tema dal punto di vista giornalistico da ormai diversi anni, a partire dal “caso” che ha portato la questione all’ordine del giorno, ovvero la vicenda mediatico-giudiziaria legata alla ceduazione di alcune leccete nel complesso del Marganai, in Sardegna. Da osservatori dell’intera vicenda sentiamo quindi la necessità di rispondere all’articolo della Professoressa Ferrucci con ulteriori considerazioni, allo scopo di far proseguire il positivo dibattito da lei innescato.
Nicoletta Ferrucci è Ordinaria di Diritto agrario presso l’Università di Firenze e il suo punto di vista sulla questione è chiaro fin dal titolo del commento: “Gutta cavat lapidem, ovvero questa autorizzazione paesaggistica non s'ha da fare”. La goccia (l’istanza di superare la necessità di autorizzazione paesaggistica per le aree a “doppio vincolo”) ha infine scavato la roccia (le amministrazioni e la politica) andando oltre la necessità, imprescindibile secondo il parere di Ferrucci, di un regime autorizzatorio differenziato “nell’ottica di una corretta presa d’atto di quel quid pluris che in termini di valori culturali i boschi vincolati ex art. 132 del Codice dei beni culturali e del paesaggio possiedono rispetto agli altri boschi”. Ferrucci si chiede come mai, con così tanta tenacia, è stata scelta una strada diversa da quella prevista dal TUFF - Testo Unico in materia di Foreste e Filiere Forestali, che prevedeva la formulazione di linee guida specifiche per la gestione di quelle peculiari tipologie di bosco.
In parte la risposta è contenuta nello stesso commento della Professoressa: “La reiterata assenza delle Linee guida ha creato una pesante situazione di impasse”. Utilizzando la stessa metafora, si può dire che la “goccia” non è stata raccolta in un contenitore dentro cui sarebbe stato possibile analizzarla, elaborarla, comprenderla e infine indirizzarla verso la direzione di una soluzione da tutti accettabile.
Le elezioni del Parlamento Europeo (PE) sono alle porte, tre mesi ci separano dal giorno in cui i cittadini dell’Unione europea (Ue) voteranno per eleggere i loro rappresentanti. Il sistema delle Istituzioni europee è piuttosto complesso e, forse, anche per questo motivo si creano incomprensioni e diffidenze nell’opinione pubblica. Il caso del PE è esemplare. Creato per dare un fondamento democratico alle Comunità europee all’inizio era in realtà una “assemblea parlamentare” formata da membri designati dai singoli parlamenti nazionali. I suoi poteri si limitavano al voto sul bilancio comune ed allo scioglimento della Commissione europea, il vero motore del processo di unione. Forse per questo motivo, forse per essere nominato da organi eletti per governare i singoli paesi otteneva una scarsa attenzione popolare. Perciò nel 1979 la sua nomina venne affidata a elezioni dirette ed i suoi poteri ampliati in particolare per quanto riguarda quello legislativo, esercitato congiuntamente con la Commissione e il Consiglio dei Ministri. Anche così il seguito era modesto e l’elezione diretta in genere ha avuto un basso tasso di partecipazione, attorno al 50% degli elettori, con un minimo del 42% nel 2014 e un recupero al 50% nel 2019. Le previsioni per il 2024 sono attorno allo stesso gradimento.
Pur accresciuta, l’importanza del voto è poco compresa e viene utilizzata in genere nei diversi Paesi come una sorta di macro-sondaggio sulla situazione politica interna di ognuno. Confuso nel calderone incluso nella generica definizione di “Bruxelles” con cui ci si riferisce a tutto ciò che viene deciso nella Ue. Da ciò nasce probabilmente il distacco dell’opinione pubblica e l’atteggiamento che conduce alla lamentela molto diffusa in Italia del tipo “Bruxelles ci perseguita” “L’Europa ha deciso” e via discorrendo. La stessa elezione dei deputati europei viene considerata di minore importanza dai candidati rispetto a quella nei Parlamenti nazionali. I partiti nazionali nel PE sono uniti in gruppi (partiti europei) secondo la maggiore prossimità ideologica. Gli eletti hanno dunque una doppia appartenenza: al Paese ed al partito d’origine ed al PE in quello europeo in cui si collocano. Filoitaliana quando parlano in Italia e filoeuropea quando lo fanno a Bruxelles o a Strasburgo (il PE ha due sedi).
Le recentissime vicende della crisi agricola e del malessere dalle manifestazioni “dei trattori” sono un esempio del modo di intendere la missione e le modalità d’azione degli Organismi europei e di come potrebbero migliorare il rapporto fra i cittadini, nel caso gli agricoltori, e l’Ue.
Gli agricoltori chiedono che venga condiviso con loro un percorso verso la sostenibilità economica ed ambientale. Se le aziende non guadagnano chiudono, e se chiudono il cibo per gli europei verrà prodotto in Paesi terzi. Non si fraintenda: non vi è volontà di demonizzare il lavoro degli agricoltori extra-UE, sia ben chiaro; ma sia chiaro anche che il cibo importato è prodotto secondo regole sulle quali il controllo dei requisiti ambientali e sanitari è debole, e che aumentare le importazioni verso l’UE aumenta come conseguenza – è dimostrato da diversi studi – la deforestazione e quindi l’impatto ambientale nei Paesi da cui importiamo.
Pagliai – Il suolo è uno degli ecosistemi più complessi in natura e uno degli habitat più variegati sulla terra: esso contiene una miriade di organismi diversi, i quali favoriscono e partecipano ai cicli globali che rendono possibile la vita. Sebbene il suolo ospiti il maggior numero di comunità di organismi sulla Terra, tale biodiversità rimane per la maggior parte ignota all’uomo poiché si trova sotto la superficie del suolo, cioè sotto i piedi. Non c’è dubbio che l’avvento delle tecniche molecolari hanno consentito un autentico salto di qualità nelle conoscenze della quantità, qualità e funzionalità delle comunità di microrganismi del suolo.
Mocali - Hai perfettamente ragione. Per lungo tempo non è stato possibile comprendere a fondo le caratteristiche biologiche del suolo per la mancanza di adeguati strumenti. È relativamente semplice, ad esempio, caratterizzare piante ed animali in base alle loro caratteristiche fenotipiche. Sfortunatamente la maggior parte degli organismi del suolo non è visibile ad occhio nudo, sia perché questi vivono nel terreno, sia per le loro dimensioni spesso microscopiche. Essi rappresentano un mondo “invisibile” difficile da decifrare per lungo tempo, praticamente fino all’avvento delle tecniche molecolari, sviluppatesi enormemente negli ultimi vent’anni, e basate principalmente sullo studio del DNA estratto dal suolo. Attraverso di esso, infatti, è possibile ottenere preziosissime informazioni sugli organismi presenti nel suolo e, in una certa misura, capirne anche il potenziale funzionale. In pratica si tratta della più grande rivoluzione scientifica per lo studio della biodiversità del suolo.
La dinamica relazione tra natura e città ha da sempre suscitato interesse e indagini, spingendo studiosi e urbanisti ad approfondire le intricate connessioni che plasmano gli ambienti urbani. Dalle strade affollate delle metropoli agli angoli tranquilli dei parchi urbani, la presenza della natura si manifesta in modi sfaccettati, influenzando non solo il paesaggio fisico ma anche il tessuto sociale delle città di tutto il mondo. Ed è così importante approfondire il profondo intreccio tra natura e spazi urbani, esplorandone le implicazioni per la nostra comprensione delle città e della loro natura in evoluzione.
Si è svolto lo scorso 20 febbraio a Roma il convegno “Le Foreste Modello in Italia”, organizzato presso il Masaf in collaborazione con la Direzione generale delle foreste, per ufficializzare l’ingresso all’interno della Rete Internazionale e, in particolare, Mediterranea della seconda Foresta Modello italiana, quella della Valle dell’Aterno, e discutere sul ruolo delle foreste e della loro gestione nel contesto della crisi climatica e della rigenerazione delle aree interne.
Ne abbiamo parlato con Alessandra Stefani, accademica dei Georgofili, della Direzione generale economia montana e foreste del Masaf, che ha partecipato all’incontro.
Dottoressa Stefani che cosa sono le foreste modello e quante sono nel mondo e in Italia?
Le foreste modello costituiscono una delle risposte che, a livello mondiale, si sono concretizzate per rispondere alle sfide globali identificate compiutamente durante la Conferenza delle Nazioni Unite di Rio de Janeiro su ambiente e sviluppo del 1992. Si tratta di modelli di comunità forestali che si fondano su un partenariato più ampio possibile per diffondere la gestione forestale sostenibile e la cura dei paesaggi forestali. L’adesione alle foreste modello è del tutto volontaria, aperta a singoli, associazioni ed enti, e si prefigge di risolvere tutti i possibili conflitti tra i diversi interessi legati alle foreste attraverso discussioni paritarie e processi trasparenti, con scelte condivise e rappresentative di tutti gli interessi in gioco, per un territorio forestale definito.
Avviata dal Governo canadese, questa Rete Internazionale vede in questo momento 60 Foreste Modello costituite in 30 Paesi di tutto il mondo. L’Italia, in particolare, grazie alla Regione Toscana che si è candidata a mantenere la gestione del Segretariato Mediterraneo anche per i prossimi cinque anni, ha dato ulteriore impulso per lo sviluppo delle Foreste Modello nella regione raggiungendo il risultato di 13 in 10 Paesi e proprio da oggi, con la neoriconosciuta Valle dell’Aterno, ottenendo la seconda Foresta Modello italiana dopo quella delle Montagne Fiorentine.
Ciò che ha maggiormente destato impressione della recente “protesta dei trattori”, che ha attraversato e interessa ancora diversi angoli d’Europa, è la sua connotazione spontanea: un fiume che è straripato da argini che apparivano stretti e non più adeguati a regimentare umori, speranze e progetti delle donne e degli uomini che vivono nelle campagne. Se da un lato tale impulsività incontrollabile ha inevitabilmente portato con sé improvvisazione, assenza di organizzazione e una comunicazione non chiara e spesso contraddittoria, e pertanto facilmente strumentalizzabile da chi vorrebbe ricacciare il fiume nel suo letto, dall’altro ha rivelato la frustrazione di un mondo che da tempo chiede solo di essere capito. Troppi soggetti, oggi, si occupano di agricoltura e ne decretano le sorti, spesso senza avere contezza del reale stato della vita rurale. Si parla di tecnici, di pseudo-rappresentanti, di burocrati che ogni giorno dispongono, interpretano e sanciscono norme, piattaforme e protocolli. Tutti parliamo in nome e per conto degli agricoltori e degli allevatori, ma non li ascoltiamo più con l’attenzione necessaria per aver coscienza delle loro quotidianità, presi come siamo dalle nostre narrazioni. E allora, scendiamo dalla cattedra, dal pulpito, dallo scranno, e ascoltiamoli. La lezione oggi proviene da Agnese Cabigliera, allevatrice sarda che ho l’orgoglio di aver conosciuto nelle aule del mio Ateneo a Sassari e che oggi conduce una brillante attività d’impresa, in cui la redditività si coniuga con la sostenibilità, la passione con la competenza, il coraggio con la prudenza. Ecco il suo pensiero, ecco la voce delle campagne.
***
Esistono delle considerazioni che vengono fatte da chi non vive nelle campagne, quando si rivolge a noi pastori, e riguardano i pagamenti degli aiuti comunitari. Almeno una volta nella vita, un pastore, si è sentito mortificato da un ignorante che afferma che lavorare in campagna sia semplice, perché il nostro è un settore continuamente foraggiato da Stato e Unione Europea e, in aggiunta, lavorare all'aria aperta non è un lavoro. Gestire e lavorare in un'azienda agricola, oggi, non è semplice e, la confusione che passa dai canali di informazione non aiuta. Si mischia la farina di grillo, con il ritardo nell'erogazione dei pagamenti comunitari, e la "carne sintetica" con il Green Deal.
Un profluvio di commenti entusiastici in chiave liberatoria ha accolto l’equiparazione, sancita dal legislatore, dei boschi che oltre alla valenza paesaggistica presentano cospicui caratteri di bellezza naturale, memoria storica, valenza culturale, protetti da vincolo paesaggistico provvedimentale, ai boschi che sono privi di tali connotati, i quali sono automaticamente assoggettati a vincolo paesaggistico per legge esclusivamente in virtù della relativa essenza morfologica.
Fa piacere quando accade che una pubblicazione di informazioni e novità in campo zootecnico, diffusa a livello internazionale, quale è All about Feed, segnali un lavoro prodotto da nostri colleghi italiani. È successo numero del 5 febbraio con “Preserving global land and water resources through the replacement of livestock feed crops with agricultural by-products”, (Nature Food, 2023, 4: 1047-1057).
Gli alimenti di origine animale rappresentano un’importante fonte di proteine nobili nella nostra dieta, ma le attività zootecniche sono messe in discussione perché accusate di inquinare, di usare ampie frazioni di terreno agricolo e grandi risorse di acqua.
Lo studio dimostra come la sostituzione con sottoprodotti agricoli dell’11-16% delle colture intensive, come quelle dei cereali attualmente usate per produrre alimenti per gli animali, può portare a far risparmiare fino a 27.8 Mha di terreno e fino a 19.6 km3 di acqua delle falde (blue water) e 137.8 km3 di acqua piovana utilizzata dalle piante (green water). Secondo i citati ricercatori milanesi, il risparmio di risorse naturali, come l’acqua ed il suolo, è una strategia appropriata per la loro sostenibilità. Ciò comporta che le produzioni animali possano competere, in quanto a sostenibilità, con quelle vegetali.
I sottoprodotti agricoli presi in considerazione nello studio hanno riguardato le crusche di cereali, la polpa di barbabietola, le melasse, i distillers e il pastazzo di agrumi.
La prima osservazione ha riguardato la disponibilità alimentare per l’uomo, che migliorerebbe in molti paesi dove l’impiego dei sottoprodotti agricoli porterebbe ad una più larga scelta di alimenti, insieme al maggior apporto di calorie, con diete più ricche, più sane e sostenibili. Anche per quanto riguarda l’alimentazione animale, l’uso di ingredienti alternativi a quelli classici porterebbe al miglioramento della sostenibilità con la riduzione dell’impatto ambientale, non solo a livello locale.
La seconda osservazione è stata quella che, limitando la necessità di importare mangimi e materie prime dall’estero, si ottiene la positiva conseguenza di benefici economici e sociali: la produzione di certi alimenti per gli animali comporta il colpevole ricorso alla deforestazione selvaggia e l’utilizzo di grandi volumi di acqua, con il conseguente effetto sulla concentrazione dei gas serra e sulla biodiversità.
Le proteste organizzate dagli agricoltori in tutta Europa, e spesso condivise da una buona parte della opinione pubblica, chiamano in causa anche i ricercatori, in particolare quelli che si occupano di discipline agrarie. I temi in causa sono infatti rilevanti per le politiche europee e l’economia agraria, l’agronomia e le scienze del suolo, la difesa fitosanitaria e le scienze ambientali. L’accademia può contribuire a fare chiarezza sulle criticità e indicare alcune possibili strade da percorrere.
Certamente la protesta degli agricoltori evidenzia un collasso dei redditi provenienti dalle attività produttive soprattutto dei piccoli imprenditori e più in generale lamenta poco interesse per la vita reale degli operatori agricoli da parte dei decisori politici ed economici europei e nazionali.
Una prima criticità che viene evidenziata da più parti è la mancanza di regole e certezze nella catena alimentare, dove i più forti hanno buon gioco per la scarsa capacità e possibilità di trattativa da parte dei produttori agricoli. Questa criticità fa sì che la grande distribuzione organizzata e i grandi gruppi delle industrie alimentari possano stabilire pressoché unilateralmente i prezzi di acquisto delle derrate alimentari prodotte dagli agricoltori, decidendo sostanzialmente della vita e della morte delle imprese agricole.
Sono poi messe sul banco degli imputati le politiche europee. Viene anzitutto denunciata la mancanza di reciprocità dei requisiti per le produzioni realizzate nei paesi extraeuropei. Non è possibile per i produttori comunitari sostenere la concorrenza di alimenti importati da paesi dove non valgono le norme europee in tema di uso di presidi chimici, OGM, sfruttamento del suolo e della mano d'opera. Il solo import dal Brasile di soia, per lo più OGM, proviene da un areale di produzione estenso quanto il Belgio, per lo più ricavato dal disboscamento della foresta amazzonica. Dati prodotti da USDA-ERS indicano che l’export di cereali causa nei paesi d’origine, quali Stati Uniti, Brasile e Argentina, una diminuzione importante di sostanza organica e di fertilità dei suoli. La stessa Missione Suolo della Unione Europea ritiene insostenibile questo continuo aumento dell'esportazione della degradazione del suolo al di fuori dei confini europei. Però non vengono emanati regolamenti che limitino le importazioni da Paesi che non considerano gli standard europei. Non si tratta di porre nuovi dazi, ma di esigere che vengano rispettati non solo i livelli qualitativi merceologici, ma anche quelli ambientali.