Il settore agroalimentare presta sempre più attenzione ai criteri ESG (Environmental, Social and Governance), condivisi sia dai consumatori che dalle aziende produttrici, le quali devono adeguarsi a un quadro normativo sempre più stringente. La transizione verso pratiche più sostenibili richiede investimenti significativi e una riorganizzazione delle catene del valore. L’adozione dei criteri ESG implica anche un cambiamento culturale: è fondamentale comprendere il valore della sostenibilità e trasformarlo in azioni concrete e misurabili. Per questo, è necessario investire in formazione, aggiornamento continuo e strumenti adeguati per monitorare e rendicontare i progressi.
Frusciante: Nel dialogo precedente abbiamo discusso l’importanza storica del miglioramento genetico del grano duro in Italia, partendo dal lavoro pionieristico di Strampelli fino alle moderne tecnologie di evoluzione assistita (TEA). Spostando ora l’attenzione sul grano tenero, una coltura fondamentale per l’alimentazione umana, con oltre 760 milioni di tonnellate prodotte annualmente nel mondo, è interessante riflettere sui principali fattori che ne hanno determinato il successo.
Tuttavia, negli ultimi anni il tasso di crescita della produttività del grano tenero sta rallentando in molte regioni. Tale fenomeno è attribuibile all’esaurimento della diversità genetica disponibile e agli effetti del cambiamento climatico. Quali strategie possano essere adottate per affrontare queste sfide e garantire una maggiore resilienza e sostenibilità nella sua coltivazione?
De Vita: Il successo del grano tenero è il risultato di una combinazione di innovazioni genetiche e miglioramenti nelle pratiche agronomiche, che hanno consentito di soddisfare la crescente domanda alimentare a livello mondiale. Negli ultimi decenni, il miglioramento genetico ha portato a un guadagno annuale nelle rese di circa l’1% a livello globale, con tassi di incremento ancora maggiori in alcune aree. Anche in Italia, l’introduzione di varietà migliorate ha contribuito all’aumento delle rese e alla stabilità produttiva: in un secolo, la produzione di frumento è più che raddoppiata, mentre la superficie coltivata si è ridotta a meno della metà.
Tuttavia, mantenere questo ritmo di progresso genetico rappresenta una sfida, soprattutto in quelle aree dove le condizioni ambientali stanno diventando più estreme. Si stima che ogni aumento di 1°C della temperatura globale possa causare una perdita del 4-6% in resa. In questo contesto, emergono conflitti tra le priorità di resistenza agli stress ambientali e l’incremento del potenziale produttivo, i cosiddetti “trade-off”. Per superare questa impasse, è fondamentale approfondire la conoscenza dei meccanismi genetici che regolano i vincoli fisiologici delle colture.
La presenza della vite è diffusa su un ampio areale, che nell’emisfero nord va da 30° a 50° di latitudine. In molti di questi territori, la coltivazione avviene storicamente in vari ambienti considerati “difficili”, quali le zone ad elevata pendenza o montane.
Le problematiche di gestione dei vigneti in queste aree sono comuni a molti territori italiani, tanto che nel 2020, su sollecitazione del CERVIM (organismo internazionale creato nel 1987 sotto gli auspici dell’O.I.V.) è stato emanato un Decreto interministeriale che definisce questa tipologia di viticoltura, definendola “eroica”. Il D.M. 30.06.2020, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 27 settembre 2020 riporta all’art. 3 i requisiti per la definizione di viticoltura “eroica”, cioè:
- coltivazione su terrazzi e gradoni;
- altitudine superiore a 500 m (esclusi gli altipiani);
- pendenza superiore al 30%;
- vigneti nelle piccole isole;
Le caratteristiche che accomunano le zone sulle quali si fonda il riconoscimento delle "viticolture eroiche" sono di fatto le seguenti:
• condizioni orografiche che creano impedimenti alla meccanizzazione;
• vigneti dalle ridotte dimensioni, non sempre contigui e in molti casi con presenza di terrazzamenti o significativi dislivelli tra i filari;
• aziende agricole con superfici aziendali contenute e prevalenza di imprenditorialità non a titolo principale;
• condizioni climatiche talvolta limitanti;
• tipologie produttive spesso fuori dai modelli di riferimento (prodotti di nicchia);
• vigneti situati in aree geografiche ad alta valenza paesaggistica e turistica.
La questione dei dazi, opposta alle logiche di apertura agli scambi commerciali, costituisce molto di più di una semplice guerra commerciale e per questo va affrontata con maggior ponderazione di quanto stia avvenendo ma per questo occorrono la volontà e l’umiltà di porre mano al disordine del mondo ed alla costruzione di un nuovo ordine su basi multilaterali condivise, magari proprio ripartendo dall’agricoltura.
Qualsiasi prodotto che un consumatore mangia, beve o inala nel corso della sua vita può potenzialmente causare danni. Le leggi che regolano la sicurezza dei prodotti mirano a prevenire tali danni. Questo documento si rivolge ovviamente ai consumatori ma ed allo stesso tempo a tutti coloro che sono coinvolti nelle industrie alimentari e farmaceutiche.
In un periodo di crescente interesse per le piante, nonostante i noti e documentati problemi di “cecità vegetale” specialmente nelle aree urbanizzate, una delle principali sfide consiste nel comunicare in modo efficace l’essenza della Botanica: di cosa tratta questa disciplina? Chi sono i botanici? Come si differenziano i giardini botanici dagli altri tipi di giardini? Secondo il Cambridge Dictionary, la Botanica è definita come "lo studio scientifico delle piante", mentre il Dizionario Treccani la descrive come "la branca della Biologia che studia gli organismi vegetali". Tuttavia, poiché la ricerca contemporanea sulle piante presenta una grande varietà di specializzazioni, lo studio delle piante può manifestarsi in forme diverse, spesso coinvolgendo l’uso delle piante o dei loro estratti in studi che spaziano dalla ricerca di base alla ricerca applicata in ambito agronomico o medico, talvolta definita come “Botanica applicata”.
Questa complessità risale certamente all’origine della Botanica stessa come scienza separata dalla Medicina durante il Rinascimento, fino alle sue origini più remote nell’antica Grecia, quando la parola ‘botanica’ venne coniata da Omero nell’Iliade, nell’VIII secolo a.C. Il legame profondo con la coltivazione delle piante per scopi alimentari e estetici è ancor più antico, risalendo ad almeno 11.700 anni fa. Questa stessa complessità è riflessa anche nell’organizzazione accademica, in cui la Botanica pura viene insegnata sempre meno frequentemente. Infatti, la ricerca di base è sempre più rara a causa delle limitazioni di fondi, con la ricerca applicata che attrae finanziamenti enormemente maggiori. Tutti questi problemi hanno portato alcuni a dichiarare “la fine della Botanica” e altri a sottolineare come concetti di base e fondamentali, come la nomenclatura, vengano sempre più trascurati dalla comunità scientifica dei biologi vegetali. I termini “botanica” e “botanico” stanno diventando sempre più rari in ambito accademico, a favore dei più accattivanti “biologia vegetale” e “biologo vegetale”. Parallelamente, al di fuori dell’ambito accademico, questi termini sono ancora di largo uso, ma sempre più spesso vengono applicati a qualsiasi figura professionale o amatoriale che si occupi delle piante a qualsiasi livello e per qualsiasi motivo, comprese Agronomia (agronomi, arboricoltori, giardinieri, ecc.) e Medicina (erboristi, fitoterapisti, farmacologi vegetali, ecc.). Da queste premesse è scaturita la proposta che ho di recente pubblicato sulla rivista “Italian Botanist”.
L’ambizioso programma mirato al ripristino della natura forgiato dall’Unione Europea con il Regolamento (UE) 2024/1991 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 24 giugno 2024, ispirato all’obiettivo quasi utopistico di arginare la deriva, attestata da report dai toni sempre più drammatici della Commissione e della Corte dei Conti, della perdita e del declino della biodiversità, habitat e specie sul territorio europeo, non poteva escludere dal suo ampio raggio di azione il ripristino degli ecosistemi urbani. Sotto il profilo scientifico è infatti ormai da tempo consolidata la qualificazione del verde urbano, in tutte le sue componenti chiaramente enucleate dalle Linee guida per la gestione del verde urbano e prime indicazioni per una pianificazione sostenibile, redatte dal Comitato per lo sviluppo del verde pubblico, tra le Nature Based Solutions che concorrono a limitare le emergenze ambientali dalle quale le città europee (e non solo) sono indistintamente colpite: dall’inquinamento dell’aria, a quello acustico, ai fenomeni della c.d. isola di calore, tutti generati da uno scellerato esponenziale consumo di suolo, potenziati dagli effetti nefasti del climate change, in una sorta di perverso gioco di reciproche interconnessioni in cui l’uno è causa ed effetto dell’altro, fino ad incidere in maniera pesante sulla stessa salute dei cittadini. E tale ruolo del verde urbano è espressamente riconosciuto dalla lunga teoria di strumenti di Soft Law, comprese le diverse Strategie unionali, sia attuative del Green Deal che più risalenti, alle quali il Regolamento espressamente dichiara di dare attuazione. Nei suoi Considerando il Regolamento espressamente motiva il suo intervento in materia di ecosistemi urbani sulla base della considerazione che questi ultimi, che rappresentano circa il ventidue per cento della superficie terrestre dell'Unione ed ospitano al loro interno la maggioranza dei cittadini europei, costituiscono, come gli altri ecosistemi destinatari di misure di ripristino, habitat importanti per la biodiversità, in particolare per le piante, gli uccelli e gli insetti, compresi gli impollinatori, oltre a fornire molti altri servizi ecosistemici essenziali, tra cui la riduzione e il contenimento del rischio di catastrofi naturali, ad esempio per le inondazioni e gli effetti «da isole di calore urbano», il raffrescamento, le attività ricreative, la depurazione dell'acqua e dell'aria, nonché la mitigazione e l'adattamento ai cambiamenti climatici.
Nel terzo millennio il sistema agro-alimentare e il settore delle scienze e tecnologie alimentari si trovano ad affrontare sfide significative collegate alla crescita della popolazione mondiale, ai cambiamenti climatici, alle crisi e ai conflitti geopolitici, all’evoluzione delle esigenze dei consumatori anche in relazione al loro stato di salute.
Le azioni da mettere in campo per circoscrivere e tenere sotto controllo i rischi delle imprese agricole sono diventate una delle aree strategiche gestionali che maggiormente preoccupano gli imprenditori, per effetto della imprevedibilità e della variabilità dei fattori che incidono sui costi, sul rendimento produttivo e sui prezzi. Le avversità climatiche che aumentano in frequenza ed intensità, la diffusione di malattie delle piante e del bestiame difficili da prevenire ed arginare, la volatilità dei prezzi, i fenomeni geopolitici che provocano turbolenze nei mercati sono alcuni degli esempi che si possono menzionare per evidenziare l’importanza che ha assunto il sistema della gestione del rischio.
L’olivicoltura italiana, da sempre simbolo di eccellenza agroalimentare, è oggi chiamata a fronteggiare sfide complesse. Una progressiva perdita di competitività rispetto ai mercati internazionali, unita agli effetti dei cambiamenti climatici, alla diffusione di fitopatie come la Xylella fastidiosa e all’obsolescenza di buona parte del patrimonio produttivo, ha reso necessario un intervento organico per rilanciare il settore.
A ciò si aggiungono problematiche strutturali: frammentazione fondiaria, limitato ricambio generazionale e obsolescenza degli impianti, spesso non meccanizzabili e scarsamente produttivi, a cui fanno eco la concorrenza sempre più forte di Paesi come Spagna, Tunisia, Grecia e Marocco, capaci di innovare il proprio sistema olivicolo, con impianti intensivi e super-intensivi e tecnologie avanzate.
Un patrimonio olivicolo, quello italiano, assai composito, che comprende al suo interno numerose tipologie diverse di olivicoltura (al punto che si può ben parlare di “olivicolture”) per molti fattori, tra cui: pendenza del suolo, presenza di terrazzamenti, sesti d’impianto, età delle piante, impiego di varietà autoctone minori o altre di più larga diffusione, incluso alcune straniere, disponibilità di acqua di irrigazione, certificazione di origine, ecc.
L’Italia, tuttavia, vanta punti di forza ineguagliabili: un patrimonio genetico ricco di biodiversità, la capacità di produrre oli EVO di qualità eccellente e un legame profondo con il territorio, che conferisce unicità alle produzioni. È quindi essenziale un Piano Olivicolo Nazionale Pluriennale, per superare le criticità e trasformare il settore in un volàno di crescita economica, sostenibile e culturale. Con tale spirito, la Regione Toscana si è fatta promotrice di una forte sollecitazione, sia verso le altre regioni che il Ministero dell’Agricoltura, con una proposta che è stata largamente condivisa ed ha formato la proposta regionale del Piano.
Pagliai – Carmelo, tu nel 2010 in occasione della giornata mondiale del suolo organizzasti un workshop a Palermo su “La Percezione del Suolo in Italia”. Ricordo che scopo del workshop, come da te dichiarato, era quello di ascoltare da “non addetti ai lavori” come il suolo era da essi percepito in modo da ricavare utili indicazioni per stimolare la diffusione della cultura del suolo in Italia. Ascoltare il modo in cui viene percepito il suolo da studiosi di altre discipline poteva certamente servire a meglio comprendere le ragioni sottese alla difficoltà che gli scienziati del suolo hanno sempre sperimentato nella diffusione della cultura del suolo in Italia.
Si è riusciti nell’intento? È cambiato qualcosa da allora?
Dazzi – Marcello caro, la tua domanda mi porta indietro nel tempo di 15 anni, e anche di più. Ricordo che l’idea di organizzare un workshop nel quale a parlare di suolo erano chiamati esperti di discipline anche molto diverse dalla scienza del suolo, nacque dalla consapevolezza che tutti i convegni che, a partire dal 1952 (anno di fondazione della SISS - Società Italiana della Scienza del Suolo), sono stati organizzati fino ad oggi, hanno visto “scienziati del suolo” che parlavano di suolo ad altri “scienziati del suolo”. Così era accaduto anche nel convegno nazionale organizzato sempre a Palermo nel 1997, sul tema “Per una Cultura del Suolo in Italia”. E così, purtroppo continua ad accadere.
Noi sappiamo che il suolo è una risorsa fondamentale per la vita sulla terra, che svolge numerose funzioni e fornisce servizi essenziali per le attività umane e per la sopravvivenza degli ecosistemi. Siamo inoltre consapevoli che oggi il suolo è sottoposto a pressioni ambientali ed antropiche sempre più forti che danneggiano per sempre la capacità del suolo di fornire servizi ecosistemici. È quindi imperativo intervenire per proteggere il suolo al fine di garantire la sua funzionalità alle generazioni future. Il non perseguimento di questo obiettivo mina fortemente la sostenibilità ambientale ed economica della nostra società, ancor di più nel nostro fragile, complesso e tanto maltrattato paesaggio italiano. Nonostante l’importanza di queste tematiche e l’urgenza di una strategia di interventi (politici, economici, sociali) per la difesa del suolo, si registra una scarsa percezione da parte della società civile. È in un contesto così problematico che si è inserito il workshop cui tu facevi riferimento che, tramite un focus sulla percezione del suolo mira ad affrontare il nodo cruciale culturale della diffusione della Scienza del Suolo e della Pedologia in Italia. Ma la vera innovazione è stata quella di farlo a ruoli invertiti invitando economisti, bancari, architetti, dirigenti d’azienda, giornalisti, forze dell’ordine, insegnanti di scuola, colleghi di altri settori a parlarci della loro percezione sul suolo.
Occorre la forza di sottrarsi a mode ed ideologie effimere e vaghe, ma assai diffuse, e di agire con coraggio e determinazione seguendo le leggi fondamentali dell’economia. Non si può distribuire ricchezza se prima non la si produce e se non si stimola la produttività con l’immissione di innovazione frutto di ricerca, sviluppo scientifico e trasferimento di tecnologie ai settori produttivi.
Per fortuna, sembra che la antibiotico-resistenza possa attenuata o, addirittura, eliminata, facendo minor uso di antibiotici, in generale. Si hanno già dei segnali positivi in questo senso e tutto ciò sembra attribuibile al ridotto uso di antibiotici, specie se non necessario. È ovvio che, in certi casi, l’impiego di antibiotici è inevitabile: le patologie più gravi vanno combattute sia in medicina umana che veterinaria, anche per la sicurezza di tutti.
I sottoprodotti della gestione del bosco, come rametti, cortecce e parti di tronco, rappresentano risorse abbondanti, concentrate e assicurate da filiere consolidate. Per esempio, residui della lavorazione del castagno sono utilizzati da secoli per produrre estratti ad elevato contenuto di tannini, a loro volta impiegati soprattutto nella concia delle pelli e, più recentemente, come integranti dell’alimentazione animale e in agricoltura. Finora, cortecce e rametti di conifere sono rimasti pressoché inutilizzati in quanto nessuna tecnica di estrazione ne ha consentito un impiego conveniente, nonostante ne siano note da tempo le interessanti proprietà biologiche a favore della salute umana. Già i Vichinghi, ad esempio, utilizzavano parti di abete rosso, macerate in una bevanda alcolica simile alla birra, in funzione curativa e di prevenzione dello scorbuto durante le lunghe navigazioni. Oggi, la situazione è destinata a cambiare rapidamente.
Uno studio coordinato dall’Istituto per la BioEconomia del Cnr e dall’Istituto Luke di Helsinki, in Finlandia, cofinanziato per la parte italiana dai progetti ‘On Foods’ (NextGenerationEU) e ‘Nutrage’ (Cnr) e pubblicato sulla rivista Separation and Purification Technology, ha infatti confrontato la nuova tecnica di estrazione di cortecce di abete rosso mediante cavitazione idrodinamica con la più consolidata estrazione in acqua calda, trovando che la prima era sei volte più efficiente. La tecnica di cavitazione idrodinamica prevede la ricircolazione della miscela composta soltanto da acqua e dal sottoprodotto forestale, in un circuito idraulico chiuso costituito da una pompa centrifuga e un “reattore”, per esempio in forma di tubo Venturi, in cui, accelerando, l’acqua va in depressione e bolle a qualsiasi temperatura. Le bolle di cavitazione, trascinate dal flusso, in pochi millesimi di secondo implodono sotto l’azione della pressione esterna, generando microambienti dotati di altissime densità di energia, in grado di distruggere le membrane cellulari vegetali ed estrarre in acqua tutti i composti bioattivi. Gli estratti così ottenuti dalla corteccia di abete rosso, in forma di polvere secca, hanno rivelato elevati livelli di attività antiossidanti e antivirale rispetto a due diversi tipi di virus, nonchè una straordinaria attività antibatterica nei confronti di diversi ceppi resistenti agli antibiotici.
Toumeyella parvicornis (Cockerell), nota come Cocciniglia tartaruga del pino, è una grave minaccia per le pinete italiane, in particolare quelle di pino domestico. Originaria del Nord America è stata reperita per la prima volta in Italia in Campania nel 2014 e si è successivamente diffuso nel Lazio, Toscana, Puglia, Abruzzo e Marche.
Insieme al commercio di piante infestate e al trasporto di parti di piante infestate derivanti da potature o abbattimenti, la principale modalità di colonizzazione di nuove pinete è legata alla capacità delle neanidi neonate, mobili, di farsi trasportare per km dalle correnti d’aria. Occasionalmente anche altri animali, uccelli in particolare, possono diventare vettori della Cocciniglia.
In Italia, T. parvicornis completa 3-4 generazioni/ anno manifestando grandi potenzialità di moltiplicazione anche grazie alla elevata fecondità delle femmine che possono deporre fino a 500 uova. L’Insetto causa danni diretti alimentandosi a spese della linfa delle piante colpite e danni indiretti a causa dello sviluppo di abbondanti fumaggini che finiscono per ricoprire con una colorazione nerastra l’intera chioma. Il forte indebolimento delle piante attaccate può concludersi con un rapido disseccamento o con l’attacco di insetti xilofagi di debolezza. Le piante di maggiori dimensioni possono resistere anni alle ripetute infestazioni, mentre le piante giovani e i semenzali non di rado collassano rapidamente. Nei casi di infestazioni gravi, interi soprassuoli a pino possono essere devastati, come rilevato per pinete costiere di Pino domestico Campane e Laziali tra il 2016 e il 2024.
Fra i commenti di fine 2024/inizio 2025 leggo: “la nuova priorità non è vendere ma difendere le produzioni”. Rettificherei: la priorità è vendere (essendo competitivi) e insieme difendere le produzioni. Perché ovvio: se non c’è prodotto, non c’è mercato. O meglio: c’è il prodotto estero. A più basso prezzo e meno controllato. Che magari finisce nei discount, gli unici a registrare un considerevole aumento dei consumi. Il perché è evidente…
Qualsiasi prodotto che un consumatore mangia, beve o inala nel corso della sua vita può potenzialmente causare danni. Le leggi che regolano la sicurezza dei prodotti mirano a prevenire tali danni. Questo documento si rivolge ovviamente ai consumatori ma e allo stesso tempo a tutti coloro che sono coinvolti nelle industrie alimentari e farmaceutiche.
Non sono in grado di dire se vi sia una qualche relazione fra “Food for profit” (film di Giulia Innocenzi) e il documento WWF: “Al via la meat free week promossa dal WWF”, apparso il 26-02-24. Certamente è analoga l’ispirazione animalista e, soprattutto, l’attitudine a mescolare verità (poche) e fake (molte); in entrambi, ne risulta la diffusione di informazioni che sono fonte di confusione per i consumatori con minori competenze specifiche. Di qui il mio tentativo di evidenziare le principali “fake” veicolate dal documento WWF e così chiarire anche quelle riportate nel già menzionato film “Meat for profit”.
Per facilitare la lettura, il testo contiene (numerate) le frasi tratte dall’originale WWF (in corsivo e grassetto) che sono sembrate degne di essere confutate; ad esse fanno seguito le motivazioni critiche e, per accrescerne l’autorevolezza, ho citato alcuni documenti ufficiali della FAO.
1) Gli allevamenti intensivi sono una delle principali cause del cambiamento climatico, responsabili del 16,5% delle emissioni globali di gas serra (cifra paragonabile agli effetti dell’intero settore dei trasporti, considerando treni, macchine, aerei e camion) e del 60% delle emissioni dell’intero settore agroalimentare.
I dati numerici non sono lontani dalla realtà, ma non vi è alcuna relazione con gli allevamenti intensivi; infatti, i dati sulle emissioni corrispondono a quelli di tutti gli animali allevati sul pianeta, come emerge dal documento FAO (2023) che afferma: “A livello globale, la produzione di proteine animali, come presentato nella sottosezione precedente (Produzione globale di proteine animali), è associata a un totale di 6,2 Gt CO2eq di emissioni, che costituiscono circa il 12% delle emissioni antropogeniche totali stimate tra 50 e 52 Gt CO2eq nel 2015.” Ammettiamo pure che la FAO abbia sbagliato per difetto, ma è ovvio che il 16,5% del WWF non sia così lontano. Se a questo punto si considera che nei Paesi meno sviluppati è allocato un numero di bovini e ovicaprini che è da 6 a 9 volte superiore a quello dei Paesi sviluppati (FAOSTAT, 2018), risultano confermati i dati FAOSTAT (2020), che cioè la quota delle emissioni di CH4 enterico da parte dei ruminanti è più elevata in Asia (37%), sud America (23%) ed Africa (17%), rispetto ad Europa (10%), nord America (9%) e Oceania (3%). A questo punto, si potrebbe chiedere al WWF come sia possibile che gli allevamenti intensivi - una esigua minoranza nei 3 continenti Asia, Africa e America Latina – possano essere responsabili di gran parte dei GHG mondiali. D’altra parte, è esattamente quanto la FAO (2023) afferma nel medesimo documento: “La riduzione più significativa delle emissioni, sia assolute che relative, può essere ottenuta dando priorità ai miglioramenti della produttività, non solo per quella animale ma anche ottimizzando l’efficienza in ogni fase della catena di produzione... Questo documento stima che, se implementati collettivamente, questi miglioramenti (di produttività) potrebbero ridurre significativamente le emissioni del settore zootecnico, pur rispettando l'aspettativa di un ulteriore 20% di aumento del fabbisogno di proteine animali prevista entro il 2050.” L’aumento della produttività è, in primo luogo, quanto consentono gli allevamenti intensivi.
Frusciante: Il miglioramento genetico del grano in Italia nasce dal lavoro visionario di Nazzareno Strampelli, pioniere della genetica agraria, che introdusse l'incrocio artificiale tra genotipi per combinare i migliori caratteri di ciascuno, senza conoscere le leggi di Mendel. Questo approccio portò allo sviluppo di numerose varietà di grano tenero a partire dal Rieti, una varietà apprezzata per l’ottima resistenza alla ruggine. Tuttavia, Strampelli è noto soprattutto per la varietà Cappelli, ottenuta nel 1915 tramite selezione entro una popolazione nordafricana. In che modo il lavoro di Strampelli e la varietà Cappelli hanno influenzato le moderne strategie di miglioramento genetico di questa coltura?
Lo scorso 4 dicembre è stato pubblicato da ISPRA il report annuale su “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici”. Purtroppo, anche questo report conferma che il consumo di suolo continua a trasformare il nostro Paese con velocità elevate. Nell’ultimo anno di rilevamento, il 2023, le nuove coperture artificiali hanno riguardato altri 72,5 km2, ovvero, in media, circa 20 ettari al giorno, o 2,3 metri quadrati ogni secondo.
I cambiamenti climatici stanno trasformando profondamente gli ecosistemi naturali e urbani, ponendo nuove sfide per la gestione del verde e la resilienza delle città. Ondate di calore, periodi di siccità prolungata, eventi meteorologici estremi e l’emergere di nuovi parassiti stanno mettendo a rischio le foreste urbane e gli spazi verdi. In questo contesto, i vivai assumono un ruolo centrale nella transizione ecologica, rappresentando il punto di partenza per garantire la qualità, la diversità e la sostenibilità degli alberi piantati oggi per il futuro.
Il Bostrico tipografo dell’Abete rosso, Ips typographus L. Coleottero Scolitide, è considerato uno degli insetti di interesse forestale più importanti in Europa per il suo ruolo nella dinamica degli ecosistemi forestali e la capacità di causare estese infestazioni con disseccamento di interi boschi di Picea abies Karst.
Le formazioni forestali e le particelle sperimentali di Abete rosso realizzate negli anni passati sull’Appennino con semi raccolti sulle Alpi o in Peccete del Centro Europa, come i Boschi dell’Abetone nell’Appennino settentrionale e gli impianti dislocati nella dorsale Appenninica centro-meridionale, stanno subendo l’azione di vari fattori avversi, legati in particolare ai cambiamenti climatici in atto e ad eventi meteorici estremi, che hanno determinato stress idrici e, a seguito di fenomeni di particolare intensità, determinato stroncature di cime e schianti di molte piante.
La grande quantità di piante atterrate o stroncate e le situazioni di generale indebolimento dei soprassuoli hanno favorito anche in queste aree lo sviluppo di attacchi di Insetti che si sviluppano scavando gallerie sotto le cortecce provocando repentini disseccamenti delle piante colonizzate e diffusione a macchia d’olio di estese morie, come il Bostrico tipografo.
Esempi chiarificatori di quanto anche le formazioni forestali appenniniche stiano subendo la pressione crescente di tali fattori biotici di aggressione sono rappresentati dai vasti fenomeni di disseccamento che stanno colpendo i Boschi di Abete rosso del Complesso Forestale della “Riserva Naturale Biogenetica Abetone” gestita dal Raggruppamento Carabinieri Biodiversità Pistoia e del Patrimonio Forestale Regionale dell’Appennino Pistoiese gestito dall’Unione dei Comuni Montani, dove da alcuni anni sono in atto programmi di intervento con mezzi biotecnici a basso impatto ambientale finalizzati in particolare a salvaguardare la Riserva Naturale Orientata e Biogenetica di Campolino dove vegeta il nucleo naturale più meridionale di Abete rosso, relitto glaciale di grande interesse genetico e naturalistico.
Premessa di Massimo Vincenzini, Presidente Accademia dei Georgofili
Subito dopo avere letto sul n. 1-2025 dell’”Italian Journal of Food Science", rivista ufficiale della SISTAl Società Italiana di Scienze e Tecnologie Alimentari, l’Opinion Paper dei proff. Fantozzi e Garattini sulle etichettature dei prodotti alimentari, ho suggerito loro di ampliarne la diffusione anche in italiano al vasto pubblico dei Georgofili che sempre consulta e legge con attenzione i nostri notiziari, commentandoli e discutendoli.
Sono certo che la molteplicità delle tematiche trattate, che verranno ripartite, a partire da oggi, in più uscite nel nostro notiziario settimanale “Georgofili INFO”, susciterà interesse.
Pertanto auguro a tutti buona e proficua lettura.
INDICE DELLA SERIE
1. Avvertenze degli Autori ed introduzione
2. Additivi alimentari
3. Bevande
4. Integratori alimentari
5. Prodotti dietetici
6. Sostanze cancerogene (IPA, fumo, acrilammide, micotossine)
7. Alimenti trasformati e ultra-lavorati (UPF)
8. Diete e Nuovi Alimenti (carni coltivate ed insetti)
9. Proposte, raccomandazioni e conclusioni
[estratto da: Ital. J. Food Science. Vol. 37 (1) 1:15, 2025 (View of Product labels and advertising)]
L’uomo è ciò che mangia è forse il più citato aforisma sul cibo e compare per la prima volta in una recensione che il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach (1804 – 1872) dedica al Trattato dell’Alimentazione per il Popolo che il medico e fisiologo olandese Jakob Moleschott (1822 – 1893) pubblica nel 1850, un’opera rivoluzionaria che fa della nutrizione il principio motore della storia umana, ponendo il cibo all’origine della società, del pensiero, della religione e persino delle differenze culturali e di classe. Questo trattato inizia constatando che se il nutrimento ha trasformato il gatto selvaggio in gatto domestico, da carnivoro a onnivoro, perché dovremmo stupirci se l’alimentazione influenza la natura dell’uomo e delle sue istituzioni? Una idea quella di Moleschott e di Feuerbach che sta trovando conferme in molte ricerche e pubblicazioni sulla nostra variabilità genetica, non ultima quella di Marta Palma-Morales e collaboratori intitolata Il Cibo ci ha resi umani.
Assai accidentato, irto di ostacoli di stampo politico e culturale, l’iter che ha accompagnato in un lungo arco temporale la genesi del Regolamento (UE) 2024/1991 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 24 giugno 2024 sul ripristino della natura e che modifica il regolamento (UE) 2022/869, il cui testo predisposto dalla Commissione Europea nel giugno 2022, a più riprese riveduto e corretto, è stato definitivamente approvato il 17 giugno 2024, ed è entrato in vigore il 18 agosto u.s.
Anche i produttori italiani avranno la possibilità di produrre e commercializzare vino dealcolato. Lo prevede il decreto ministeriale numero 672816 del 20 dicembre 2024, in via di pubblicazione sulla gazzetta Ufficiale. Il provvedimento è stato varato dopo una lunga fase di meditazione e di confronto con gli organismi di rappresentanza della filiera, i quali ancora oggi, dopo la firma del Ministro, si dividono tra sostenitori e oppositori dell’operazione.
Il decreto ha per titolo “Disposizioni nazionali di attuazione del regolamento 1308/2013” e, pertanto, si muove entro le regole unionali di recente definite con l’ultimo intervento di riforma della PAC e la pubblicazione dei tre testi di base alla fine del 2021. L’Italia ha impiegato tre anni per recepire una norma europea ampiamente discussa durante il lungo negoziato che ha portato alla PAC 2023-207 ed è arrivata alla meta dopo diversi altri stati membri.
Con l’entrata in vigore delle regole sul vino a basso tenore di alcol, gli operatori italiani potranno diversificare ulteriormente la produzione vitivinicola, potendo inserire all’interno della gamma prodotti dal contenuto innovativo che riscuotono un certo interesse da parte di alcuni segmenti di consumatori. Ad oggi la produzione di vini dealcolati è consentita agli operatori, ma devono provvedere ad eseguire la trasformazione in Paesi terzi dove questo procedimento è ammesso. Si genera così una curiosa condizione di disparità che si intende superare con l’intervento ministeriale in via di pubblicazione.
Pagliai – Manuela è davvero un piacere ritrovarsi ancora a dialogare con te sulle problematiche del suolo, ma lasciamo da parte i sentimentalismi (Pisa mi è rimasta nel cuore!) e veniamo a noi! Finalmente negli ultimi decenni la biologia del suolo ha avuto l’attenzione che merita grazie proprio ai grandi progressi scientifici nel campo delle tecnologie molecolari. I nuovi concetti di “salute del suolo” sono in gran parte basati proprio sulla biodiversità e sull’attività biologica degli organismi che vivono nel suolo stesso. Tuttavia, a mio avviso, mentre grande attenzione è stata posta alla funzionalità delle comunità batteriche del suolo la stessa non è stata ancora del tutto riservata alla funzionalità delle comunità fungine. Mi sbaglio?
Giovannetti – Hai assolutamente ragione. Spesso ci si riferisce al microbiota funzionale del suolo citando i batteri, che sono molto importanti per il completamento dei cicli biogeochimici del suolo, in cui la materia organica è degradata e trasformata in composti nuovamente utilizzabili da parte delle piante. Occorre però ricordare che i funghi hanno un ruolo chiave nei cicli biogeochimici e forniscono un’ampia gamma di servizi essenziali per gli ecosistemi. Infatti, oltre a regolare la dinamica della materia organica, sono attivi nel sequestro del carbonio, modificano la struttura fisica del suolo agendo contro l’erosione, aumentano la quantità e l’efficienza d’uso dei nutrienti. Inoltre un gruppo particolare di funghi - i funghi micorrizici -, che stabiliscono simbiosi mutualistiche con le radici della maggior parte delle piante terrestri, sono in grado di assorbire i nutrienti minerali del suolo e trasferirli alle piante ospiti attraverso una rete sottile di ife che si estende dalle radici colonizzate al suolo circostante. Tale rete extraradicale funziona come un vero e proprio apparato assorbente ausiliario, poiché sulle sue ife sono localizzati ed espressi i geni trasportatori di nutrienti, quali fosforo e azoto, elementi fondamentali per la crescita e la produttività delle piante. Inoltre molte specie di funghi micorrizici vivono in associazione con complesse comunità di batteri, che svolgono importanti attività funzionali. Per esempio, i batteri capaci di mineralizzare il fitato (che rappresenta fino al 60% della forma organica del fosforo nel suolo) agiscono in sinergia con i funghi micorrizici, favorendo l’assorbimento del fosforo da parte delle ife e il suo trasferimento alla pianta. Questa sinergia è molto importante per la nutrizione delle piante, in quanto il fosforo è un componente strutturale di molte biomolecole coinvolte in processi metabolici chiave, come la fotosintesi, la biosintesi di DNA e RNA, la respirazione e il trasferimento dell’energia. Benché i suoli agricoli contengano elevate quantità di fosforo, sia in forma organica che inorganica, esso è poco disponibile a causa della sua immobilizzazione e precipitazione con altri minerali: dunque l’azione dei simbionti micorrizici rappresenta una strategia sostenibile per mobilizzare il fosforo e incrementare la sua acquisizione nelle colture agrarie.
Il totale complessivo degli accademici che rivestiranno un ruolo di primo piano è di 86, nessuno dei quali avrà un doppio incarico. Si tratta di una squadra molto numerosa e straordinariamente competente, che sarà chiamata a svolgere compiti importanti viste le crescenti sfide che sta affrontando il settore primario, tra aumento della popolazione mondiale e cambiamenti climatici. L’Accademia dei Georgofili sarà ancora in prima linea per dare risposte e suggerimenti operativi agli agricoltori e ai decisori politici.
“Lo sforzo messo in atto nelle modifiche apportate rispetto al passato è quello di avere organi operativi davvero funzionanti ed efficienti che possano attivare e coordinare il contributo intellettuale dei circa 1.200 accademici che costituiscono il vero patrimonio umano dell’Accademia dei Georgofili”, ha sottolineato il Presidente Massimo Vincenzini. “Sono anche molto soddisfatto del ruolo finalmente riconosciuto alle nostre accademiche”, ha aggiunto.