Sono trascorsi ormai cinque anni da quando i territori montani delle regioni dell’Italia nord-orientale furono interessati dalla tempesta Vaia che dal 27 al 30 ottobre 2018 li investì con la forza di un uragano. E in effetti Vaia è stato un evento meteorologico classificato come “Medicane” ossia “Mediterranean hurricane”, un uragano sviluppatosi nel bacino del Mediterraneo, ma con tutte le caratteristiche proprie di un uragano tropicale.
Gli effetti per i territori montani furono devastanti: a una prima fase con precipitazioni piovose di elevata intensità fece seguito una seconda fase, anch’essa con precipitazioni piovose sostenute, ma caratterizzata da venti ad alta velocità (prossime a 200 km/h) con prevalente direzione SE, in grado quindi di penetrare nelle valli alpine senza trovare alcun ostacolo.
Se le intense precipitazioni piovose innescarono fenomeni di erosione idrica e di trasporto solido che crearono pesanti danni a persone, edifici e infrastrutture (strade, ponti, linee elettriche e telefoniche, acquedotti, funivie) il forte vento fu la causa prevalente dei danni arrecati ai boschi, con l’atterramento e il danneggiamento di 16 milioni di alberi corrispondenti a quasi 9 milioni di metri cubi di legname.
Naturalmente l’atterramento e il danneggiamento degli alberi costituiscono il danno primario al quale va a sommarsi il danno secondario rappresentato da: alberi inclinati e quindi da abbattere, riduzione della produzione degli alberi rimasti apparentemente intatti (riduzione degli accrescimenti dovuti all’indebolimento dell’apparato radicale stressato dal vento), alterazioni delle condizioni della vegetazione, riduzione dell’erogazione di servizi eco-sistemici (sequestro di CO2), aumento del rischio di incendio, alterazioni (pur se temporanee) del paesaggio.
L’ordinanza di protezione civile dichiarata nei giorni successivi all’evento consentì di effettuare con rapidità tutta una serie di interventi volti al consolidamento dei territori, la messa in sicurezza dei versanti, la ricostruzione delle infrastrutture, la raccolta del legname. Ad oggi si stima che una percentuale variabile tra il 75 e il 90% del legname danneggiato dalla tempesta Vaia sia stato raccolto; la quota mancante è dovuta principalmente all’inaccessibilità dei luoghi che non permette l’accesso ai mezzi o che rende economicamente inattuabile; a raccolta e alle funzioni di protezione dalla caduta di massi e/o di slavine che il legname a terra è in grado di esercitare in attesa del completamento della costruzione delle barriere paramassi e paravalanghe.
Può un prodotto vegetale ad altissimo contenuto di servizio andare in crisi mettendo a repentaglio 1 miliardo di euro di giro d’affari, migliaia di posti di lavoro e l’economia di interi territori al Nord come al Sud? Sì può succedere, per un combinato disposto di calo dei consumi, concorrenza al ribasso, impoverimento delle famiglie causato dal caro-vita, l’eccesso e la polverizzazione dell’offerta. E’ quello che sta capitando al comparto degli ortaggi di IV Gamma (in primo luogo le insalatine in busta).
“E così, un prodotto familiare per il 93% degli italiani, rischia di non essere fatto più nel nostro Paese. Parliamo di un sistema che coinvolge centinaia di imprese agricole sul territorio nazionale e che soprattutto garantisce ai cittadini di poter contare su ortofrutta di qualità pronta all’uso. Un segmento che dà un aiuto fondamentale a raggiungere la quota dei 400 grammi al giorno di ortofrutta consigliati dall’OMS per una dieta salutare”, dice a FreshCutNews.it – il sito di riferimento del settore- Antonio Salvatore, coordinatore del Comitato IV Gamma dell’OI (Organismo Interprofessionale).
Il comparto, messo con le spalle al muro, sta però reagendo. Con un plus di innovazione legato al Vertical Farming, nuova frontiera dell’agricoltura sostenibile, complessi indoor dove le piante crescono in verticale in un ambiente controllato e senza impiego di chimica. Recentemente è stata inaugurata a Verolanuova (BS) la vertical farm “Kilometro Verde” dove da fine anno si produrrà l’insalatina Petali, con materia prima che (al momento) arriva dalla vicina Manerbio, comune dove ha sede La Linea Verde, una delle aziende storiche del comparto. Giuseppe Battagliola ha presentato Petali, prodotto pronto al consumo da lui definito “rivoluzionario” nel panorama italiano del fresh cut per “il gusto, la shelf life e la croccantezza decisamente superiori alla media, grazie a prodotti coltivati utilizzando una tecnologia innovativa a zero impatto ambientale”. Kilometro Verde è totalmente automatizzata, si basa sulla coltura idroponica indoor, con qualità garantita tutto l’anno, non essendo il prodotto soggetto a variazioni climatiche, come pure la freschezza, grazie ai pochi minuti che trascorrono dal momento della raccolta a quello del confezionamento. Il brand Petali, che per ora ha fatto il suo ingresso in un numero limitato di insegne e store, dà il nome a una linea di teen leaf di calibro medio, “con foglia spessa, asciutta, consistente e dalla croccantezza unica”, precisa Battagliola. Nasce da un seme non trattato, e da un processo controllato in tutte le sue variabili. Il confezionamento avviene subito dopo il taglio, così il prodotto rimane fresco e buono per più tempo, migliorando la stessa shelf life “molto più ampia di una tradizionale insalata di IV Gamma”.
Perché gli italiani mangiano sempre meno frutta? Non facile se non impossibile rispondere in modo semplice a una domanda su un fenomeno molto complesso e che riguarda l’Italia come altre società ricche e industrializzate. Alcuni richiami e considerazioni possono aiutare a comprendere la una scarsa presenza di frutta nell’alimentazione italiana e gli insuccessi fatti per aumentarne l’uso.
La storia dell’insetticida organico DDT (1,1,1-tricloro-2,2-bis(p-clorofeniletano), abbreviato in Dicloro-Difenil-Tricloroetano) è quanto mai bizzarra. La molecola, sintetizzata “quasi per gioco” nel 1873 da uno studente austriaco, Ohtmar Zeidler, che fece reagire cloralio (tricloroacetaldeide) e clorobenzene, rimase per quasi 70 anni una mera curiosità scientifica, priva di qualsivoglia applicazione. Si arriva al 1939, quando Paul Müller, un giovane ricercatore della compagnia elvetica Geigy (tuttora operativa dopo varie vicissitudini societarie nell’ambito del gruppo Novartis) brevetta il composto, dopo averne verificato le notevoli proprietà insetticide. Salutata come scoperta rivoluzionaria e liberatoria, la molecola in realtà nascondeva trappole di varia natura da cui è stato faticoso uscire. Ampio spettro di azione (arma, peraltro, a doppio effetto, in quanto la mancata selettività si dimostrerà un limite invalicabile), efficacia a basso dosaggio e lunga persistenza, così come scarsa tossicità acuta per l’Uomo, ne fecero subito un prodotto strategico. Fondamentali campi di applicazione si dimostrarono quelli relativi al contrasto a insetti vettori di patogeni mortali, quali il plasmodio agente della malaria (veicolato da zanzare del genere Anopheles) e il batterio della famiglia delle rickettsie responsabile del tifo esantematico (trasmesso dai pidocchi umani). La notevole attività biocida dimostrata da DDT nei confronti di questi artropodi non sfuggì all’attenzione dei vertici militari degli Stati Uniti, appena coinvolti nella Seconda Guerra Mondiale, e l’insetticida entrò ben presto a far parte dell’arsenale strategico delle truppe di terra e di mare.
Il cambiamento climatico pone sfide sempre più rilevanti ed in alcuni casi drammatiche al nostro sistema agroalimentare. Alcune filiere si stanno dimostrando particolarmente suscettibili e vulnerabili nei confronti delle mutate condizioni ambientali, tra queste va purtroppo inclusa la filiera olivicolo olearia. Per inquadrare in modo corretto il problema va ricordato che, pur avendo visto, la coltivazione dell’olivo nell’ultimo trentennio, un’espansione in aree geografiche collocate al di fuori del bacino del mediterraneo, ciò non di meno una gran parte della produzione olivicola mondiale si concentra ancora nell’ambito del suddetto areale. Va infatti ricordato che solo la Spagna produce da sola poco più del 40% della produzione mondiale e mettendo insieme i volumi di prodotto di altri Paesi mediterranei arriviamo a circa il 90% dell’olio di oliva ottenuto su scala mondiale.
Questo significa che gli eventi climatici atipici, connessi al cambiamento climatico, che possono compromettere la produzione degli oli di oliva all’interno dell’areale mediterraneo, comportano perdite di prodotto di entità tali da non potere essere, se non marginalmente, rimpiazzate da eventuali incrementi di produzione, che potrebbero verificarsi nei Paesi produttori esterni alla suddetta area. Una prova eclatante di quanto affermato è da ricercare in quanto verificatesi lo scorso anno, quando la produzione Spagnola ha subito, causa le alte e prolungate temperature estive, associate ad una perdurante siccità, una riduzione di quasi il 50% rispetto alle medie di produzione degli anni precedenti e, purtroppo, qualcosa di simile si preannuncia per l’ormai imminente nuova campagna olearia. Anche in questo caso la Spagna è il Paese più direttamente coinvolto a causa della scarsa allegazione dei frutti dovuta alla siccità ed alle elevate temperature registrate, in fase di fioritura ed allegazione, in Andalusia, la più importante area di produzione olivicola Spagnola. Questo significa che quando un paese come la Spagna che da solo produce intorno a 1,2-1,4 milioni di tonnellate di olio (circa il 40% dell’olio mondiale) va in sofferenza produttiva a poco possono servire, in termini di compensazione sui volumi mancanti, i potenziali incrementi di produzione di altri Paesi mediterranei, Italia in testa, che ormai si colloca stabile tra le 200.000 e 350.00 tonnellate annue di olio (tra 8% ed il 10% della produzione mondiale).
Nei giorni scorsi a New York la comunità internazionale ha discusso lo stato della situazione riguardo il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile definiti dall’agenda 2030 delle Nazioni Unite. La complessa situazione internazionale che stiamo vivendo ha certamente reso ancora più difficile questo esercizio fondamentale. Per cercare di focalizzare al meglio il lavoro da fare, la FAO ha presentato un Rapporto specifico per il monitoraggio degli obiettivi relativi all’alimentazione e all’agricoltura.
Almeno nelle intenzioni, i vari attori del settore zootecnico europeo si stanno dando da fare per contrastare l’aumento della concentrazione dei gas serra in atmosfera. Purtroppo, l’Europa non è che una piccola parte del nostro pianeta ...
Di estremo interesse è il Sommario di botanica medico-farmaceutica e di materia medica per uso degli studenti di Farmacia, realizzato da Antonio Targioni Tozzetti. Articolato in due densi volumi fu stampato nel 1830, a Firenze, da Giuseppe Galletti e s’impose subito all’attenzione per il ruolo ricoperto dall’autore, apprezzato Professore di Botanica e di Materia Medica nell’Arcispedale di Santa Maria Nuova, il massimo nosocomio fiorentino.
Targioni Tozzetti aveva dedicato ai funghi notevole spazio nella sua trattazione, giungendo a definirli: “Piante semplici carnose, o legnose, o sugherose di varia figura, mancanti di fusto, di rami, di foglie e di frondi; sporangi sparsi alla superficie, o inviluppati nella parte interna del fungo, o formanti da loro stessi la pianta”.
I porcini emergevano per la loro qualità ed erano presenti in natura con numerose specie: Boletus Edulis, Boletus Esculentus, Boletus Bulbosus, Boletus Reticulatus, Boletus Aestivus, Boletus Mutabilis e Ceryomices phragmites Rufus. Erano “funghi ottimi a mangiarsi e sono nutritivi. Rompendoli sono bianchi nell’interno e non mutano colore. Il cappello è a guancialetto convesso, piano, di colore di tabacco scuro, di sotto bianco giallastro, o giallo verdastro. Stipite prima rigonfio, poi cilindrico ed un poco retato. Si trovano in grande abbondanza nella primavera e più ancora in autunno. Hanno buon sapore e odore”.
Misurare il tempo significa per noi, gli umani, affidarci all’alternarsi delle ore di buio o di luce e, quindi al moto di rotazione della terra e al cosiddetto ‘giorno solare’, che dura mediamente 24 ore, con leggerissimi mutamenti legati all’orbita della terra nel suo moto ellittico di rivoluzione terrestre intorno al sole, che ha una durata pari a 365 giorni, 5 ore, 48 minuti e 49 secondi. Gli uomini hanno creato un sistema comune per mettere ordine nel tempo e per costruire una cronologia. Quello strumento è il calendario che si basa su unità di tempo e lo suddivide. Il calendario non è solo una sorta di misura, di ordine del tempo, ma è una storia, contiene ricorrenze religiose e laiche, contiene la storia di Paesi, uomini e di santi. Il calendario è legato al sole o alla luna, o ad ambedue, e tutte le grandi civiltà, da quella egizia a quella persiana, all’ebraica, alla cristiana, alla cinese e all’indiana, ne hanno sviluppato uno, distinguendolo in mesi, settimane, giorni.
Un lavoro straordinario sviluppato dalle migliori menti dell’umanità, nella consapevolezza del legame profondo tra la nostra terra e l’universo intero e, quindi, tra le nostre vite e l’infinito.
E le piante, cosa fanno? Sono forse elementi passivi del tempo? Lo misurano? Ne hanno contezza?
E le loro vite sono scandite da una sorta di determinato orologio interno che ne definisce la durata, la vita media?
E soprattutto, sono gli anni, i mesi, i giorni, le ore, i minuti, i secondi l’unità di misura del tempo delle piante?
Non è fantasia immaginare una relazione tra la vita delle piante e le fasi lunari. Nella pratica boschiva si discute dell’influenza della fase lunare sulla qualità del legno e, d’altra parte, le fasi lunisolari influenzano fenomeni come le maree e non sorprende che le differenze gravitazionali influenzino la vita delle piante. L’agricoltura biodinamica ne fa un postulato, ma non esistono evidenze scientifiche e, d’altra parte, non è neanche semplice studiare questi fenomeni, nel tempo e nello spazio.
L’uomo studia da sempre le relazioni tra tempo, inteso come cronologia, e vita delle piante. È quello che si fa in campi di studio come l’ecofisiologia e la fenologia entrambi finalizzati a studiare le manifestazioni stagionali di alcuni fenomeni della vita vegetale, come la fioritura, la maturazione dei frutti, il germogliamento primaverile.
Quello che è certo è che le piante hanno una straordinaria capacità di ‘leggere’ il tempo e certamente le specie perenni, gli alberi lo ‘scrivono’ nel divenire del loro accrescimento annuale.
Le operaie in pericolo iniettano un veleno i cui effetti sono simili a quelli di una ustione e da cui deriva il nome comune di Formica di fuoco o di Fire ant, con il quale nel 1998 è stata anche protagonista del film horror “Legion of Fire: Killer Ants”.
Ampeloterapia è un termine per la prima volta registrato nel 1892 e composto da ampelo (uva) e terapia, curarsi con l’uva quindi. Una pratica che si dice già in uso dai greci, romani e arabi e che diviene di moda negli anni trenta del secolo scorso durante il periodo autarchico quando durante la vendemmia per due o tre giorni, ma a volte anche per alcune settimane, si consiglia un consumo di circa mezzo chilogrammo di uva nei primi giorni, fino a quasi due chili verso la fine della dieta.
Le prime testimonianze di una civiltà dedita alla coltivazione e agli allevamenti possono essere fatte risalire ad oltre 20.000 anni fa, ma è solo dall’8.000 A.C., con il passaggio dal nomadismo alla vita stanziale, che l’agricoltura assume la piena fisionomia di attività produttiva, arrivando a generare una quantità di beni capace sia di soddisfare i bisogni di chi li aveva prodotti sia di alimentare le prime forme di scambio attraverso il baratto: è con l’instaurarsi di questi primi rudimentali meccanismi di mercato che possiamo dire che inizi il dialogo tra agricoltura ed economia. I fatti ora descritti, risalenti al Neolitico, vengono comunemente indicati come “prima rivoluzione agricola” e sanciscono l’inizio della lunga storia di una delle attività umane che più di ogni altra ha plasmato lo sviluppo dell’intera civiltà.
Governata per secoli prevalentemente dalle leggi della natura e solo marginalmente condizionata dal lento succedersi di poche innovazioni, l’agricoltura si sviluppa per secoli ad una velocità che rende quasi impercettibili i cambiamenti che si susseguono nel tempo.
Si deve così attende sino al XVII secolo per assistere ad una “seconda rivoluzione agricola”, innescata dal succedersi ravvicinato di molteplici ed importanti innovazioni tecnologiche e socio-economiche: l’aratro in ferro sostituisce quello in legno, vengono messe a punto le prime seminatrici, così come si perfeziona la pratica delle rotazioni con l’introduzione delle leguminose per elevare la fertilità dei suoli. Prodromica della rivoluzione industriale ottocentesca, questa “seconda rivoluzione agricola” sollecita una intensificazione produttiva facendo leva, oltre che sulle innovazioni tecnologiche, anche su maggiori investimenti di capitali, incentivati da maggiori garanzie in favore dei proprietari e da un più intenso rapporto con i mercati.
Le novità introdotte con questa seconda rivoluzione che nasce in Inghilterra segnano lo sviluppo dell’agricoltura in tutto il Mondo, influenzando in particolar modo anche la nascente scuola economica agraria italiana. Ed è in particolare nel XIX secolo, grazie all’opera di Arrigo Serpieri, che per la prima volta agricoltura ed economia vengono portate a dialogare pariteticamente nell'ambito di uno stesso corpus teorico, individuando nella figura dell’imprenditore il soggetto al quale spetta l’onere di conciliare questi due mondi a livello di singole aziende. Ed è sempre in seno alla scuola economica italiana dell’epoca che si arriva con chiarezza a distinguere l'economia agraria dall'economia politica agraria, indicando come la prima rappresenti lo studio delle "azioni dell'uomo dirette al conseguimento della ricchezza sotto l'aspetto privatistico, dell'imprenditore”, laddove, invece, l'economia politica agraria deve intendersi come lo studio delle “azioni dell'uomo dirette al conseguimento della ricchezza sotto l'aspetto sociale, cioè sotto l'aspetto dell'interesse generale della società”. Con tale visione contrapposta, di ciò che debba intendersi per economia agraria e per economia politica agraria, Serpieri indica come l'agricoltura (e tutte le risorse ad essa riconducibili) sia un'attività che esprime un'utilità al tempo stesso privatistica e pubblica, anticipando di quasi un secolo i temi che oggi associamo al ruolo “multifunzionale” del primario e alla natura di bene misto delle risorse rurali.
Che tipo di malattia è la peste Suina Africana (PSA)?
La PSA è una malattia infettiva virale che interessa soltanto cinghiali e suini domestici, molto contagiosa, molto mortale e per la quale non esiste vaccino, perché il virus in questione non produce i cosiddetti anticorpi "neutralizzanti".
La PSA è una malattia comparsa di recente nel nostro paese?
In Sardegna, già fin dal 1978, era presente la PSA ma apparteneva ad un genotipo di tipo 1 e grazie all’applicazione di un piano di eradicazione stiamo raggiungendo l’eradicazione della malattia. Purtroppo, quella che sta circolando adesso è la PSA di genotipo di tipo 2, che è arrivata in Italia, compresa la Sardegna, dall'Est Europa.
Come si trasmette la PSA?
Il contagio della PSA può essere diretto (da animale sano ad animale malato) o indiretto. Quello indiretto può passare attraverso le scarpe di chi lavora in allevamento o il camion che porta il mangime da un allevamento a un altro. Questo tipo di contagio indiretto è molto difficile da gestire perché il virus è molto resistente nell'ambiente, pertanto si attivano i protocolli di "biosicurezza", come l'uso di soprascarpe negli allevamenti.
Molta più attenzione va fatta nel caso di passeggiate nei boschi, dove è possibile venire in contatto con carcasse di cinghiali infetti; si raccomanda infatti l’immediata segnalazione della carcassa ai servizi veterinari del territorio per le opportune indagini diagnostiche.
Ai primi di settembre ho messo quasi per caso questo post su Facebook e Linkedin: “Nettarine bianche comprate a circa 3,5 €/kg in una catena GDO di prima fascia (no discount). Appena comprate erano dure, immangiabili; lasciate 2-3 giorni in casa a temperatura ambiente invece di maturare si sono raggrinzite, diventate mollicce, insapori, tornate all’origine: immangiabili. Le catene della GDO, che fanno sempre la lezione al mondo produttivo, ripetono sempre di puntare sulla qualità, sostenibilità, innovazione, ecc. Dovrebbero invece puntare in primo luogo a vendere frutta buona, altrimenti come dar torto ai consumatori che ne comprano sempre meno?"
Non è facile che un libro cambi la storia di un popolo, o quantomeno contribuisca in maniera determinante a modificare l’angolo di lettura di un determinato contesto sociale. È, questo, ad esempio, il caso della Capanna dello zio Tom, un romanzo scritto nel 1852 da Harriet Beecher Stowe, che ebbe un profondo effetto sugli atteggiamenti nei confronti degli afroamericani e della schiavitù negli Stati Uniti, contribuendo fortemente al cambio culturale che faticosamente aprì la strada alla causa abolizionista. Ma c’è almeno un altro esempio mirabile, anche questo opera di una donna, Rachel Carson: Primavera silenziosa (in originale Silent Spring), uscito nel 1962. A lei si deve una coraggiosa denuncia dei modi impropri con i quali l’Uomo si stava misurando con la natura. In particolare, avevano attirato la sua attenzione i trattamenti indiscriminati con insetticidi organici, in particolare il DDT, che causavano, lo sterminio non solo di popolazioni di insetti (e non solo di quelli nocivi), ma anche disastrose conseguenze sui componenti delle reti trofiche naturali. Il paradigma più iconico era quello della moria dei pettirossi, uccelli insettivori che si cibavano di artropodi avvelenati, subivano il fenomeno della biomagnificazione (il processo di accumulo di sostanze tossiche che risale le catene alimentari partendo dai livelli trofici più bassi) e venivano sterminati. Ed ecco che le primavere… diventano ‘silenziose’. Altro tema assai delicato era quello relativo alla intossicazione dei rapaci che, allorquando il loro organismo si ‘arricchisce’ di insetticidi cloro-organici (come il DDT, assunto anche in questo caso a seguito di passaggi tra i componenti della piramide alimentare) vedono assottigliarsi lo spessore del guscio delle uova, che finisce con lo sgretolarsi durante la cova. Lo stesso simbolo americano, l’aquila calva, era a rischio di estinzione.
La storia dell’agricoltura coincide con la storia della civiltà da noi conosciuta. Sono circa ventimila anni di storia che sono partiti dalla prima incisiva rivoluzione della storia dell’umanità. È accaduto quando gli esseri umani si sono organizzati in società stanziali, abbandonando il nomadismo che aveva caratterizzato le comunità umane preistoriche. Il passaggio che rappresenta la prima e più importante rivoluzione della storia dell’umanità, anche se largamente trascurata o dimenticata, si basa su una scoperta acquisita dai nostri antenati: la governabilità della terra in funzione della produzione di cibo per la sopravvivenza. Questo non significa che il nomadismo legato alla caccia cessi d’un tratto. In aree periferiche del mondo, lontane dai grandi processi di civilizzazione, le civiltà nomadi sono sopravvissute. Per fare un esempio, la conquista dell’Ovest nel continente nord americano ha messo in contatto ancora nel corso del XIX secolo la civiltà occidentale con “la civiltà del bisonte e del cavallo” che mantenevano costumi plurimillenari di sopravvivenza tramite la caccia al bisonte.
In realtà, i processi storici anche rivoluzionari richiedono dei tempi storici differenziati nella loro diffusione. Tuttavia restano tali. Circa 20.000 anni fa o poco più l’agricoltura è divenuta la struttura portante della civiltà umana. Le società si sono organizzate per essa e da essa. Essa ha prodotto modelli di credenza e gerarchie sociali. Un dato del tutto innovativo nella comune mentalità è stata la percezione che gli esseri umani potevano controllare l’ambiente naturale e condizionarlo alle proprie necessità. Prima i cicli naturali pesavano come condizionamenti insuperabili nella trasmigrazione degli animali da preda; ora i cicli naturali restavano dominanti, ma potevano essere sfruttati ai fini della sopravvivenza umana.
Certo non tutto era governabile. Le stagioni potevano essere più propizie o addirittura nefaste. Potevano generare abbondanza o carestia. Questo era non governabile, dipendeva dalla natura ossia dalla divinità. Quindi le società divenute stanziali e basate sulla variabilità della produzione agricola esprimevano una cultura religiosa e degli individui deputati al culto della divinità, i sacerdoti appunto. Questi erano gli intermediari con Dio e deputati a conquistarne la benevolenza. Perché gli esseri umani della nuova civiltà stanziale hanno presto scoperto che la vita individuale e collettiva è precaria e finita, ma che anche le condizioni di sopravvivenza determinate dal frutto dei campi sono precarie. Per contenere e governare queste precarietà e in primis per metabolizzare la morte era necessario che una casta di sacerdoti propiziasse i favori della divinità. Così sono nate le gerarchie sociali e anche quando esse presumevano di laicizzarsi conservavano della loro legittimazione originaria la sacralità del divino. Nessuna autorità umana poteva essere e operare senza l’investitura divina o essendo essa stessa parte della divinità.
L’aglio è uno tra i principali marcatori aromatici della cucina mediterranea e della Dieta Mediterranea. Diverse e quasi celebri erano le ricette italiane dove l’aglio era protagonista, dalla Bagna Cauda, ai sughi e condimenti anche per le diverse paste come il Pesto Genovese. Oggi hanno successo nuove interpretazioni e “rivisitazioni” di ricette tradizionali, sempre più industriali e con un’enfasi più o meno velata del “senza”, dove l’aglio scompare.
Un partenariato pubblico-privato guiderà il progetto FreeCO2, finanziato dal MISE e dedicato a implementare i processi e le pratiche di sostenibilità del sistema vitivinicolo siciliano, from farm to fork.
La meccanizzazione in agricoltura non deve essere vista solo come un aiuto per ridurre i costi di produzione, ma anche come un ausilio per migliorare la “dignità” di coloro che lavorano giornalmente nei campi. Quando ci si allontana da questo “mirabile” concetto ci si ritrova, come spesso accade, a tralasciare le macchine per “sfruttare” il lavoro di extracomunitari, disoccupati e altre categorie di lavoratori che, quasi quotidianamente, sono diventati più “convenienti” delle macchine.
Il consumatore ha sempre da lamentarsi per il prezzo dei prodotti agricoli che ritiene elevato (vedi olio, frutta, ortaggi, ecc.) ma, per “par condicio”, dovrebbe fare altrettanto, per esempio, con i prodotti del “sacrosanto” turismo, oppure con quelli della moda, della bellezza, ecc., tutti settori che sembrano non conoscere crisi.
Il problema, spesso, non va ricercato nel prezzo di un prodotto, ma nella ripartizione “ragionata” del reddito delle famiglie.
Purtuttavia non muore proprio nessuno se si rinuncia a una serata con gli amici per comprare del buon olio extravergine di oliva!
A rimetterci, purtroppo, complice anche la speculazione, sempre pronta come un avvoltoio dietro l’angolo, è la povera agricoltura, l’agricoltore e l’ambiente, sempre più soggetto, quest’ultimo, a un’intensa azione di “forzatura” (vedi input chimici) per aumentare le produzioni, pur di far quadrare i bilanci delle aziende agricole.
Le diverse “crisi” (covid, guerre, ecc.) fanno ritornare di moda l’antico mestiere dello “speculatore”, in verità mai tramontato!
Anche il settore dell’olivicoltura si trova di fronte a “epocali” cambiamenti, sempre in ragione di bilanci aziendali che “non quadrano”.
A detta di tutti gli specialisti, ormai, l’olivicoltura, così come è strutturata in molte parti del nostro Paese, non è più redditizia. Spese di potatura, di raccolta, ecc., sembrano “rosicchiare” i bilanci a tal punto da portare alla definitiva chiusura delle nostre aziende olivicolo-olearie. Questo discorso, però, l’abbiamo già sentito per la peschicoltura, la viticoltura, la zootecnica, ecc. Anche lì sembrava che la “RIVOLUZIONE” dovesse arrivare col cambio delle cultivar/razze, con i nuovi sistemi di allevamento, la meccanizzazione (meccatronica!), l’impiego di concimi e biostimolanti, ecc. Purtroppo così non è stato e, forse, i problemi permangono o sono addirittura aumentati.
L’adozione dei cosiddetti sistemi di coltivazione a cascata (SCC) è una strategia molto efficace per limitare lo spreco di acqua e sali fertilizzanti e il conseguente impatto ambientale associati alle acque di drenaggio nelle colture fuori suolo a ciclo aperto o semi-chiuso. Queste vere e proprie acque reflue hanno spesso (soprattutto nel caso dei sistemi semi-chiusi) una salinità eccessiva per gran parte delle specie orticole o ornamentali coltivate in serra o in vivaio. Nei SCC, gli effluenti di una ‘coltura donatrice’ relativamente sensibile alla salinità sono utilizzati per la fertirrigazione di una o più ‘colture riceventi’ con maggiore tolleranza allo stress salino.
I primi studi sui SSC nelle serre idroponiche sono stati condotti circa venti anni fa all’Università di Pisa dal gruppo di ricerca guidato, a quel tempo, dal Prof. Franco Tognoni (Dipartimento di Biologia delle Piante Agrarie, confluito nel 2012 nell’attuale Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agroambientali), ma recentemente è sorto un nuovo interesse per questi sistemi applicati a colture a terra o fuori suolo, sia in serra che in campo. Il riutilizzo degli effluenti idroponici presenta tuttavia diversi inconvenienti, poiché in genere sono caratterizzati, oltre che da un’elevata salinità, da concentrazioni anomale dei vari elementi nutritivi e dalla presenza di essudati radicali fitotossici, metaboliti di origine microbica e anche residui di prodotti fitosanitari utilizzati per la difesa antiparassitaria della coltura donatrice.
Oltre a quello per i SCC, c’è un grande interesse anche per le erbe spontanee commestibili (o alimurgiche) in considerazione delle loro proprietà nutrizionali e nutraceutiche. Su queste piante, ad esempio, si sono conclusi di recente due progetti dell’Università di Pisa finanziati dal Piano di Sviluppo Rurale della Regione Toscana (ERBAVOLANT, www.go-erbavolant.it; ERBIBONI; www.erbiboni.it). Gran parte delle erbe alimurgiche sono alofite o glicofite molto tolleranti al sale.
Recentemente, sulla rivista Agricultural Water Management è stato pubblicato uno studio condotto dal Prof. Luca Incrocci e colleghi (tutti allievi del Prof. Tognoni) nell’ambito del progetto internazionale IGUESS-MED (Programma PRIMA 2019; https://www.iguessmed.com/) su due specie spontanee che, in virtù della loro tolleranza alla salinità, sono ottime candidate a svolgere il ruolo di ‘colture riceventi’ nei SCC. Queste due specie sono state coltivate in serra in idroponica (floating system) utilizzando la soluzione nutritiva (effluente) scaricata periodicamente da una coltura di pomodoro su substrato (lana di roccia) a ciclo semi-chiuso, che aveva una concentrazione di cloruro di sodio (NaCl) di quasi 3 g/L (50 mmoli/L). Il disegno sperimentale comprendeva anche una soluzione nutritiva di controllo, arricchita o meno con il NaCl, e un effluente artificiale, cioè una soluzione nutritiva di nuova preparazione ma con la stessa composizione minerale dell’effluente genuino.
Il 3 settembre 2023 è mancato all’affetto dei suoi cari, degli amici, e dei colleghi, il prof. Luigi Costato, maestro del diritto agrario, alimentare e comunitario, Accademico dei Georgofili.
Il prof. Costato ha coniugato, con grande passione e straordinari risultati, l’impegno scientifico per la ricerca e l’insegnamento universitario, e l’impegno professionale e l’attenzione per il mondo delle imprese.
Dal 1958 al 1988 ha diretto l’impresa di famiglia (divenuta in prosieguo Grandi Molini Italiani) con una profonda conoscenza del mondo della produzione agricola e alimentare e del mercato, assumendo importanti responsabilità tra le imprese del settore: per nove anni presidente dell’Associazione Mugnai e pastai d’Italia, per sei anni vicepresidente di Federalimentare e per tre anni presidente dell’Association International de la meunerie.
Negli stessi anni, ha avviato il suo percorso di ricerca, studio e insegnamento sui temi del diritto comunitario ed agrario.
Libero docente di Diritto agrario dal 1970.
Professore incaricato di Ordinamento delle comunità europee nella Facoltà di Giurisprudenza di Ferrara, dal 1971 al 1980.
Professore ordinario di Diritto agrario nell’Università di Ferrara dal 1983 al 2008, quando è stato dichiarato professore emerito. In quegli stessi anni ha insegnato nella medesima università Diritto comunitario e poi Diritto dell’Unione europea, ed è stato preside della facoltà di giurisprudenza per tre successivi mandati.
Nell’insegnamento ha trasmesso agli studenti, ed agli allievi che ha seguito con affetto e attenzione, la passione per lo studio del diritto nella sua dimensione europea, oltre che nazionale.
Accademico dei Georgofili, ne ha sostenuto l’attività, promuovendo l’attenzione verso il diritto agrario e alimentare, ed assumendo – quale Consigliere dell’Accademia dal 2004 al 2022 – l’iniziativa per incontri sui temi propri di quest’area, dalla disciplina dell’impresa agricola e del territorio rurale, all’etichettatura dei prodotti alimentari, e da ultimo alle crisi della sicurezza alimentare seguite all’epidemia di Covid-19 ed alla guerra in Ucraina, proponendo una lettura originale ed inclusiva della food sovereignty e delle riforme della Politica Agricola Comune, succedutesi nel corso dei decenni.
Lo Satoyama Initiative è il titolo abbreviato comunemente usato per indicare un progetto internazionale avviato nel 2010 – The Satoyama Initiative. Societies in harmony with Nature: An inclusive approach for communities, landscapes and seascapes –, ispirato al tradizionale paesaggio rurale giapponese noto come satoyama (lett. “montagne vicine al villaggio”).
Le tecnologie digitali sono destinate a rivoluzionare la gestione della conoscenza da parte degli agricoltori e degli organismi intermedi, come le associazioni, le cooperative, i consulenti. La capacità di comunicazione a distanza sta già mostrando come la distinzione tra presenza fisica e presenza virtuale consenta modalità fortemente innovative nelle operazioni, nell'organizzazione e nella logistica, molte delle quali tutte da esplorare. La grande quantità di dati disponibili consentirà l'automazione di molte operazioni intellettuali: dalla classificazione, alla traduzione, al riconoscimento di immagini e di suoni, alla produzione di testi.
L'estremizzazione del clima è un fenomeno che non può più essere ignorato. Le recenti tempeste di vento e pioggia che hanno colpito in particolare le città del nord Italia, hanno portato alla luce una serie di questioni urgenti. Questi eventi, che rientrano nel contesto dell'estremizzazione del clima, evidenziano la fragilità dei nostri ambienti urbani e la necessità di una riflessione profonda sulle azioni da intraprendere per contrastare tali fenomeni.
In queste circostanze, il primo istinto è spesso quello di cercare un colpevole, un singolo responsabile da additare. Tuttavia, quando si parla di cambiamento climatico, non ci sono colpevoli nel senso stretto del termine ma, allo stesso tempo, siamo tutti colpevoli. Ogni nostra azione, o inazione, contribuisce in qualche modo all'intensificarsi dei cambiamenti climatici.
Di fronte a questa situazione, emerge anche la necessità di un graduale rinnovo del patrimonio arboreo. Nuovi alberi, più tolleranti alle condizioni estreme, dovranno essere piantati per sostituire quelli vecchi e instabili. Tuttavia, questa non è una soluzione semplice o immediata. Richiede pianificazione, risorse e tempo. E richiede soprattutto un cambio di mentalità da parte dei cittadini e di alcune istituzioni. Più volte mi sono interrogato su certe imposizioni da parte di Enti che applicano le stesse regole, indubbiamente valide, per i materiali inerti, a esseri viventi come gli alberi. Mi riferisco, nel caso specifico, alla pretesa di continuare a piantare in nome di una “storicità” e “inalterabilità” di certe alberate stradali o di certi parchi storici, specie palesemente inadatte a un clima che è cambiato (così come l’ambiente urbano) e che è diventato esso stesso storico.
Gestiamo l'inevitabile, evitiamo l’ingestibile è uno slogan che ho coniato alcuni anni fa. Allora cerchiamo di gestire al meglio il nostro patrimonio arboreo sapendo che possono esserci problemi con certe specie ed evitiamo di piantarle sia perché non adatte al clima futuro, sia perché potrebbero creare conflitti con le infrastrutture e gli edifici che potrebbero essere ingestibili.
La gestione passata degli alberi nelle città ha contribuito al problema attuale. Alcune decisioni, basate su una mancanza di comprensione della biologia degli alberi e della loro interazione con l'ambiente urbano, hanno creato conflitti con le infrastrutture cittadine. Alberi piantati troppo vicini ai marciapiedi, alle strade o agli edifici possono causare danni strutturali, rendendo difficile la loro gestione a lungo termine.
Ismea ha certificato un aumento dei costi di produzione nell’ordine del 40% in più rispetto al 2020, solo in minima parte compensato dall’aumento dei prezzi all’origine. Questo si traduce in una costante, importante erosione dei margini delle imprese.
Il 5 luglio 2023 la Commissione Europea ha pubblicato la Proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa al monitoraggio e alla resilienza del suolo (Legge sul monitoraggio del suolo) COM (2023) 416 finale 2023/0232 (COD).
Il contesto. Nell’aprile 2002, la Commissione aveva annunciato per la prima volta l'intenzione di sviluppare una Strategia per la Protezione del Suolo e di preparare il terreno per una proposta di legislazione europea sul suolo. Successivamente, nel 2006, la Commissione ha adottato una prima proposta, ma si sono svolti accesi dibattiti politici nel Consiglio dell'UE sotto le diverse presidenze. Non è stato infine raggiunto un accordo a causa di una minoranza di cinque Stati membri. Di conseguenza, nel 2014 la Commissione ha ritirato la sua proposta. Nel frattempo, la degradazione del suolo in Europa è peggiorata. Attualmente, il 4,2% del territorio è stato urbanizzato, soprattutto a scapito delle terre agricole. Inoltre, la degradazione del suolo sta compromettendo la fertilità a lungo termine dei terreni agricoli. Si stima che tra il 61% e il 73% dei terreni agricoli dell'UE sia interessato da erosione, perdita di carbonio organico, eccedenze di nutrienti (essenzialmente azoto e fosforo), compattazione o salinizzazione secondaria (o una combinazione di queste minacce). Tutto ciò provoca gravi danni ambientali ed economici. La Commissione stima che solo la compattazione del suolo può ridurre i rendimenti delle colture dal 2,5% al 15%. Inoltre, ogni anno si perdono più di un miliardo di tonnellate di suolo a causa dell'erosione. Senza una gestione sostenibile e azioni per rigenerare i suoli, si teme che la compromissione della salute del suolo diventerà un fattore centrale nelle future crisi di sicurezza alimentare. Anche i suoli contaminati influiscono sulla sicurezza alimentare. Ad esempio, circa il 21% dei suoli agricoli dell'UE contiene concentrazioni di cadmio nel suolo superficiale che superano il limite stabilito per le acque sotterranee.
Le città sono spesso associate a un'immagine di cemento, asfalto e grattacieli, ma dietro questa visione ci sono complesse reti di interconnessioni che possono, se adeguatamente pianificate e gestite, dare vita a veri e propri ecosistemi urbani. Le città, infatti, non sono semplicemente agglomerati di edifici e persone, ma rappresentano sistemi viventi complessi, dotati di un vero e proprio metabolismo, nei quali si svolgono dinamiche ecologiche, sociali ed economiche per cui è importante comprendere questa prospettiva per affrontare le sfide ambientali e sociali che le città e i cittadini dovranno sostenere nel prossimo futuro.
Le città, al contrario di quello che è il pensiero comune, sono dimora di una varietà di organismi viventi, dalla flora e fauna selvatica, agli animali domestici e all'uomo stesso. Gli elementi naturali come gli alberi, i parchi e i corsi d'acqua che costituiscono le aree verdi e blu delle aree urbane, sono fondamentali per la salute ecologica delle città poiché forniscono habitat per la biodiversità, assorbono l'inquinamento atmosferico, mitigano il calore urbano e migliorano la qualità dell'aria e dell'acqua. Le città, quindi, possono essere considerate come ecosistemi in cui la natura e l'uomo coesistono e interagiscono.
Oltre agli elementi ecologici, le città sono anche caratterizzate da una complessa rete di interazioni umane. I cittadini, le istituzioni, le imprese e le organizzazioni sociali costituiscono il tessuto sociale delle città. Queste interazioni sociali creano opportunità economiche, promuovono l'innovazione e la creatività, ma possono anche generare disuguaglianze e problemi sociali. La comprensione delle dinamiche sociali e della diversità all'interno delle città è essenziale per sviluppare politiche e interventi che promuovano la sostenibilità e il benessere delle comunità urbane.
Allora come dobbiamo affrontare la crescita, talvolta bulimica, degli agglomerati urbani?