Ricercatori e terza missione, ovvero coinvolgere la gente comune

di Luigi Bavaresco
  • 25 September 2024

In un mio articolo su Georgofili Info (13 gennaio 2021) dal titolo “Genome editing: un nuovo modo di approcciare l’argomento”, scrivevo della necessità di una interazione virtuosa tra ricercatori e società affinché le innovazioni scientifiche venissero percepite (dal pubblico) come vantaggiose per la società nel suo complesso. A questo proposito facevo riferimento alla creazione nel 2018 della Associazione ARRIGE (Association for Responsible Research and Innovation in Genome Editing) e a una proposta riportata su Science (Dryzek et al., 2020) relativa alla creazione di una assemblea deliberante composta da semplici cittadini al fine di dibattere tematiche scientifiche con forte impatto sulla società.
Ricercatori e opinione pubblica infatti presentano posizioni diverse su certe tematiche scientifiche quali ad esempio il ruolo dell’uomo nel cambiamento climatico, l’evoluzione umana, l’uso di animali nella ricerca, la sicurezza dei cibi OGM. Tutto questo è il risultato di un nuovo rapporto tra scienza e società dove quest’ultima vuole partecipare sempre più alla regolazione e scrittura dell’agenda scientifica, vuole orientarla verso obiettivi da valutarsi non solo sulla base del   rapporto tra rischi e benefici, ma facendo anche riferimento ad aspetti etici e valoriali; questo è positivo fin tanto che, però, i pregiudizi non prendono il posto dell’etica.
Come devono agire gli scienziati? Non è più proponibile un atteggiamento di superiorità verso chi non è d’accordo con le evidenze scientifiche, perché l’aspetto valoriale (che va al di là del risultato scientifico) sarà sempre più importante (Leshner, 2005). Il ricercatore dovrà allargare la sua sfera d’azione, passando dal suo laboratorio ad una azione sulla società (divulgare, persuadere, supportare, essere un leader) (Amel et al 2017), come previsto, peraltro, nel mondo accademico, dalla terza missione.  Questo nuovo atteggiamento è comprovato anche dalle iniziative di “citizen science” e di “crowdsourcing” per sviluppare progetti comuni tra ricercatori e pubblico (Guerrini et al., 2018). Ma i risultati ci saranno?  I cittadini accetteranno cioè le evidenze scientifiche (sia pur filtrate dai fattori etici)? Sembra per fortuna di sì. Faccio riferimento, a questo proposito, ad una situazione dove non è coinvolta una innovazione (di processo o di prodotto) ma l’affermazione che il cambio climatico è legato all’attività umana. La stragrande maggioranza degli scienziati è convinta di questo, mentre minore è la percentuale nella società. 
Secondo una recente ricerca di Nature Human Behaviour (riassunta in un articolo di Soliman, su Nature, 663, 502-503, 2024 *) su un campione di cittadini (10.500) di 27 nazioni, le persone più dubbiose hanno cambiato opinione in seguito alla diffusione di un messaggio (“consensus message”), adottato dal 97% degli scienziati del mondo scientifico in cui si diceva che il ruolo dell’uomo è cruciale. Il contenuto del messaggio che si veicola ha inoltre la sua importanza; è più efficace evidenziare gli effetti del cambio climatico sulla vita quotidiana delle persone che mostrare un orso bianco che si aggrappa a un blocco di ghiaccio polare che si sta sciogliendo. Le conversazioni personali rappresentano un’altra strategia che aiuta, andando anche in questo caso a trattare gli aspetti più rilevanti per le persone, perché in definitiva molti fatti della vita quotidiana sono legati al cambio climatico che ha a che fare con le cose che più sono amate dalla gente. Viene riportato infine un messaggio positivo e rassicurante di Anthony Leiserowitz, Direttore dello “Yale Program on Climate Change Communication” in New Haven, Connecticut, che dice di aver impiegato circa 20 anni di lente, attente, amorevoli, incoraggianti conversazioni con un suo familiare negazionista per convincerlo che stava sbagliando.

doi: https://doi.org/10.1038/d41586-024-02777-9