In questi giorni, fra la metà e la fine di settembre, si stanno mettendo a punto le strategie di bilancio e di politica economica per il prossimo anno. Poi, entro il 31 dicembre, il Parlamento e le Sedi della Politica saranno impegnati nella corsa per la formulazione della legge finanziaria per il 2025. Tempi e impegni sono, in apparenza, i soliti di ogni anno, ma questa volta vi è un’importante novità. A seguito delle modifiche apportate al Patto di Stabilità prima delle elezioni europee dello scorso giugno i Governi dovranno presentare il nuovo “Piano fiscale strutturale di medio termine” che sostituisce il Documento di economia (Def) e la Nota di aggiornamento di settembre (Nadef) sino ad ora passaggi chiave nella formulazione dei bilanci annuali. Il nuovo meccanismo tiene conto del fatto della difficoltà a mantenere le vecchie regole per numerosi Paesi, fra i quali Italia e Francia, che sono in condizioni di disavanzo eccessivo e che, per contro, i vincoli preesistenti, fra cui il tetto del deficit al 3% del Pil e l’impegno a ridurre il deficit dello 0,5% annuo, sono rimasti in vigore.
La flessibilità maggiore è che con il nuovo Patto di stabilità nel calcolo non rientrerà la spesa per gli interessi sul debito fino al 2027. Il quadro delle previsioni di bilancio quindi non si sottrarrà ad alcuni vincoli, anche se la formulazione pluriennale dei Piani di rientro e la flessibilità del calcolo del disavanzo consentiranno di fruire di minore rigidità e maggiore continuità nelle manovre correttive.
Le riflessioni in Italia, in una fase in cui i programmi della maggioranza e le richieste delle opposizioni sono ancora in fieri, sono dunque concentrate sulle modalità da adottare per conformarsi alla nuova disciplina e sulla possibilità/necessità di poter programmare su un arco temporale superiore all’anno la politica economica.
Il dibattito è già iniziato in estate, con una certa superficialità, e si intensifica in vista della prima tappa, la presentazione all’Ue del Piano. Due riflessioni emergono. La prima nasce dal discorso del Governatore della Banca d’Italia Panetta al Meeting di Rimini e alla frase che ne ha costituito il maggiore monito sulla cruciale necessità di ridurre il debito, con il richiamo al fatto che in Italia la spesa per gli interessi su di esso è pari al costo per l’Istruzione. Se si continuasse così il Paese sarebbe condannato ad un declino senza fine, al vivere della cicala. La seconda riguarda un intervento recentissimo del Ministro dell’Economia Giorgetti che ha affermato che l’avanzo primario di bilancio, cioè al netto del costo degli interessi, sarà in parità già nel 2024 e che nel periodo di validità del Piano strutturale di fiscalità si dovrebbe raggiungere l’obiettivo della riduzione del deficit dello 0,5% annuo grazie alla ripresa economica avviata.
Il bilancio italiano da alcuni anni era in pareggio, ma questo risultato veniva sottoutilizzato creano nuovo debito. Occorre fare il contrario: utilizzare le risorse per ridurre l’ammontare del debito e generare nuovi investimenti liberando il Paese dal giogo del debito da rimborsare.
Fra queste due posizioni si gioca il futuro del Paese, un futuro serio e non basato sullo sperpero delle risorse e sulla crescita sfrenata del debito. Il periodo delle emergenze impreviste con le relative trasgressioni è finito, ma perché ciò divenga realtà occorre che l’economia cresca in maniera stabile. Ecco perché l’esempio dell’eguaglianza fra il costo dell’Istruzione e quello del debito è il primo punto chiave. La crescita economica si crea con la generazione di innovazione che deriva da formazione e studio, e l’aumento della produttività. Da ciò nasce l’impegno a non sprecare denaro nel pagare il debito passato che non genera più ricchezza, ma sottrae risorse e a investire seriamente sul futuro.
E proprio la questione della crescita dell’economia è il secondo punto chiave. Se non vi è crescita non vi sono nemmeno risorse da investire perché questa continui e si rafforzi attraverso gli incrementi di produttività.
Le stesse considerazioni valgono per il comparto agroalimentare considerato come un sistema che produce beni e ricchezza. Anche qui non serve gingillarsi con strampalate idee come “il ristoro dell’ambiente” o le teorie della decrescita felice. Gli anni trascorsi con le emergenze e il freno prodotto da queste teorie mostrano con chiarezza che la decrescita è solo “infelice”. Molte speranze si concentrano su un’impostazione, nell’intera economia e, nello specifico, nell’agroalimentare, che valorizzi formazione, ricerca, innovazione, trasferimento tecnologico e incrementi di produttività. La ricchezza prodotta e lo sviluppo si generano così.