"Caro Biscotti,” mi gridava alle orecchie il prof. Enzo Di Cocco, illustre luminare dell’economia e politica agraria italiana durante i miei anni universitari (1976-1980), “le campagne come quelle del tuo Gargano e degli Appennini devono essere abbandonate!”. Così è stato: un tessuto produttivo che coinvolgeva ogni angolo di terra libera, dalle coste alle cime dei nostri Appennini, è stato lasciato all’abbandono. Ancora più grave, però, è stato l’abbandono dei territori stessi.
Con l’abbandono degrada un secolare paesaggio agrario, quello che tra l’altro aveva reso famosa l’Italia nel mondo e per la prima ed ultima volta descritto da Emilio Sereni (Storia del paesaggio agrario italiano, 1960). Non tutto, per fortuna, è andato perduto: diverse generazioni di tenaci contadini hanno continuato a dar vita a cascine, fattorie, masserie, uliveti, frutteti e vigne, tra monti, dossi, colline e collinette che modellano la variegata morfologia della nostra penisola. Ciò nonostante non si è riusciti in alcun modo a porre un freno a una natura che, ovunque, si è ripresa ciò che un tempo lontano le era stato sottratto. Molti coltivi sfruttati per secoli, sono tornati a essere boschi, mentre altri sono stati definitivamente cancellati dagli incendi che, negli ultimi trenta o quarant'anni, hanno colpito non generici boschi, come spesso riportato nelle cronache televisive, ma soprattutto campagne abbandonate. I media hanno raccontato il fenomeno come un “inselvatichimento” del territorio: boschi che avanzano e faune selvatiche – cinghiali, capre, lupi, orsi – che arrivano a invadere persino i centri abitati.
Nel Gargano, gran parte degli studi botanici da noi condotti (coordinati da Edoardo Biondi), si sono concentrati sulle dinamiche vegetazionali post-incendio e sui recuperi di ex coltivi, pascoli soprattutto. Nel tempo abbiamo perso una grande varietà di alberi da frutto, ortaggi, bovini, caprini, ovini. Sorprendentemente, quel patrimonio di “tipicità” (DOP, IGP) che hanno reso unica l’Italia in Europa, era strettamente legato alle attività agricole tradizionali che, però, continuavamo ad abbandonare. Nel frattempo, qualcuno ha iniziato a riscoprire sapori perduti: mele, pere, pomodori, pane, ecc. ecc., l’identità di tante generazioni. Non si trattava di una semplice moda, ma di qualcosa di più profondo e complesso: un segnale di cambiamento che stava toccando ogni ambito del sapere umano, dalla politica alla scienza. Ogni studioso della natura – biologo, zoologo, botanico o ornitologo – a partire dagli anni Novanta del Novecento ha iniziato a riconoscere alle campagne tradizionali, con i loro muretti a secco e l'interminabile rete di siepi e frangivento, le colture, promiscue e diversificate, un ruolo strategico nell'assetto del territorio, fondamentale per la conservazione di numerose specie animali e vegetali.
Negli agroecosistemi tradizionali abbiamo compreso come le attività dell’uomo e quelle della natura hanno creato funzioni ecologiche che governavano la presenza, la distribuzione e l’abbondanza di specie. Gli oliveti, ad esempio, presenti in tutto il bacino del Mediterraneo, sono gli ambienti a cui sono legate tutte le specie di uccelli frugivori svernanti. È sempre più chiara poi la funzione di naturali banche genetiche di un imprecisabile patrimonio di antiche specie e varietà agricole. Nel Gargano 66 vitigni diversi, 173 tipi di frutti (dai 15 tipi di mandorle ai 40 tipi di pere). Ogni vecchia varietà di frutti è il risultato del lavoro del contadino, non del genetista, che nel corso dei secoli le ha selezionate, migliorate e trasformate in precise identità culturali e biologiche, ma sempre legate a lui e destinate a estinguersi non appena smetterà di coltivarle. Dall’altra parte è evidente che il modello di specie e varietà concepite per essere coltivate ovunque non può più funzionare. È chiara altresì l’eredità di conoscenze che le agricolture tradizionali ci consegnano anche per poter “modellare” agricolture sostenibili (ad esempio la diversità colturale come forma di adattamento alle diverse disponibilità naturali degli ambienti e non il contrario di come è avvenuto con l’agricoltura convenzionale). Abbiamo bisogno di campagne con più natura e soprattutto “biodiverse”. In questa direzione si vuole muovere la politica del Green deal dell’Unione europea. Ma i nuovi agricoltori protestano.
Da aree marginali, le campagne tradizionali sono state concettualizzati a “paesaggi culturali”, con precise funzioni scientifiche, sociali e ambientali; un mutamento radicale di visione, di riconoscimento di funzioni, tra le quali quelle ambientali, maggiormente richieste dalla società. I paesaggi culturali sono prossimi a coincidere con l’apice di una ipotetica piramide la cui base è formata da “paesaggi tecnologici” (città, tessuto industriale, agricolo convenzionale), cui seguono verso l’alto i paesaggi culturali e, alla vetta, le aree protette (parchi e riserve) a forte valenza naturalistica. In questa ipotetica piramide, la parte riguardante i paesaggi culturali è la più rilevante, e dunque una grossa questione del territorio italiano.
Di piccoli paesaggi agrari tradizionali ne restano per fortuna tanti. Come salvarli? La loro tutela deve deve passare necessariamente attraverso il recupero e la gestione dei processi agricoli tradizionali che erano stati capaci di far agire allo stesso livello capitale economico, capitale culturale e capitale ambientale. Quali salvare? Un decreto legge di qualche anno fa (Decreto n. 17070/2012), ha istituito in Italia, l’ “Osservatorio Nazionale del Paesaggio rurale, delle pratiche agricole e conoscenze tradizionali”. L’obiettivo era quello di “censire i paesaggi, le pratiche agricole e le conoscenze tradizionali ritenute di particolare valore, di promuovere attività di ricerca […], salvaguardia […], anche al fine di preservare la diversità bio-culturale”. Enti e associazioni potevano presentare candidature e, tra i paesaggi che hanno già superato la prima fase di valutazione, vi sono i “Giardini d’Agrumi del Gargano”, una piccola oasi agrumicola millenaria che conserva specie e cultivar (arance, limoni e cedri, mandarini) della storica tradizione agrumicola italiana, grazie alla quale fino ai primi anni del Novecento il nostro Paese era il principale produttore mondiale di agrumi.