Pagliai – L’obiettivo primario dell’agricoltura deve essere quello di ottenere prodotti di qualità e per questo è fondamentale lo stato di salute del suolo. Nonostante l’accresciuta sensibilità verso i problemi di protezione dell’ambiente si assiste ancora ad un progressivo impatto delle attività antropiche sul suolo, dal momento che proprio i 2/3 dei suoli del territorio nazionale sono ormai degradati. I maggiori aspetti della degradazione ambientale sono, infatti, riconducibili al suolo (erosione, impermeabilizzazione (consumo di suolo), compattamento, formazione di croste superficiali, perdita di struttura, perdita di sostanza organica, salinizzazione, acidificazione) e sono in gran parte imputabili alle attività antropiche. Alla luce di ciò l’agricoltura del futuro avrà un compito sempre più difficile, considerando anche che gli attuali redditi non garantiscono più ad una larga parte di agricoltori una sopravvivenza dignitosa.
Corti – Tutto questo che citi, purtroppo, è verissimo. Ma la cosa che personalmente mi preoccupa di più è lo spopolamento delle aree interne, processo iniziato nell’immediato dopoguerra e che ancora oggi continua a ritmi di decine di migliaia di persone che, stando a dati ISTAT, ogni anno dalla montagna e dall’alta collina si trasferiscono verso le città o le zone costiere. Va detto: questo abbandono è dettato da cause contingenti. La prima delle quali è la mancanza di un reddito dignitoso per gli agricoltori di queste zone. Ma lo spopolamento comporta anche riduzione dei servizi (banalmente: posta, scuole, trasporti), che i comuni montani e collinari, spesso con abitati dispersi, non riescono più a mantenere. Secondo una errata vulgata tutta italiana, si è pensato, e in qualche caso ancora si pensa, che l’abbandono porti a un ritorno a condizioni ecologiche più naturali. Niente di più falso! Il territorio italiano non ha un metro quadrato di suolo naturale. Tutto il suolo del paese è stato utilizzato, fino a altitudini di 2500-2700 metri, a partire da 3000 anni fa. Tutto il nostro territorio è antropico, caso mai con una maggiore o minore naturalità. I nostri suoli nulla hanno a che fare con i suoli che avremmo avuto se il territorio non fosse stato utilizzato negli ultimi 3000 anni da agricoltori, carbonai (per i boschi), allevatori (per il pascolo). In tempi passati i suoli italiani sono andati incontro a periodi di erosione enormemente maggiori degli attuali. Basti pensare che la gran parte delle aree calanchive che vediamo oggi non esistevano prima dell’arrivo dei greci in Italia (3000 anni fa), e che la loro estensione è aumentata in occasione di punte demografiche verificatesi nel 1000 e nel 1600 d.C. E la causa è sempre stata la cattiva gestione del suolo. Lasciare a se stesse aree vaste in ambiente montano e alto collinare, aree prive anche di minime sistemazioni idraulico-agrarie e con suoli che sono tali per intervento dell’uomo, significa andare incontro a ulteriore degrado. Tutto perché i suoli hanno scarsa struttura e questa è anche debole nei confronti dell’acqua di pioggia, cosa che comporta accelerazione del tempo di corrivazione, con conseguente riduzione dell’infiltrazione e aumento del ruscellamento superficiale. L’assenza dell’uomo laddove è stato da millenni innesca un ciclo vizioso che ha come conseguenze le alluvioni e una maggiore suscettibilità a siccità estiva, ma anche l’esacerbarsi di eventi franosi, di ogni tipo. Il mantra deve essere un altro: riportare il presidio umano nei territori abbandonati, dando a chi ci vive condizioni economiche e sociali adeguate. Ho inventato la ruota! E’ quanto auspicava Serpieri un secolo fa, auspicio ancora valido pur nelle mutate condizioni economiche e sociali. Chiudere l’ufficio postale, l’asilo, la scuola elementare, il negozio di alimentari, eliminare le corse degli autobus, ….. fa male al suolo. E i disastri che ne conseguono sono economicamente e socialmente più ingenti di quanto avremmo potuto investire per mantenere quei servizi alle popolazioni delle aree interne.
Pagliai – La degradazione del suolo avvenuta negli ultimi 60 anni ha provocato una diminuzione di circa il 30% della capacità di ritenzione idrica dei suoli italiani, con un relativo accorciamento dei tempi di ritorno degli eventi meteorici in grado di provocare eventi calamitosi. A ciò si aggiungono i sempre più lunghi periodi di siccità e quindi la maggiore richiesta di acqua da parte delle colture, specialmente gli arboreti (vigneti e oliveti) di nuovo impianto. Ma siamo sicuri di avere l’acqua necessaria nei prossimi decenni, considerando anche l’aumento della salinizzazione lungo le nostre coste dove già adesso il cuneo salino raggiunge i pozzi presenti?
Corti – Non c’è dubbio che il sistema è del tutto integrato. Idealmente, e socialmente/economicamente, distinguiamo montagna, collina e pianura, ma il sistema ecologico e del tutto integrato tra questi tre comparti fisiografici.
Purtroppo, e l’ho imparato da te, Marcello, i suoli nazionali hanno perso il 30% della ritenzione idrica totale a partire dagli anni ‘50 fino alla fine del secolo scorso, essenzialmente a causa dell’erosione, per gran parte dovuta alla cattiva gestione del suolo. Questo, da se, comporta una riduzione dell’acqua disponibile nel suolo. Se poi pensiamo che, sempre a causa della cattiva gestione del suolo, è andata riducendosi anche l’infiltrazione di acqua, il risultato è che il suolo non solo può contenere meno acqua, ma se ne infiltra anche meno al suo interno. Ecco qual è la principale causa dell’aumento della siccità in agricoltura – la nostra è spesso una siccità fisiologica, non tanto carenza di precipitazioni. A maggio 2024, a Firenze abbiamo avuto il Congresso celebrativo del centenario della nascita della International Union of Soil Sciences (nata a Roma nel 1924). In più sessioni del congresso è stato ribadito con forza che erosione, eventi esondativi, degrado del suolo e siccità del suolo hanno come principale causa la cattiva gestione del suolo (o, meglio, come piace dire a me, una gestione del suolo non armonizzata con le vigenti condizioni pedoclimatiche) e, solo secondariamente, il cambio climatico.
E quindi, per venire alla tua domanda, ritengo che se gestissimo meglio i suoli, che significa anche ripristinare le sistemazioni idraulico-agrarie e idraulico-forestali, potremmo avere molta più acqua disponibile nel suolo di quanta ne abbiamo oggi, nonostante la ritenzione idrica sia diminuita. Con questo, contribuiremmo anche a combattere l’avanzamento del cuneo salino nelle zone costiere.
Ma c’è tanto lavoro da fare su tanti fronti. In alcune regioni d’Italia, sono tanti, troppi, i pozzi artesiani abusivi. Significa che ogni previsione sulla portata delle falde superficiali fatta dai competenti uffici regionali ha scarsa attendibilità, non perché non sappiano fare il loro lavoro, ma per mancanza di reali dati di emungimento. Tra l’altro, proprio l’eccessivo emungimento delle falde, ancor più se abusivo, contribuisce all’ingressione del cuneo salino, rendendo inutilizzabili pozzi per irrigazione fino a poco prima utilizzabili.
Soluzioni? Personalmente sono a favore del recupero delle acque reflue di ogni settore: urbano, agricolo e industriale/agroindustriale. Abbiamo possibilità tecniche per rendere l’acqua proveniente da ogni settore utilizzabile a scopo agricolo. O anche urbano – il verde cittadino viene irrigato con acqua dell’acquedotto nella stragrande maggioranza delle città italiane! Tra l’altro recuperando anche unità fertilizzanti. E pensare che la sanitizzazione delle acque reflue, ad esempio con ozono, ha costi irrisori! Le acque reflue sono un patrimonio immenso, sfruttiamolo. Vedo possibile la creazione di invasi, ma solo laddove sia dimostrato che non si possa supplire con acque riciclate. Il rischio è che la costruzione di invasi diventi la foglia di fico dietro la quale nascondere quella speculazione che produce consumo di suolo. Vedo molto male la desalinizzazione se non in casi particolarissimi quali le isole minori, che in estate trovano motivo di sopravvivenza grazie al turismo. Certo, vanno incluse anche altre località con piovosità media annua sotto 300 mm. Ma bisogna ricordare che la desalinizzazione crea problemi enormi per la gestione del sottoprodotto, le melasse saline.
Pagliai – Da vecchio pedologo che si è sempre sforzato di dire che per formare 1 cm di suolo fertile necessitano dai 100 ai 1000 anni a seconda del clima, del substrato litologico (cioè della roccia sottostante al suolo), ecc. e che basta un evento di erosione catastrofica di pochi secondi per distruggerlo, vedendo lo stato attuale dei nostri suoli avverto un senso di frustrazione, anche perché la degradazione del suolo dovuta all’impatto antropico non la scopriamo ora ma era già ben documentata nella letteratura scientifica del secolo scorso, dove si sottolineava altresì che i processi nel suolo avvengono nel lungo termine. È una visione pessimistica la mia o c’è la speranza di un’inversione di tendenza che dia speranza alle nuove generazioni?
Corti – Non è una visione pessimistica, è la stessa che ho io e che molto spesso getta un’ombra di inutilità di quel che è ed è stato il nostro operato. Soprattutto in questo Paese che, con mille contraddizioni, amiamo. Sì perché, in altri Paesi, chi fa il nostro mestiere, il pedologo, viene ascoltato di più. Senza esagerare, ovvio. Ovvio perché i nostri suggerimenti, che vanno nell’ottica di produrre di più e di maggiore qualità nel rispetto dell’ambiente, della salute umana, delle tradizioni locali e del mantenimento/consolidamento delle aziende nelle zone rurali, anche svantaggiate, collidono con interessi e lobbies di maggior potere. Penso alla lobby del cemento, dell’acciaio, della sabbia. La lobby dell’edilizia, alla quale molto spesso le amministrazioni locali si rivolgono per trovare qualche soldo al fine di mantenere alcuni servizi essenziali. Questo Paese non ha mai varato una legge per definire inequivocabilmente cosa sia il suolo ai fini dell’utilizzo di fondi da parte degli Enti Locali nel campo della “difesa del suolo”, tantomeno per la salvaguardia del suolo. Insomma, motivi di frustrazione, a giorni alterni, vengono.
Ma nutro anche delle speranze, sempre a giorni alterni. E sono le speranze che nascono dall’aver fatto una carriera universitaria di 30 anni prima di approdare al CREA. Carriera che mi ha fatto conoscere migliaia di studenti, oggi professori in scuole e università, ma anche professionisti nel settore agrario o forestale. Persone con un livello di sensibilità nei confronti del suolo maggiore di quanto ne riscontrassi all’inizio della mia carriera in alcuni colleghi di allora. E qualche risultato si vede. L’Unione Europea ha varato una mission sul suolo, mettendo a disposizione della ricerca e delle attività sul campo fondi di entità finora inimmaginabili. Oggi parliamo di agricoltura rigenerativa, cioè un’agricoltura che debba migliorare il suolo mentre lo si usa; anni fa, invece, dall’Europa arrivavano soldi per non coltivare! Quando vado in giro per le campagne d’Italia, vedo iniziare a ricostituire sistemazioni idrauliche importanti; a partire dalle opere di terrazzamento, in Toscana, Liguria, Valle d’Aosta, Sicilia, che sono anche meravigliose opere che arricchiscono i nostri paesaggi. Vedo, conosco, professionisti che pongono accento sul suolo nelle aziende vitivinicole, perché un vino buono si fa con l’uva, ma un vino eccezionale si fa con uve eccezionali, che richiedono un suolo sano e in ottime condizioni fisico-chimiche. Vedo che molte regioni, anche le più restie, hanno ridato inizio al taglio dei boschi demaniali, dopo aver capito che i boschi abbandonati rappresentano una riduzione della biodiversità, una risorsa non sfruttata e un fattore di rischio idropedologico. Insomma, vedo tante attività che vanno nella giusta direzione e quindi, a giorni alterni, mi rassereno. Fiducioso che vedrò un territorio migliorato rispetto anche solo a 50 anni fa, con un ritorno di persone attive anche sui territori più difficili (ma anche più affascinanti). E fiducioso anche del fatto di aver fatto la mia parte, assieme alla comunità scientifica che ha dedicato ogni sforzo (la vita) allo studio del suolo e della sua gestione: comunità della quale, tu, Marcello, sei un punto di riferimento che spesso mi ha portato per mano in quel mondo meraviglioso che sta sotto i nostri piedi e che per troppo tempo è stato ignorato. Grazie.