L'indagine nazionale rischio caldo e lavoro è disponibile fino al 30 settembre 2020 al seguente link https://forms.gle/jfnoh1oByuoTdo36A
Il questionario, è rivolto a tutti i lavoratori senza restrizione di categoria, e si compone di diverse sezioni utili a fornire un quadro quanto più esaustivo possibile sulle tematiche della percezione del rischio, della conoscenza del rischio da calore, di infortuni e misure di prevenzione e politiche del lavoro, aspetti ambientali e organizzativi per la prevenzione del rischio, e la percezione personale della salute.
La compilazione del questionario darà un importante contributo alla buona riuscita dell'indagine e del progetto.
Nell’immaginario collettivo le cavallette sono da sempre sinonimo di voracità devastatrice. Tali insetti lasciano infatti il proprio segno nella storia da oltre quattromila e 500 anni, dal momento che gli antichi Egizi erano usi scolpire locuste sulle proprie tombe almeno dal 2470 a.C. Un’illustre invasione di locuste fu per esempio quella che devastò l’Egitto ai tempi del faraone Thutmose III, supposto coevo di Mosè.
Sotto gli occhi di tutti vi sono i diversi movimenti d’opinione che soprattutto sulle reti telematiche danno avvio a moti sociali contrari a un’alimentazione basata sui criteri proposti dalla modernità privilegiando nuovi stili e in questo quadro solo abbozzato è da inserire una recente classificazione internazionale (NOVA worldnutritionjournal.org/index.php/wn/article/view/5/4) che suddivide gli alimenti consumati dall’uomo in base ai trattamenti ai quali sono sottoposti: Gruppo 1 Alimenti non trasformati o minimamente trasformati; Gruppo 2 Ingredienti culinari trasformati; Gruppo 3 Alimenti trasformati; Gruppo 4 Prodotti alimentari e bevande ultratrasformati. Nel quarto gruppo sono compresi molti ingredienti e tra questi zuccheri, oli, grassi, sale, antiossidanti, stabilizzanti, coloranti e conservanti usati nei prodotti ultralavorati e ultraprocessati con lo scopo di conservarli, imitare le qualità sensoriali degli alimenti degli altri gruppi, mascherare qualità sensoriali indesiderabili del prodotto finale o per dargli aspetti utili alla propaganda e commercializzazione. A questa categoria appartengono anche i cibi un tempo denominati junk food, i cosiddetti cibi spazzatura, in continua, forte crescita tra i giovani e nella popolazione di basso reddito non solo costituendo un pericolo per la salute, evento largamente segnalato, ma favorendo modelli di produzioni agro-zootecniche che non appartengono all’identità del nostro paese e sulle quali è necessario fare particolare attenzione.
Partendo dal principio che l’uomo è un onnivoro che deve alimentarsi con una grande varietà di cibi, non dimenticando che sola dosis facit venenum e che ogni alimento può divenire pericoloso se usato in modo non corretto, non si possono sottovalutare le considerazioni e le critiche che da più parti vendono sollevate per gli alimenti ultratrasformati. Allo stato attuale delle conoscenze, oltre ai rischi e pericoli di tipo tossicologico per questi alimenti usati in modo eccessivo e non appropriato, sono da considerare gli effetti che questi alimenti industriali hanno sul sistema alimentare nel suo complesso e sulla filiera dalla terra alla tavola soprattutto perché il cibo non è quello originario e naturale, ma quello dell’industria.
Più si legge sull’argomento e più si rimane confusi. Nei paesi ricchi, le scelte possibili sono fra la dieta mediterranea, la dieta vegetariana, la dieta vegana, la dieta fast food, la dieta delle grigliate in giardino, la dieta a base di pop corn al cinema e infinite altre amenità. Nei paesi poveri, purtroppo, il problema della scelta non si pone. In ogni caso, è inevitabile domandarci: ma quando saremo nove, dieci, undici miliardi, il nostro pianeta sarà ancora in grado di fornire cibo sufficiente per tutti, a prescindere dalla dieta che si sceglie? Leggendo qua e là, si trovano opinioni diverse e contrastanti, anche opposte, riguardo alle varie diete e alla loro sostenibilità.
Cerco di riordinarmi le idee e di riassumere che cosa ho capito.
La dieta mediterranea, come è noto, è basata largamente su frutta e verdura, con poca carne di qualsiasi tipo, pesce, latticini, olio di oliva e un bicchiere di buon vino. A sentire chi la propone e la pratica, è salutare e gradevole. C’è da crederlo, visto che il biologo americano Ancel Keys che, per praticarla meglio si era trasferito dalle nostre parti, è morto a 101 anni.
La dieta vegetariana non utilizza alimenti di origine animale, con l’eccezione del latte e delle uova. Può essere altrettanto valida in termini di soddisfacimento di tutti i fabbisogni nutritivi.
La dieta vegana non ammette assolutamente alcun alimento di origine animale e, per questo, non può garantire l’apporto di tutti i nutrienti necessari, a cominciare dalla vitamina B12, dagli acidi omega 3, dal ferro assimilabile, per non parlare della vitamina D3 e del calcio. Pertanto, chi adotta questa dieta, per qualsiasi ragione lo faccia, deve per forza ricorrere alla integrazione con prodotti dell’industria chimico-farmaceutica per non incorrere in gravi problemi di salute del tipo anemie, rachitismo e fragilità ossea o scarso sviluppo del sistema nervoso. Dietro alla dieta vegana si muovono, ovviamente, interessi industriali, commerciali e dell’editoria che la sostiene.
Il fast food, le grigliate all’americana o l’abuso di pop corn e bibite gassate e zuccherate, non sono neanche da prendere in considerazione perché palesemente nocive.
Date queste premesse, la scelta da fare non sembrerebbe difficile. Ma, ci avvertono i vegetariani ed i vegani, state attenti perché una dieta che comprenda la carne non è sostenibile: gli allevamenti sono i maggiori e più pericolosi produttori di gas serra, insaziabili consumatori di acqua e di terra.
Il'ja Il'ič Mečnikov (1845 – 1916), biologo e immunologo russo oltre a
scoprire la fagocitosi per la quale gli è assegnato il Premio Nobel per
la Medicina (1908), studia la longevità delle popolazioni caucasiche che
mette in relazione all'assunzione a una dieta con latte fermentato che
ritiene capace di ritardare l'invecchiamento. I cibi e le bevande
fermentate sono tra i primi alimenti trasformati dagli esseri umani e da
tempi immemorabili presenti nell’alimentazione dei popoli mediterranei
che con fermentazioni producono yogurt e latte fermentato, pani
lievitati, formaggi, vino e birra, vegetali quali crauti, pesci e loro
derivati come il garum, salami e le salsicce apprezzando la loro conservabilità, sicurezza e proprietà organolettiche.
La scelta selettiva di allevare scrofe iperprolifiche, che partoriscano
cioè un numero di suinetti per figliata superiore al numero delle
mammelle disponibili allo scopo di aumentare la produzione
dell’allevamento, comporta dei grossi problemi, soprattutto di elevata
mortalità perinatale.
Infatti, tanto per cominciare, l’elevato numero
di suinetti concepiti non permette loro un normale sviluppo intra
uterino, tanto da arrivare sotto peso alla nascita, se non morti. Il
fenomeno viene indicato con l’acronimo IUGR, ovvero “Intra Uterine
Growth Restriction” ed i nati vengono indicati come suinetti IUGR.
Durante il periodo di clausura causa coronavirus quante volte abbiamo
sentito da tutti i mezzi di comunicazione di massa che tutto non sarà
come prima, che dovremo cambiare le nostre abitudini, ecc. Forse sarà
che siamo ancora immersi nella pandemia ma non sembra proprio che
qualcosa sia cambiato; dalle cronache attuali emerge il ritratto di una
società ancora più intollerante, imbarbarita e incattivita. Quello che
sicuramente è cambiato, anzi peggiorato, è la crisi economica che
attanaglia il Paese, sommerso da mille emergenze: dalla mancanza di
lavoro, dalla chiusura di molte attività, dal crollo del turismo con
conseguente disastrose sull’intero settore e qui viene da pensare al non
aver saputo valorizzare a dovere, salvo alcune eccellenze, il nostro
immenso patrimonio culturale e paesaggistico e pare che solo ora si
comprenda il suo reale valore per la nostra economia. Inoltre, si
assiste all’aumento delle disuguaglianze sociali, molto preoccupanti,
all’aumento della criminalità e, soprattutto, all’incredibile
impoverimento culturale che fa gettare ombre sinistre sullo sviluppo
futuro del nostro paese. È chiaro che il diffuso impoverimento culturale
nella popolazione porta anche ad un forte decadimento delle competenze,
con il rischio di avere, in futuro (neanche lontano), classi dirigenti
non all’altezza del proprio compito.
Si deve quindi affrontare una
serie di impellenti emergenze e, visto che le risorse finanziare sono
limitate, gioco forza dovranno essere stabilite delle priorità di
interventi.
Ecco, è proprio la scelta di queste priorità che
preoccupa, perché sicuramente il settore agricolo e la tutela del
territorio, come sempre del resto, finirà in fondo alla lista. Ancora
una volta l’agricoltura non avrà l’attenzione che merita e, in pratica,
finirà per essere la solita cenerentola.
All’inizio degli anni ‘70, Samuel Mines (Gli ultimi giorni dell’umanità,
Einaudi, 1972) affermava che, improvvisamente, e con terrore, ci siamo
resi conto di non essere altro che delle scimmie che giocano con i
computer...”. Questa frase fa impressione, se si pensa che è stata
scritta quasi 50 anni fa, quando la maggior parte di noi forse neanche
sapeva dell’esistenza dei computer. Il progresso ci ha consentito, per
fortuna, l’uso di massa del computer, che ha portato a dei progressi
enormi in tutti i campi, ma che, sempre di più, ci sta riconducendo a
quell’immagine di Mines. Scimmie che giocano, e male, con il computer e
che, in massa, spesso negano l’evidenza scientifica. Eppure, se possiamo
lanciare i nostri strali da un computer, da uno smartphone da ogni
luogo del mondo e a ogni ora del giorno, lo dobbiamo ai progressi della
scienza e della tecnologia.
Allo stesso tempo, dovrebbe essere
acquisito che il progresso scientifico prospera sul dibattito
scientifico logico, secondo il quale è importante cercare di
identificare le ragioni logiche per cui una teoria scientifica è vera,
come anche portare ragioni per quali potrebbe non essere corretta.
Lo
spostamento del dibattito scientifico dalle Accademie, dalle riviste
specializzate e dagli eventi congressuali al mondo dei social si pensava
potesse contribuire alla diffusione delle conoscenze e al progresso
della Società globale.
La stessa Accademia dei Georgofili di cui mi
onoro di far parte, è molto attiva sui social network, con l’intento di
raggiungere un pubblico che potrebbe essere “spaventato” dalla storia di
questa Istituzione e, forse, anche influenzato da pregiudizi e da
un’intrinseca ostilità verso ciò che ritiene, a torto, un mondo
elitario. Così non è, lo sappiamo. L’Accademia dei Georgofili è per
tutti, di tutti.
Nell’agorà pubblica dei social esistono tuttavia
centinaia di falsi miti che seppur screditati dalla comunità
scientifica, sono duri a morire, e il messaggio che emerge è che la
scienza non è, né è mai stata, un insieme immutato e immutabile di
verità. Al contrario, ha da secoli proceduto per prove ed errori, a
volte anche grossolani, smentendo e migliorando sé stessa anno dopo
anno, secolo dopo secolo. Ma è, e rimane, SCIENZA.
È sconfortante,
invece, che alcuni pseudo-scettici credano che le bislacche teorie
irrazionali (pensiamo, ad esempio, ai terrapiattisti) facciano parte di
un dibattito scientifico logico e, in certi casi, qualche furbo
personaggio costruisce la propria carriera (e fa soldi), in particolare
su Internet, diffondendo ad arte e in modo surrettizio, teorie
palesemente false e antiscientifiche, senza addurre alcuna
giustificazione logica a loro supporto.
A 20 anni dalla firma della Convenzione Europea del Paesaggio
(CEP, Firenze, 2000) e in piena attuazione degli obiettivi ONU per lo
sviluppo sostenibile previsti dall’Agenda 2030, con il loro specifico
richiamo alla salvaguardia degli ambienti terrestri, al contrasto ai
cambiamenti climatici e alla trasformazione delle città verso modelli
sostenibili, resilienti e salubri, la formazione di competenze e
professionalità in grado di affrontare queste sfide rappresenta una
necessità, ma anche una opportunità di sviluppo economico green e di lavoro nel settore dei green jobs.
Come ogni anno assistiamo alla presentazione da parte di ISPRA del
rapporto annuale sul consumo di suolo cioè il suolo consumato a seguito
di una variazione di copertura e, quindi reso impermeabile. Lo scorso
anno definimmo i dati allarmanti perché le nuove coperture artificiali
avevano riguardato altri 51 chilometri quadrati di territorio, ovvero,
in media, circa 14 ettari al giorno, oltre 2 metri quadrati al secondo.
Fu auspicata un’inversione di tendenza per porsi l’obiettivo del
“consumo 0” di suolo.
Ma quale inversione di tendenza! In sostanza,
mentre la crescita demografica in Italia diminuisce, il cemento cresce
più della popolazione.
Una delle ipotesi che sono state fatte sull’origine della pandemia da
Covid-19 in Cina è quella della diffusione del contagio a partire dalle
carni e dagli animali vivi esposti per la vendita in un mercato di
Wuhan. Si sono registrati focolai di contagio anche in diversi altri
paesi, principalmente negli Stati Uniti, Irlanda, Australia e Spagna.
Più recentemente, situazioni analoghe si sono verificate fra gli addetti
alla macellazione e lavorazione delle carni in stabilimenti in Germania
e in Italia. In Germania a Gütersloh ed in Italia nelle province di
Reggio Emilia e Mantova. I paesi più colpiti sono Viadana e Dosolo, con
diversi comuni interessati in tutta la zona della bassa padana. Alla
data del 6 luglio scorso i 68 lavoratori del mantovano risultati
contagiati erano quasi tutti asintomatici o paucisintomatici, ma due di
essi sono stati ricoverati.
Il cittadino cui arrivano queste notizie è
portato verosimilmente a concludere che sono gli animali che arrivano
al macello e le loro carni in fase di lavorazione all’origine della
diffusione del virus e di chi sa quali altre malattie. È tutta legna sul
fuoco della scelta alimentare dei vegani. Ma come stanno veramente le
cose? Sentiamo alcuni esperti.
Leggiamo da Internet che Lawrence
Young, professore di Oncologia Molecolare nell’Università di Warwick
(UK), intervistato ha dichiarato: “le fabbriche e, in particolare, i
luoghi di lavoro freddi ed umidi sono ambienti perfetti per la crescita e
la diffusione del coronavirus. Il virus sopravvive molto bene sulle
superfici fredde e, in assenza di adeguata ventilazione e luce solare,
le goccioline contenenti il virus emesse con la tosse o gli starnuti da
individui infetti sono, con tutta probabilità, il veicolo ideale per la
diffusione ed il mantenimento del virus”. Ed inoltre: “in queste aree
chiuse con intensa attività lavorativa, le distanze sociali sono
difficili da mantenere. Si tende a parlare ad alta voce per superare il
rumore delle macchine e questo aumenta la produzione e lo spargimento di
goccioline e aerosol infettanti”.
Nei mesi scorsi, a seguito del drammatico diffondersi della Covid-19
causata dal virus SARS-CoV-2, numerosi sono stati gli interventi
giornalistici – spesso definibili come “fake news” - sulla possibile
relazione fra agricoltura moderna, squilibri ambientali ed emersione di
nuove zoonosi potenzialmente pandemiche. In particolare: agricoltura
intensiva = deforestazione e comunque impatto negativo sull’ambiente
(PM10 e cambiamenti climatici) = passaggio dei virus dagli animali
all’uomo = pandemia.
Sul tema sono recentemente intervenuto per
ricordare che le zoonosi sono malattie antiche quanto l’uomo, non solo
virali, ma anche batteriche e parassitarie; la sola via ragionevole di
prevenzione è controllarle e bloccarle sul nascere, intensificando le
buone norme di bio-sicurezza negli scambi mondiali e sicuramente con una
adeguata sorveglianza nelle aree a rischio (circostanza mancata in toto
a Wuhan per la Covid-19). Che vi possa essere una relazione con gli
squilibri ambientali non è da escludere in toto, mentre meno credibile è
che ciò sia in relazione con l’agricoltura, specie intensiva. Infatti,
non è stata l’agricoltura in sé, quanto piuttosto l’aumento della
popolazione, a determinare la progressiva occupazione della superficie
terrestre: dai 370 mila ettari in epoca romana ai 4,5 miliardi attuali
(di cui coltivati rispettivamente 170 mila e 1,5 miliardi di ettari) in
stretta relazione con la popolazione: da 170 milioni a 7,6 miliardi. Men
che meno si può parlare di agricoltura intensiva quale concausa di tale
occupazione; infatti, questa forma ha avuto grande diffusione dagli
anni ’60 e – in coincidenza a ciò – la superficie agricola mondiale non è
più aumentata (benché la popolazione sia passata da 3 a 7,6 miliardi,
mentre il n° degli affamati sia proporzionalmente diminuito). D’altra
parte, è ben vero che in questi ultimi decenni sono vieppiù aumentati
gli squilibri ecologici, in particolare i processi di deforestazione e i
cambiamenti climatici, nonché l’inquinamento atmosferico da polveri
sottili, tutti fenomeni interconnessi e ritenuti fra le cause delle
pandemie. Tuttavia, anche questi sono fenomeni riconducibili
all’andamento demografico e ai processi di sviluppo degli ultimi due
secoli, ma in misura modesta all’agricoltura.
Dunque, a provocare il crescente aumento del prelievo di risorse (rinnovabili e non), sono state la numerosità delle bocche e la loro voracità (senza
intento irriverente, anche perché molte delle accresciute esigenze, e
non solo alimentari, sono connesse ai diritti di ogni uomo che l’Umanità
ha voluto sancire nel 1948). Indiretta conferma del ruolo marginale
dell’agricoltura si desume dal fatto che il suo contributo ai gas serra e
al PM10 non raggiunge il 20%, che i 2/3 dell’acqua da essa utilizzata è
quella verde (da pioggia senza usi alternativi) e che i Paesi con
agricoltura intensiva stanno riducendo le superfici coltivate con
avanzamento del bosco (al contrario delle agricolture di sussistenza dei
PVS e dell’agricoltura biologica in quelli sviluppati).
L’isolamento forzato di questi mesi sicuramente avrà pesato su ognuno di
noi con incidenze diverse; vero è però che forse tutti quanti ci siamo
trovati a fare i conti con la mancanza delle relazioni umane,
fondamentali quali ‘trama’ e ‘ordito’ del tessuto della nostra
convivenza sociale.
In compagnia di Saverio Manetti questo tempo di
‘silenzio vuoto’ è stato meno pesante e anzi avere a che fare con uno
studioso del suo calibro ha contribuito in modo sostanziale a riempire
gli spazi dell’isolamento e l’impegno a studiare ciò che egli compilò
magistralmente a metà del ‘700, Delle specie diverse di frumento e di pane siccome della panizzazione, è stato uno stimolo e una forma di sana risposta razionale alle incertezze del momento.
I vari rapporti periodicamente pubblicati dall’International Panel on Climate Change (IPPC) e la corposa letteratura scientifica forniscono dettagli sulla prova fisica del cambiamento climatico: a livello del terreno, nell'aria, negli oceani. Il riscaldamento globale è, infatti, "inequivocabile", con “buona pace” (ma in questo caso sarebbe meglio parlare di “cattiva pace”) dei negazionisti.
La filiera bovina da carne è considerata tra quelle a maggiore impatto
nel panorama della sostenibilità ambientale. Le accuse di produrre i
massimi impatti in termini di gas climalteranti e di consumo di acqua
spinge i media a raccomandare la forte riduzione del consumo, o
addirittura, la sostituzione di queste carni. L’adunanza dell’Accademia
dei Georgofili dedicata a questo delicato tema ha voluto riportare il
dibattito nella giusta sede scientifica e tecnologica, mettendo in luce
quanto oggi conosciamo sui reali impatti delle filiere bovine da carne
italiane sull’ambiente, evidenziare le buone prassi di allevamento già
in essere mirate al miglioramento della sostenibilità e indicare gli
sviluppi futuri che la ricerca in atto fa intravedere.
Il primo degli
argomenti trattati, quello della metrica della sostenibilità, cioè cosa
si misura e come si misura, ha consentito di illustrare i principali
sistemi di valutazione dell’impatto ambientale della produzione di
carne, con riferimento alle normative e agli standard internazionali.
Sono emerse le principali criticità legate all’applicazione di tali
sistemi e la necessità di una maggiore uniformità nell’applicazione
degli standard, onde evitare l’estrema variabilità delle stime ad oggi
disponibili relativamente all’impronta di carbonio degli allevamenti. In
tal senso, l’applicazione di metodologie che consentano di ponderare
adeguatamente il ruolo attivo degli allevamenti nell’assorbimento del
carbonio e il peso relativo delle diverse fonti di carbonio in funzione
della durata della loro emivita nell’atmosfera, rappresenterebbe un
sicuro passo in avanti verso una maggiore uniformità di valutazione.