Giovanni Paolo Martelli è stato lo Scienziato che ha dedicato la sua vita di studioso ai virus delle piante, un gentiluomo e un grande Maestro. Tra i fondatori della scuola barese di patologia vegetale era conosciuto e stimato in Italia e all’estero. Ha dedicato la sua vita di studioso alla salute delle piante, un tema molto sentito dall’opinione pubblica, fonte di alimenti per la sopravvivenza dell’umanità. Il Professore, stimato anche dai virologi che si interessano della salute umana, ha lavorato in silenzio per decenni con risultati straordinari. Con l’inizio di questo anno ci ha lasciati ,in un momento in cui un nuovo terribile invisibile virus diveniva una grave sciagura per l’intera umanità, purtroppo senza un suo cospicuo contributo per sconfiggerlo.
Davvero bella iniziativa quella della Società Italiana di Scienza del
Suolo di realizzare un libro, curato dai colleghi Paola Adamo, Gian
Franco Capra, Andrea Vacca e Gilmo Vianello e pubblicato dalla Casa
Editrice Edizioni Dell’Orso, in cui sono raccolti, regione per regione, i
proverbi legati più direttamente al suolo nei rispettivi dialetti.
Il
nostro Paese ha avuto da sempre una forte vocazione agricola e, pur
nella sua evoluzione, ha sempre tenuto viva la tradizione e coltivato la
sua storia. In questa ottica si trovano quindi miriadi di proverbi e
modi di dire risalenti anche a tempi lontanissimi e che riguardano
l’agricoltura in generale, da quelli legati agli andamenti
meteorologici, alle colture e ai raccolti.
L’Union of European Academies for Sciences applied to Agriculture, Food
and Nature (UEAA) ha predisposto una lettera aperta sul tema “COVID-19
and Agriculture for Food and Nutrition Security” indirizzata alle
Nazioni Unite, al G-20 e ai Governi Nazionali. La lettera mette in
evidenza che mentre la pandemia di COVID19 sta rappresentando una grave
crisi di salute pubblica mondiale, anche i sistemi agro-alimentari di
tutto il mondo sono fortemente colpiti.
È una delle aree geografiche con le più alte aspettative di vita al
mondo e mostra statistiche sanitarie al top per una molteplicità di
patologie. Eppure la provincia di Treviso, patria del Prosecco, è una
delle più battagliate del Belpaese a causa degli agrofarmaci utilizzati
in viticoltura. Se da un lato il successo delle bollicine trevigiane ha
portato crescita economica e reputazionale, dall'altro ha infatti
inasprito le tensioni fra cittadinanza e viticoltori, accusati questi
ultimi di avvelenare il territorio.
Non tutti i virus sono nostri cattivi nemici come il Coronavirus
tristemente famoso, responsabile della Covid-19, che chissà quando ci
permetterà di tornare alla nostra vita di tutti i giorni. Ci sono anche
dei virus che non se la prendono con gli animali, ma solamente con
batteri specifici. Sono i virus batteriofagi. Se i batteri bersaglio dei
batteriofagi sono patogeni per noi e per i nostri animali, come ad
esempio i Clostridi o i Campylobacter, i batteriofagi ce ne liberano a
tutto nostro vantaggio.
Come ho già scritto in una nota pubblicata su questa rubrica nel maggio 2019 (http://www.georgofili.info/contenuti/risultato/12385),
il problema dell’inquinamento ambientale legato alla coltura della vite
è molto sentito in Europa, e la ricerca è ancora oggi prevalentemente
orientata a ridurre l’uso dei fitofarmaci attraverso la creazione di
nuove varietà, ottenute da incroci tra la vite europea e varie specie di
vite non europee, dotate di resistenza alle malattie fungine.
Questa
linea di indagine, perseguita da varie Istituzioni sperimentali, ha
portato nel 2015 all’iscrizione nel nostro registro varietale di 10
nuovi vitigni ibridi da vino bianchi (B.) e neri (N.), ottenuti in
Italia dall’Università di Udine con la collaborazione dell’Istituto di
Genomica Applicata e dei Vivai Cooperativi Rauscedo. Tali vitigni hanno
avuto origine da incroci tra viti americane ed asiatiche, a loro volta
incrociati con varietà di origine francese, ed è noto che mentre a tre
di essi i Costitutori hanno attribuito nomi completamente nuovi
(Fleurtai, B., Soreli, B. e Julius, N.), agli altri sono stati assegnati
i nomi del genitore europeo, integrato da un aggettivo di fantasia
(Cabernet Eidos, N., Cabernet Volos, N., Merlot Kanthus, N., Merlot
Khorus, N., Sauvignon Kretos, B., Sauvignon Nepis, B. e Sauvignon Rytos,
B.).I vitigni dell’Università di Udine stanno avendo una buona
diffusione nelle regioni in cui sono ammessi alla coltura
(Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige, Veneto e Lombardia), dove
le loro qualità si stanno rivelando di ottimo livello anche sotto il
profilo della gestione sanitaria, che richiede solo 2-3 trattamenti
annui per la difesa anticrittogamica contro i 12-15 necessari per le
varietà di Vitis vinifera.
Premesso quanto sopra, è evidente
che in generale i vitigni ibridi di ultima generazione, prodotti in
Italia o in altri Paesi, possono essere un mezzo importante per rendere
più sostenibile la viticoltura, ma per alcuni di essi non si può
dimenticare il problema legato alla denominazione, poiché utilizzare un
vitigno derivato da ibridazione interspecifica che abbia il nome del
genitore “noto” può illudere i viticoltori che la varietà “resistente”
sia identica a quella “originale”.
Il problema è molto presente in
Francia perché, oltre a quelli italiani, molti ibridi prodotti nel
Centro-Nord Europa (Svizzera, Austria, Germania ed Ungheria) hanno
utilizzato nomi che richiamano i vitigni francesi usati nell’incrocio e
tali nomi, oltre a creare equivoci, “disturbano” l’immagine
“tradizionale” della viticoltura d’oltralpe.
Gli inglesi parlerebbero di boring, ma prossimo a diventare annoying,
con riferimento al tema della connessione Covid 19, disastri ecologici
e, questo non deve mai mancare, agricoltura intensiva. Comunque, bene ha
fatto “Georgofili Info” a riprendere l’articolo da Repubblica dell’11
maggio (http://www.georgofili.info/contenuti/la-deforestazione-aumenta-il-rischio-di-nuove-pandemie/15023);
esso infatti, mi consente di esprimere, con la necessaria fermezza, una
serie di puntualizzazioni su questo malvezzo di riferire ogni disgrazia
umana alla deforestazione e all’agricoltura (specie se intensiva).
In
primo luogo, i rischi da virus “mantenuti in vita” da animali selvatici
sono reali, ma hanno ben poco in comune con la deforestazione, semmai
col fatto che sempre più vengono facilitati gli scambi con i mercati umidi (specie
in Cina e, guarda caso da lì è venuto il SARS-CoV-2, non dal Brasile) e
con i fenomeni turistici più o meno estremi nelle aree naturali, cui –
ovviamente – si aggiunge la facilità di diffusione legata alla
globalizzazione (come constatiamo ogni giorno in agricoltura con le
forme aliene). Per favore, si legga al riguardo “Predicting wildlife
reservoirs and global vulnerability to zoonotic Flaviviruses” di P.
Pandit et al. (2018) su Nature Communications.
In
secondo luogo, pur senza negare un ruolo agli squilibri ambientali, ci
si deve render conto che le pandemie non si evitano “bloccando nelle
foreste i virus”; anche perché le popolazioni locali fanno “man bassa”
di quanto le foreste offrono: quante scimmie ed “altro” affumicati sui
banchetti del mercato di Kabinda (RD Congo), dove vado spesso, e quanti
turisti arrivano in simili località. Piuttosto ascoltiamo gli esperti e
non i presunti tali; essi dicono che vi è la necessità di controlli
sanitari per l’identificazione precoce di nuovi patogeni potenzialmente
zoonosici nelle popolazioni di animali selvatici, al fine di prevedere
interventi tempestivi (Jones et al, 2008, Global trends in emerging infectious diseases, Nature);
concetto confermato con parole analoghe da UNEP Frontiers 2016 Report
Emerging Issues of Environmental Concern nel capitolo delle zoonosi.
Topi, pipistrelli, serpenti, insetti e altri artropodi sono gli animali che, più degli altri, suscitano in molti un’irrazionale e persistente paura e repulsione. Singolare è quella nei confronti del Colubro leopardiano, Zamenis situla, ritenuto il più bel serpente d’Italia per la sua elegante livrea; il rettile che afferisce alla famiglia Colubridae, nella Magna Grecia, veniva considerato sacro ad Asclepio dio della medicina, delle guarigioni e dei serpenti, ed era venerato, nei santuari dedicati al dio.
Numerosa è la bibliografia sulla pasta, un alimento insostituibile dell’intera popolazione italiana, un’identità collettiva, uno stereotipo accettato con naturalezza da una comunità nazionale, un cibo che ha travalicato i confini del nostro paese. Non molte sono le ricerche storiche e sociologiche ben documentate e approfondite su questo alimento e oggi questa lacuna è colmata dal bel libro Il Paese dei Maccheroni. Storia sociale della pasta (Donzelli Editore, Roma, 2019) di Alberto De Bernardi Professore Ordinario di Storia Contemporanea dell’Università di Bologna e dal quale si possono trarre molte considerazioni.
Nonostante i forti temporali che hanno interessato il nord Italia nella
prima metà di maggio, con i conseguenti locali eventi alluvionali,
stiamo vivendo la primavera più secca degli ultimi 60 anni. Da gennaio
ad oggi il nostro Paese ha ricevuto poco più della metà della pioggia
che dovrebbe cadere normalmente.
In effetti l'Italia è un paese che
presenta criticità sia per carenza che per eccesso idrico. Sebbene la
maggior parte del suo territorio sia interessata da un deficit idrico
più o meno accentuato, non mancano aree caratterizzate da un elevato
surplus. Da secoli la nostra agricoltura intensiva si è avvalsa di una
opportuna gestione delle risorse idriche ai fini irrigui e la raccolta e
conservazione delle acque meteoriche è una pratica diffusa e anche
molto sofisticata, tanto che attualmente in Italia ci sono circa 8.350
dighe che raccolgono 13 miliardi di metri cubi di acqua.
Se la
carenza d'acqua è da sempre un importante fattore che limita la
produzione agricola e zootecnica in Italia, si stima che la sua
incidenza dovrebbe aumentare con il cambiamento climatico, che si
prevede particolarmente negativo nell'Europa meridionale. Secondo
l'IPCC, le aree del Mediterraneo rischiano di subire temperature più
elevate, maggiore variabilità delle precipitazioni e maggiore frequenza
di eventi estremi. Si prevede che nel complesso le precipitazioni
saranno più irregolari, con prolungati periodi di siccità associati a
precipitazioni di forte intensità, proprio come in questa primavera, che
ne aumenteranno l’erosività per il suolo.
L’art. 15 del d.l. 23/2020 ha previsto modifiche significative alla
disciplina della Golden Power con l’estensione al settore
agroalimentare, coerentemente con le previsioni dell’art. 4, par. 1,
lett. c, del Reg. (UE) 2019/452. E’ questa una novità di certo rilievo
che riflette la volontà del legislatore italiano di accordare al settore
agroalimentare questo particolare regime di protezione, già previsto
per altri settori strategici per gli interessi nazionali (i.e. difesa,
trasporti, telecomunicazioni, energia), in caso di acquisizione o di
investimenti su aziende italiane da parte di soggetti stranieri.
Pur
condividendo la necessità di proteggere questo settore, strategico per
definizione in ragione dell’attività di produzione di alimenti, che si
fonda sull’agricoltura, e fortemente radicato nel nostro Paese con un
peso rilevante in termini di produzione ed export, non si possono non
sollevare interrogativi e criticità della norma, e ancor più auspici per
i successivi interventi legislativi.
La Golden Power,
originariamente prevista dal d.l. 21/2012, impone di seguire una
procedura di notifiche e di scambio di informazioni sull’operazione con
il Governo, e riconosce al Governo stesso particolari poteri di veto in
caso di acquisito di partecipazioni societarie o di aziende o rami di
aziende, oppure per impedire l'adozione di determinate delibere
societarie, atti e operazioni da parte di soggetti stranieri. Timori
accresciuti maggiormente dall’epidemia di Covid-19 e dagli effetti
economici che si riversano sulle aziende italiane indebolendole
ulteriormente ed esponendole ad operazioni speculative da parte di
società o fondi stranieri, talvolta anche a partecipazione statale.
Visto
il quadro attuale, Il d.l. 23/2020 ha infatti ampliato i poteri di
controllo del Governo, potendo questi essere ora esercitati anche su
operazioni intra-europee e su acquisizioni di quote di minoranza, oltre
che poter essere attivati d’ufficio e persino in caso di mancata
notifica. Quest’ultima deve essere effettuata a seguito di una specifica
procedura ed entro un termine limitato dalla sottoscrizione di atti e
contratti e, in ogni caso, prima dell'esecuzione della relativa
transazione ovvero dalla delibera da parte della società. Gli atti
compiuti in violazione di tali indicazioni o nel mancato rispetto di
tale procedura sono nulli. Nella maggior parte dei casi è altresì
prevista una sanzione amministrativa, il cui valore è pari al doppio del
valore dell’operazione e comunque non inferiore all’1% del fatturato
relativo all’ultimo bilancio depositato dall’impresa, oltre che una
serie di misure accessorie.
Dopo tante previsioni formulate nei mesi scorsi sulle conseguenze economiche della crisi provocata dalla Covid-19, diverse ma concordi su un calo record del Pil, nella prima settimana di maggio l’Istat ha reso nota la stima sull’andamento dell’economia nel primo trimestre 2020. Come era logico attendersi il calo calcolato su dati reali è consistente e pari al 4,7% rispetto allo stesso periodo del 2019 ed al 4,8% sull’ultimo trimestre 2019. Su base annua giungerebbe al 4,9%. L’andamento risente del rallentamento degli ultimi 2019 e della dinamica di marzo, con il blocco totale, rispetto a gennaio e febbraio. Il dato relativo all’Ue si traduce in una contrazione del 3,8%.
Leggo con un po’ di fastidio data la pochezza di argomentazioni scientifiche un articolo di Donatello Sandroni sul rapporto tra agricoltura e televisione pubblicato da Georgofili INFO (http://www.georgofili.info/contenuti/televisione-e-agricoltura-fra-narrazione-e-realt/15003). Ritengo perciò doveroso esprimere, con tutto il rispetto, un diverso parere.
Tutte le conoscenze e tecnologie genetiche applicate alle piante
coltivate dal 1900 ad oggi sono state capaci di far progredire
l’agricoltura e continuano a far parte della cassetta degli attrezzi dei
genetisti agrari.
La SIGA ha sostenuto con continuità e coerenza
l’adozione delle piante transgeniche (impropriamente dette OGM) in
agricoltura, basandosi sulla solidità dell’evidenza scientifica. Lo ha
fatto per più di 20 anni, senza temere di andare, a volte,
controcorrente rispetto ai sentimenti dell’opinione pubblica e della
politica italiana e europea, dialogando costantemente con l’una e con
l’altra in ogni possibile occasione. Come Presidente della Società tengo
a ribadire che questa posizione, che ho sempre sostenuto anche
personalmente, non è cambiata e che la Società continua a ritenere che
sia stato un errore grave e dannoso per l’agricoltura italiana ed
europea aver impedito l’impiego di OGM per scelte politiche. Chi
analizza i fatti senza pregiudizi ideologici non può non rilevare come
la transgenesi abbia consentito di sviluppare varietà di grande
successo, quali ad esempio il mais Bt resistente alla piralide, il cui
divieto di coltivazione in Italia, perché transgenico, ha penalizzato e
continua a penalizzare molti agricoltori italiani.
La necessità di
ribadire con forza queste convinzioni deriva da una mia nota apparsa nel
Notiziario dell’Accademia dei Georgofili lo scorso 29 Aprile che, a
causa di un titolo probabilmente eccessivamente provocatorio, ha dato
l’impressione che volessi disconoscere gli indubbi meriti dell’approccio
transgenico. Al contrario, volevo manifestare la necessità di evitare
che le nuove tecnologie di evoluzione assistita – TEA –, che si stanno
proponendo come potenzialmente rivoluzionarie nel miglioramento genetico
dell’immediato futuro, non subiscano l’ostracismo di cui sono stati
oggetto gli OGM.
In un suo recente intervento (www.georgofili.info/contenuti/biotecnologie-e-miglioramento-genetico-riuscir-il-genome-editing-dove-hanno-fallito-gli-ogm/14970),
il prof. Mario Enrico Pè dichiara il “sostanziale fallimento degli OGM
in agricoltura”, adducendo alcuni argomenti logicamente ed empiricamente
insostenibili.
La radicale affermazione è che “di fallimento si
tratta, nonostante i milioni di ettari coltivati nel mondo con OGM.” Se
le parole hanno un senso, “fallimento” significa fallimento: non ci
verrà rimproverato se usiamo una mera tautologia, perché ci sembrerebbe
offensivo per qualsiasi lettore trascrivere una definizione da un
dizionario. La bizzarra proposizione che unisce la nozione di
“fallimento” con la diffusione mondiale della tecnologia (solo dove è
permessa, benché non manchino casi di vendite sottobanco e contrabbando
di sementi transgeniche dove sono proibite) ha già costretto qualche
commentatore ad acrobazie semantiche, con espressioni tipo “fallimento
di successo” (www.stradeonline.it/scienza-e-razionalita/4208-un-fallimento-di-successo#).
L’autore
rileva che “le varietà OGM di successo si limitano all’introduzione di
un numero di caratteri che si può contare sulle dita di una mano. Un
risultato ben magro per una tecnologia che si proponeva di rivoluzionare
il modo di fare miglioramento genetico.“ E’ vero. Non poteva essere
altrimenti, visto che la regolamentazione anti-scientifica (Ammann 2014)
adottata in molti paesi, in particolare in Europa, e ancor più in
Italia, ha imposto agli sviluppatori dei cosiddetti “OGM” – acronimo
senza senso, non dimentichiamolo: un ingannevole e tendenzioso meme
virale, non un concetto – irragionevoli carichi burocratici e
asfissianti restrizioni alla sperimentazione delle colture transgeniche:
generando così un oligopolio dovuto al fatto che solo multinazionali
con le spalle finanziariamente larghe possono sostenere i costi connessi
(Miller e Conko 2003) – aziende che, ovviamente, hanno puntato solo sui
tratti commercialmente più redditizi (soprattutto resistenza agli
insetti e tolleranza agli erbicidi).
Quindi, dire che “il loro
fallimento sia dipeso in buona parte anche dall’incapacità di questa
tecnologia di proporre quella gamma di caratteristiche ‘migliori’
necessarie a rendere fortemente desiderabili le piante OGM anche al di
fuori dell’agricoltura intensiva” è scorretto: non si tratta di
“incapacità della tecnologia”, ma di camicia di forza legalistica
imposta (non dappertutto) a chi quella tecnologia voleva svilupparla.