Notiziario










Siccità, alluvioni ed erosione del suolo

Nonostante i forti temporali che hanno interessato il nord Italia nella prima metà di maggio, con i conseguenti locali eventi alluvionali, stiamo vivendo la primavera più secca degli ultimi 60 anni. Da gennaio ad oggi il nostro Paese ha ricevuto poco più della metà della pioggia che dovrebbe cadere normalmente.
In effetti l'Italia è un paese che presenta criticità sia per carenza che per eccesso idrico. Sebbene la maggior parte del suo territorio sia interessata da un deficit idrico più o meno accentuato, non mancano aree caratterizzate da un elevato surplus. Da secoli la nostra agricoltura intensiva si è avvalsa di una opportuna gestione delle risorse idriche ai fini irrigui e la raccolta e conservazione delle acque meteoriche è una pratica diffusa e anche molto sofisticata, tanto che attualmente in Italia ci sono circa 8.350 dighe che raccolgono 13 miliardi di metri cubi di acqua.
Se la carenza d'acqua è da sempre un importante fattore che limita la produzione agricola e zootecnica in Italia, si stima che la sua incidenza dovrebbe aumentare con il cambiamento climatico, che si prevede particolarmente negativo nell'Europa meridionale. Secondo l'IPCC, le aree del Mediterraneo rischiano di subire temperature più elevate, maggiore variabilità delle precipitazioni e maggiore frequenza di eventi estremi. Si prevede che nel complesso le precipitazioni saranno più irregolari, con prolungati periodi di siccità associati a precipitazioni di forte intensità, proprio come in questa primavera, che ne aumenteranno l’erosività per il suolo.

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La Golden Power nel settore agroalimentare

L’art. 15 del d.l. 23/2020 ha previsto modifiche significative alla disciplina della Golden Power con l’estensione al settore agroalimentare, coerentemente con le previsioni dell’art. 4, par. 1, lett. c, del Reg. (UE) 2019/452. E’ questa una novità di certo rilievo che riflette la volontà del legislatore italiano di accordare al settore agroalimentare questo particolare regime di protezione, già previsto per altri settori strategici per gli interessi nazionali (i.e. difesa, trasporti, telecomunicazioni, energia), in caso di acquisizione o di investimenti su aziende italiane da parte di soggetti stranieri.
Pur condividendo la necessità di proteggere questo settore, strategico per definizione in ragione dell’attività di produzione di alimenti, che si fonda sull’agricoltura, e fortemente radicato nel nostro Paese con un peso rilevante in termini di produzione ed export, non si possono non sollevare interrogativi e criticità della norma, e ancor più auspici per i successivi interventi legislativi.
La Golden Power, originariamente prevista dal d.l. 21/2012, impone di seguire una procedura di notifiche e di scambio di informazioni sull’operazione con il Governo, e riconosce al Governo stesso particolari poteri di veto in caso di acquisito di partecipazioni societarie o di aziende o rami di aziende, oppure per impedire l'adozione di determinate delibere societarie, atti e operazioni da parte di soggetti stranieri. Timori accresciuti maggiormente dall’epidemia di Covid-19 e dagli effetti economici che si riversano sulle aziende italiane indebolendole ulteriormente ed esponendole ad operazioni speculative da parte di società o fondi stranieri, talvolta anche a partecipazione statale.
Visto il quadro attuale, Il d.l. 23/2020 ha infatti ampliato i poteri di controllo del Governo, potendo questi essere ora esercitati anche su operazioni intra-europee e su acquisizioni di quote di minoranza, oltre che poter essere attivati d’ufficio e persino in caso di mancata notifica. Quest’ultima deve essere effettuata a seguito di una specifica procedura ed entro un termine limitato dalla sottoscrizione di atti e contratti e, in ogni caso, prima dell'esecuzione della relativa transazione ovvero dalla delibera da parte della società. Gli atti compiuti in violazione di tali indicazioni o nel mancato rispetto di tale procedura sono nulli. Nella maggior parte dei casi è altresì prevista una sanzione amministrativa, il cui valore è pari al doppio del valore dell’operazione e comunque non inferiore all’1% del fatturato relativo all’ultimo bilancio depositato dall’impresa, oltre che una serie di misure accessorie.

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L’economia al tempo della pandemia: il vincolo burocrazia

Dopo tante previsioni formulate nei mesi scorsi sulle conseguenze economiche della crisi provocata dalla Covid-19, diverse ma concordi su un calo record del Pil,  nella prima settimana di maggio l’Istat ha reso nota la stima sull’andamento dell’economia nel primo trimestre 2020. Come era logico attendersi il calo calcolato su dati reali è consistente e pari al 4,7% rispetto allo stesso periodo del 2019 ed al 4,8% sull’ultimo trimestre 2019. Su base annua giungerebbe al 4,9%. L’andamento risente del rallentamento degli ultimi 2019 e della dinamica di marzo, con il blocco totale, rispetto a gennaio e febbraio. Il dato relativo all’Ue si traduce in una contrazione del 3,8%.

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La buona televisione. E il valore aggiunto agricolo

Leggo con un po’ di fastidio data la pochezza di argomentazioni scientifiche un articolo di Donatello Sandroni sul rapporto tra agricoltura e televisione pubblicato da Georgofili INFO (http://www.georgofili.info/contenuti/televisione-e-agricoltura-fra-narrazione-e-realt/15003). Ritengo perciò doveroso esprimere, con tutto il rispetto, un diverso parere.

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Nessuna abiura nei confronti degli OGM, ma uno sguardo al futuro

Tutte le conoscenze e tecnologie genetiche applicate alle piante coltivate dal 1900 ad oggi sono state capaci di far progredire l’agricoltura e continuano a far parte della cassetta degli attrezzi dei genetisti agrari.
La SIGA ha sostenuto con continuità e coerenza l’adozione delle piante transgeniche (impropriamente dette OGM) in agricoltura, basandosi sulla solidità dell’evidenza scientifica. Lo ha fatto per più di 20 anni, senza temere di andare, a volte, controcorrente rispetto ai sentimenti dell’opinione pubblica e della politica italiana e europea, dialogando costantemente con l’una e con l’altra in ogni possibile occasione. Come Presidente della Società tengo a ribadire che questa posizione, che ho sempre sostenuto anche personalmente, non è cambiata e che la Società continua a ritenere che sia stato un errore grave e dannoso per l’agricoltura italiana ed europea aver impedito l’impiego di OGM per scelte politiche. Chi analizza i fatti senza pregiudizi ideologici non può non rilevare come la transgenesi abbia consentito di sviluppare varietà di grande successo, quali ad esempio il mais Bt resistente alla piralide, il cui divieto di coltivazione in Italia, perché transgenico, ha penalizzato e continua a penalizzare molti agricoltori italiani.
La necessità di ribadire con forza queste convinzioni deriva da una mia nota apparsa nel Notiziario dell’Accademia dei Georgofili lo scorso 29 Aprile che, a causa di un titolo probabilmente eccessivamente provocatorio, ha dato l’impressione che volessi disconoscere gli indubbi meriti dell’approccio transgenico. Al contrario, volevo manifestare la necessità di evitare che le nuove tecnologie di evoluzione assistita – TEA –, che si stanno proponendo come potenzialmente rivoluzionarie nel miglioramento genetico dell’immediato futuro, non subiscano l’ostracismo di cui sono stati oggetto gli OGM.

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“OGM” “fallimentari”? Parole e fatti

In un suo recente intervento (www.georgofili.info/contenuti/biotecnologie-e-miglioramento-genetico-riuscir-il-genome-editing-dove-hanno-fallito-gli-ogm/14970), il prof. Mario Enrico Pè dichiara il “sostanziale fallimento degli OGM in agricoltura”, adducendo alcuni argomenti logicamente ed empiricamente insostenibili.
La radicale affermazione è che “di fallimento si tratta, nonostante i milioni di ettari coltivati nel mondo con OGM.” Se le parole hanno un senso, “fallimento” significa fallimento: non ci verrà rimproverato se usiamo una mera tautologia, perché ci sembrerebbe offensivo per qualsiasi lettore trascrivere una definizione da un dizionario. La bizzarra proposizione che unisce la nozione di “fallimento” con la diffusione mondiale della tecnologia (solo dove è permessa, benché non manchino casi di vendite sottobanco e contrabbando di sementi transgeniche dove sono proibite) ha già costretto qualche commentatore ad acrobazie semantiche, con espressioni tipo “fallimento di successo” (www.stradeonline.it/scienza-e-razionalita/4208-un-fallimento-di-successo#).
L’autore rileva che “le varietà OGM di successo si limitano all’introduzione di un numero di caratteri che si può contare sulle dita di una mano. Un risultato ben magro per una tecnologia che si proponeva di rivoluzionare il modo di fare miglioramento genetico.“ E’ vero. Non poteva essere altrimenti, visto che la regolamentazione anti-scientifica (Ammann 2014) adottata in molti paesi, in particolare in Europa, e ancor più in Italia, ha imposto agli sviluppatori dei cosiddetti “OGM” – acronimo senza senso, non dimentichiamolo: un ingannevole e tendenzioso meme virale, non un concetto – irragionevoli carichi burocratici e asfissianti restrizioni alla sperimentazione delle colture transgeniche: generando così un oligopolio dovuto al fatto che solo multinazionali con le spalle finanziariamente larghe possono sostenere i costi connessi (Miller e Conko 2003) – aziende che, ovviamente, hanno puntato solo sui tratti commercialmente più redditizi (soprattutto resistenza agli insetti e tolleranza agli erbicidi).
Quindi, dire che “il loro fallimento sia dipeso in buona parte anche dall’incapacità di questa tecnologia di proporre quella gamma di caratteristiche ‘migliori’ necessarie a rendere fortemente desiderabili le piante OGM anche al di fuori dell’agricoltura intensiva” è scorretto: non si tratta di “incapacità della tecnologia”, ma di camicia di forza legalistica imposta (non dappertutto) a chi quella tecnologia voleva svilupparla.

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Zuppa Inglese, invenzione italiana

Un tormentone da tempo agita la gastronomia italiana, quello dell’origine e della denominazione della zuppa inglese, un dolce al cucchiaio a base di pan di Spagna, imbevuto di liquori quali l'alchermes o il rosolio, con crema pasticcera, spesso con aggiunta di cioccolata. Molte sono le leggende, favole e dicerie riguardanti la zuppa inglese, tutte prive di solide documentazioni. Secondo una prima leggenda, la preparazione nasce nel XVI secolo presso la corte Estense, quale rielaborazione del trifle, dolce anglosassone di pasta lievitata, bagna alcolica, panna, confetture e biscotti e che un diplomatico della casa reale inglese avrebbe stata portata a Ferrara dove sarebbe stata modificata sostituendo la pasta di pane con una ciambella morbida e in seguito ingentilita usando pan di Spagna e poi biscotti savoiardi, crema pasticcera e cioccolata.

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Come sarà il “dopo Covid-19”?

La reclusione domiciliare di questi mesi mi ha permesso di intensificare l’attività di aggiornamento tecnico-scientifico sui possibili collegamenti fra zootecnia, gas serra e riscaldamento globale e, ultimamente, sulla possibile responsabilità del particolato PM10 nei riguardi della diffusione del Coronavirus. E ciò che emerge dalla letteratura mi spinge ad alcune considerazioni, non proprio ottimistiche sul nostro futuro.

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Non solo Covid-19: l’inquinamento contribuirebbe anche alle patologie neuro-degenerative

La demenza, che comprende sia la demenza vascolare sia il morbo di Alzheimer, è la settima causa di morte in tutto il mondo (i decessi dovuti a demenza sono più che raddoppiati tra il 2000 e il 2015) tanto da arrivare a essere, nel 2018, una malattia da mille miliardi di dollari (totale mondiale di costi diretti) per la quale non esiste ancora una vera e propria cura. Pertanto, la prevenzione primaria di tutte le forme di demenza è una delle principali preoccupazioni globali per la salute pubblica e lo sarà ancora di più nei prossimi decenni.
Per il morbo di Alzheimer, la ricerca ha indagato l’influenza dello stile di vita precedente e i risultati hanno stimato che circa un terzo delle forme con cui si manifesta potrebbe essere attribuibile a fattori di rischio potenzialmente modificabili come il fumo e l'inattività fisica.
Più recentemente la ricerca si è estesa anche sul rapporto fra fattori di rischio ambientale e demenza e un'ampia revisione sistematica degli studi condotti ha evidenziato prove moderate di un'associazione con otto diversi fattori tra cui l'inquinamento atmosferico e la neurodegenerazione e sono quindi necessarie ulteriori ricerche per chiarire del tutto questi aspetti.
Mentre l'inquinamento atmosferico è un fattore di rischio consolidato per le malattie cardiovascolari e respiratorie, il suo ruolo in relazione alla demenza è, infatti, molto meno considerato e compreso. Una recente ricerca pubblicata su Environmental Health (vedi bibliografia) ha associato la vicinanza dell'abitazione a una strada trafficata all'incidenza di demenza non-Alzheimer, morbo di Parkinson, morbo di Alzheimer e sclerosi multipla. Lo stesso lavoro ha mostrato alcuni effetti positivi del verde nei riguardi dell'incidenza della patologia.

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L'economia della pandemia tra speculazioni e monopoli di Stato

Ancora non si sa quando finirà l’emergenza Covid-19 e quali saranno le conseguenze. L’incertezza  e la percezione di un ignoto che spaventa induce a subire  anche ciò che altrimenti sarebbe inaccettabile. Gli esempi non mancano, vediamone due: l’assalto a farina e pasta e  la vicenda delle mascherine.
Quando si profilava la chiusura quasi generalizzata di ogni attività, tranne di quelle necessarie a salute ed alimentazione, si verificò un vero e proprio “assalto” all’acquisto di alimentari. L’istinto di sopravvivenza riemergeva da un remoto passato e spingeva a un comportamento compulsivo nel ricordo del tempo di guerra. Significativamente la lotta al virus è definita enfaticamente “una guerra”. La paura della carestia, descritta da Manzoni in tutti i suoi effetti anche economici, spingeva a scegliere alimenti conservabili come farina, pasta, scatolame, zucchero, sale e l’ortofrutta meno deperibile. Nelle prime settimane roventi la spesa è salita del 28% per poi arretrare al 18%. Tantissimo in tempi normali, ma non abbastanza per compensare il crollo di domanda della ristorazione. Il cibo non è mai mancato, se non per ragioni logistiche, i prezzi sono saliti per i derivati del frumento, le conserve in scatola, mele, patate e carote. Il caso del frumento è stato enfatizzato, anche se l’effetto  su pane e pasta si è sentito poco. Il prezzo del grano tenero in poche settimane è tornato circa ai livelli precedenti, la farina stentava a comparire sugli scaffali per ragioni pratiche, mentre il duro, in salita già a fine 2019, ha proseguito il suo movimento che sembra essersi fermato nelle due prime settimane di maggio. Massimi sui 309-310 €/tonn., superiori agli ultimi due anni, ma inferiori a quelli precedenti. La produzione italiana di grano da tempo non soddisfa la domanda interna che si è rivolta alle importazioni condizionate oggi da problemi logistici dovuti anche ai blocchi degli scambi. La produzione mondiale, le previsioni sui raccolti dell’annata, la prevista debolezza della domanda post crisi e  le dimensioni rassicuranti degli stock hanno frenato le spinte al rialzo. Per il grano, dopo i primi sussulti  più emotivi che razionali,  prevalgono logiche di mercato e prezzi di poco superiori agli ultimi anni, ma inferiori ad esempio a quelli del 2015, in un clima di reazione composta.

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Lo scarto alimentare può diventare mangime per animali

Secondo uno studio condotto dalla FAO nel 2011, intitolato Global Food Losses and Food Waste, ogni anno, nel mondo, vengono sprecati circa 1,3 miliardi di tonnellate di cibo di cui l’80% ancora consumabile e solo il 43% dell’equivalente calorico dei prodotti coltivati a scopo alimentare umano a livello globale viene effettivamente consumato. Le tonnellate di cibo che vengono sprecate nei soli Paesi industrializzati sono circa 250 milioni. Una cifra che, da sola, sarebbe sufficiente a sfamare l’intera popolazione dell’Africa Subsahariana!
Nel nostro Paese, nella spazzatura finiscono 700 grammi di cibo pro capite a settimana, quasi l’uno per cento del prodotto interno lordo (progetto “Reduce”, 2019).
Da più parti si avanzano proposte per “riciclare” quanto viene incoscientemente buttato via con conseguenze negative anche nei riguardi della sostenibilità ambientale, trasformandolo in alimenti per animali.

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È ora il momento di puntare su nuovi paradigmi per tutelare ecosistemi e biodiversità

Il 22 aprile scorso si è svolto il 50° Earth Day e a distanza di un mese, il prossimo 22 maggio, celebreremo la giornata mondiale della biodiversità. Queste date rappresentano un’occasione strategica per sottolineare l’importanza di preservare la Terra, i suoi ecosistemi e la biodiversità da un declino senza precedenti.
In particolare, in un periodo come quello attuale fortemente segnato dalla crisi sanitaria legata al Coronavirus, diventa ancora più importante tutelare le risorse naturali e gli agroecosistemi, preziosa fonte di biodiversità.
Molti approfondimenti di studiosi e di organizzazioni di varia natura indicano la stretta connessione tra le attività dell’uomo e il loro impatto sulla natura come una delle ragioni principali della crisi che stiamo attraversando.
Queste analisi sono basate sui dati di numerosi rapporti a livello internazionale che evidenziano la ricaduta delle diverse attività umane sull’ambiente.
Uno dei più recenti, il rapporto IPBES (Intergovernamental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services dell’ONU) del 2019, fotografa un declino della natura senza precedenti. Dall’indagine emerge infatti che il 75% dell’ambiente terrestre e circa il 66% di quello marino sono stati modificati in modo significativo e che circa 1 milione di specie animali e vegetali rischiano l’estinzione. Circa un ottavo degli 8 milioni di specie presenti sulla Terra è dunque destinato a scomparire a causa delle conseguenze dell’impronta impressa dall’uomo sugli ecosistemi, tra cui urbanizzazione, metodi di sfruttamento delle terre e delle risorse naturali, agricoltura intensiva e uso di pesticidi di sintesi chimica.
Il rapporto evidenzia una rapida accelerazione del tasso di estinzione delle specie, in particolare i vertebrati. Ricerche approfondite rivelano che un terzo delle api e degli insetti è a rischio estinzione.

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Agricoltura sostenibile: serve alleanza tra Università e mondo produttivo

Da settimane, ormai, stiamo vivendo una forzata “reclusione” da coronavirus che se da un lato è molto pesante per le restrizioni che ci impone, dall’altro ci lascia una notevole quantità di tempo per chiederci cosa ci riservi il futuro prossimo in termini di qualità della vita; a noi stessi, ai nostri figli, ai nostri nipoti e alla società tutta, nella nostra città, nel nostro Paese, in Europa e nel mondo intero. Anche io, da vecchio docente di Agronomia, mi sono soffermato più volte a pensare a dove, come e quanto l’agricoltura italiana (o, meglio, le diverse agricolture italiane) avrebbe sofferto della crisi in atto e, di conseguenza, a come si potesse fin da subito approfittare di un “evento” così traumatico per mettere a punto dei nuovi modelli di sviluppo di tutto il comparto agroalimentare.
Come sopra accennato, a tutti i livelli decisionali interessati si dovrà finalmente tener conto del fatto che non c’è e non può esserci “una” sola agricoltura in Italia. In un Paese così “variegato” per le sue caratteristiche naturali, storiche, economiche, sociali - e per la “naturale” diversa potenzialità produttiva - la messa a punto degli specifici modelli di agricoltura “sostenibile” oltre che prevedere gli elementi tecnici ed economici più consoni alle diverse aree agricole (a livello locale) deve proporre con la massima efficacia possibile (e con più contenute difficoltà burocratiche) anche tutti gli interventi esterni a sostegno della produzione primaria e delle filiere produttive locali. In primo luogo, comunque, ritengo non più differibile la messa a punto di una credibile politica di salvaguardia delle nostre aree interne; riconoscendo - una volta per tutte - che in queste aree l’esercizio dell’agricoltura è senz’altro un’attività basilare per realizzare un’adeguata conservazione “attiva” dell’intero territorio. In molti dei comprensori di che trattasi era da tempo apparso evidente che, senza una visione strategica definita sulla base del complesso delle caratteristiche locali (e non solo agronomiche), non saremmo riusciti a frenare il crescente abbandono dell’attività agricola (Terres, 2015). Qualche anno fa, ad esempio, trattando della possibilità di introdurre colture agrarie da biomassa a destinazione energetica nelle aree marginali, in sede di Accademia dei Georgofili sostenni che “qualunque coltura agraria è migliore dell’abbandono anche dal punto di vista ambientale e della conservazione del territorio rurale”. La mia “uscita” non trovò allora tutti d’accordo (a taluni parve che il tutto entrasse troppo in conflitto con la produzione di cibo), ma oggi anche la statistica ufficiale (dal 1971 al 2010 abbiamo perso ben 5 milioni di ettari di SAU dei 18 totali e peggio sarà con il prossimo censimento) ci rammenta l’entità del problema e rende soprattutto evidente che per evitare l’abbandono delle aree coltivate “qualche cosa di più” rispetto al recente passato (ed al presente) lo dobbiamo comunque fare (colture poliennali, zootecnia estensiva, cerealicoltura di qualità, biomasse da energia, agroforestazione, agriturismo, ecc).

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