Notiziario

Consultazione UE per la revisione delle Indicazioni Geografiche: ecco la posizione dei Georgofili

Dal 15 gennaio fino al 9 aprile 2021 è aperta la consultazione pubblica per una “Revisione dei sistemi delle Indicazioni Geografiche (IG) dell’UE per i prodotti agricoli e alimentari e le bevande”.
Con i suoi regimi di qualità – indicazione geografica (IG), denominazioni di origine protette (DOP) , Indicazione Geografica Protetta (IGP) e Specialità Tradizionali Garantite (STG) – l’Unione europea tutela quasi 3.400 nomi di prodotti specifici, tra prodotti agricoli e alimentari, prodotti della pesca e dell’acquacoltura e vini. L’obiettivo della consultazione – spiega la Commissione – è raccogliere opinioni sulle principali sfide individuate che dovrebbero essere affrontate durante questa revisione pianificata.
Già nel novembre 2020 il presidente dell’Accademia  dei Georgofili, Massimo Vincenzini, a seguito di un input giunto dall’Accademico Michele Pasca-Raymondo, Presidente della Sezione Internazionale di Bruxelles e relativo alla apertura di una consultazione pubblica da parte della UE sull’argomento IG, aveva incaricato il Comitato consultivo dei Georgofili sulle Tecnologie Alimentari di predisporre un documento che riflettesse la posizione della Accademia sul processo di revisione in corso presso la UE sulle IG.
Ciò al fine di trasmetterlo in via ufficiale sia alla Commissione Europea che al MIPAAF, quali Organi competenti nelle future decisioni finali, in materia.
Il Comitato consultivo di Tecnologie Alimentari ha di conseguenza subito iniziato la discussione sull’argomento ed in successive numerose riunioni telematiche, con il costante e fattivo apporto da parte di tutti membri,  ha elaborato il seguente documento che sostanzialmente riflette la posizione dell’Accademia, unitamente ad alcuni importanti suggerimenti e indicazioni che, a parere  del Comitato, appaiono di primaria importanza per il nostro Paese e per la UE.

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Le Greenways dopo venti anni dalla loro introduzione in Italia

Il 6 dicembre 2000 si tenne all'Accademia dei Georgofili in Firenze una giornata di studio su: "I percorsi verdi" per la riscoperta e la valorizzazione del territorio rurale. Il tema, per l'Italia, era di recente introduzione e fui felice (e di questo ringrazio l'Accademia), insieme agli altri relatori, di aver contribuito a fare un po' di chiarezza sul significato del termine, le tipologie di percorsi verdi, le esperienze e le proposte di sviluppo.
Da allora il tema si è molto sviluppato, così come le iniziative e le realizzazioni di percorsi in tutta Italia e in Europa, specialmente a livello di recupero di molti tratti di ferrovie dismesse e di realizzazione lungo le vie d'acqua.

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Infezioni epidemiche su colture agrarie: la situazione in Italia

A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, nuove entità fitopatogene si sono diffuse nel nostro Paese in forma epidemica causando gravi danni a colture importanti. Gli interventi di lotta hanno consentito a tutt’oggi di contenere i danni ma con esito più o meno soddisfacente, a seconda dei patogeni coinvolti. Si tratta, in particolare, del virus della ‘Sharka’ o Vaiolatura delle drupacee (Plum pox virus, PPV), del fitoplasma della Flavescenza dorata della vite (Grapevine flavescence dorèe, GFD) e del batterio Xylella fastidiosa (XF) che ha colpito l’olivo.
PPV è un potyvirus (Potyviridae) caratterizzato da particelle filamentose, flessuose, lunghe circa 760 nm, trasmesse da afidi in modo non-persistente. Gli afidi che infestano le drupacee, quali Myzus persicae, Brachycaudus helichrysi, Hyalopterus pruni ne sono i vettori più efficienti e lo sono anche, più raramente, afidi parassiti di altre piante. Il virus è comparso all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso nella provincia di Cuneo diffondendosi in forma epidemica sull’ albicocco, coltivazione allora ampiamente praticata nella zona di Saluzzo, infettando anche peschi e susini. I sintomi su albicocco consistono in maculatura anulare ben evidente e assai tipica (tanto da consentire un primo approccio diagnostico, in pieno campo), clorotica sulle foglie e necrotica sui frutti che sono poi soggetti a cascola prima dell’invaiatura. Le perdite di raccolto sono gravi, molto spesso totali nelle piante giovani e nelle cultivar più suscettibili.
La presenza di GFD è stata segnalata in Italia già nell’ultimo dopoguerra ma la sua espansione epidemica è iniziata dall’Italia nord-orientale negli ultimi decenni del secolo scorso interessando poi rapidamente tutta la Valle Padana e parte dell’Italia centrale. Il fitoplasma associato alla malattia appartiene al gruppo ribosomico 16Sr-V ed è trasmesso dalla cicalina Scaphoideus titanus in modo persistente-propagativo. La distribuzione territoriale del patogeno è strettamente legata a quella dell’insetto vettore tanto che nell’Italia meridionale, dove GFD si riscontra raramente, S.titanus non è insediato in forma stabile malgrado vi sia stato ritrovato in più di un’occasione. Le viti colpite presentano vivace colorazione perinervale o settoriale delle foglie, rossa su vitigni ad uva ‘nera’ e gialla su quelli ad uva ‘bianca’, cui seguono accartocciamento infero e ispessimento della lamina, acinellatura, necrosi di foglie, tralci e frutti, morte. I sintomi, abbastanza tipici nella fase iniziale della malattia, divengono in seguito confondibili con altri di differente eziologia, come infezioni da ‘Bois noir’, infestazioni di cicaline, carenze e squilibri nutrizionali.
Infezioni di X. fastidiosa a carattere epidemico sono state individuate nel 2013 su piante di olivo nel Salento, in Puglia. Alcune osservazioni raccolte con le prime indagini, come la presenza di focolai di infezione distinti, suggeriscono però che esso fosse già presente da qualche anno. Si tratta di un batterio Gram-negativo, xilematico, trasmesso da cicaline Cercopidi dei Generi Phylaenus sp. e Neophylaenus sp. La trasmissione da parte di questi insetti presenta modalità che richiamano sia il processo di tipo non-persistente (assenza del periodo di latenza nel vettore) sia quello di tipo propagativo (moltiplicazione dell’agente patogeno nel vettore). Di X. fastidiosa sono note diverse ‘varianti’ o ‘subspecie’ tra le quali la ‘pauca’ è quella identificata in Puglia. Le piante di olivo reagiscono all’infezione con disseccamenti dapprima limitati alla vegetazione più giovane, poi estesi al resto della chioma determinando la morte di rami, branche e infine dell’intera pianta. Una volta nota la presenza della malattia, detti sintomi ne consentono il riconoscimento visivo. Tuttavia, poiché alterazioni simili possono essere indotte anche da altre cause (funghi vascolari, danni da agenti atmosferici, ad esempio), le fasi iniziali di infezione da X. fastidiosa possono anche essere ignorate per un certo tempo favorendo l’insediamento del patogeno.

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La cucina nei fumetti

Dalla più profonda antichità i bambini hanno conosciuto la preparazione degli alimenti vivendo in cucina, fino a quando non sono arrivati i fumetti e poi i cartoni animati del cinema e della televisione.

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I semi di Cannabis nell’alimentazione delle ovaiole? Come saranno le uova?

La giornalista freeelance Natalie Berkhout ci informa dalle pagine di “All About Feed” che negli Stati Uniti è stata inoltrata a chi di competenza la richiesta per l’approvazione dell’impiego dei semi e pannelli di Cannabis indica come ingrediente dei mangimi. Una volta approvata la richiesta, i semi ed i pannelli potranno essere legalmente usati come mangime commerciale per le galline ovaiole.

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La straordinaria biodiversità di lieviti e batteri lattici autoctoni del pane toscano DOP

Il sapore, i profumi e gli aromi del pane toscano DOP, insieme ad altre sue peculiari caratteristiche organolettiche, nutrizionali e salutistiche, potrebbero dipendere in larga misura dalla complessa struttura delle comunità di microrganismi agenti della fermentazione.
La DOP, denominazione di origine protetta, è stata conferita al pane toscano ottenuto mediante l’esclusivo impiego sia di farine di grano tenero tipo “0”, contenenti il germe di grano e prodotte da varietà di frumento coltivate, stoccate e molite in Toscana, sia del lievito madre (o lievito naturale, impasto acido). Tale lievito madre (in inglese "sourdough”), rappresentato da una porzione di impasto proveniente da una precedente lavorazione, è in grado di avviare la lievitazione grazie al complesso sistema biologico costituito da lieviti e batteri lattici. Diversi studi effettuati in tutto il mondo hanno da tempo dimostrato che l’utilizzazione del lievito madre conferisce caratteristiche sensoriali e nutritive uniche al pane, incrementandone aroma e gusto, migliorandone il volume e la consistenza, prolungando la sua shelf-life, e aumentando il suo valore nutrizionale e nutraceutico.
In ogni lievito madre utilizzato per la produzione dei vari pani e prodotti da forno tipici, tra cui il pane di San Francisco, il pane di Altamura, il pane toscano, insieme a panettone e pandoro, si sviluppano popolazioni di microrganismi peculiari, in relazione al processo di produzione (temperatura, pH, modalità dei rinfreschi), al tipo di farina utilizzato e alle diverse condizioni ambientali. Per questo ogni lievito madre è strettamente legato all’area geografica di origine, al territorio in cui viene prodotto. In generale, i lieviti che più comunemente sono stati identificati in vari tipi di lievito madre appartengono alle specie Saccharomyces cerevisiae, Kazachstania exigua, Kazachstania humilis, Yarrowia keelungensis e Torulaspora delbrueckii, mentre i batteri lattici appartengono al genere Lactobacillus, come le specie L. plantarum, L. brevis, L. sanfranciscensis, L. fermentum, L. curvatus e L. sakei. È importante sottolineare che alcune delle specie di batteri lattici vivono in una stretta associazione metabolica con particolari specie di lieviti; per esempio L. sanfranciscensis (così chiamato perché fu isolato per la prima volta dal pane di San Francisco), che rappresenta la specie batterica predominante nel lievito madre, fermenta in maniera molto efficiente il maltosio contenuto nelle farine e si trova spesso in simbiosi con le specie di lievito incapaci di utilizzare il maltosio, come K. humilis e K. exigua.

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La foresta urbana, strumento di equità sociale

Nella scorsa primavera, con l'attenuarsi delle restrizioni sul Coronavirus in tutto il mondo, molti di noi si sono riversati nei parchi per una passeggiata rigenerante, per prendere un po’ d’aria fresca ma, soprattutto, per riprendere quel contatto, anche solo visivo, con la natura.
Ritemprarsi nella natura rappresenta una necessità per «staccare», anche se temporaneamente, dal ritmo e dalle condizioni in cui conduciamo le nostre vite alle quali gli stili di vita della società contemporanea impongono ritmi pressanti. Già nel Seicento, il matematico, fisico, filosofo e teologo francese Pascal (cui è stata intitolata l’unità di misura della pressione) scriveva: «Quando mi sono messo talvolta a considerare le diverse agitazioni degli esseri umani e i pericoli e le pene a cui si espongono (…) ho scoperto che tutta l’infelicità degli esseri umani deriva da una sola cosa e cioè non saper restarsene tranquilli in una stanza…». Nel nostro caso potremmo dire «tranquilli in un parco».
Quante volte abbiamo infatti pensato o parlato, o udito parlare e letto delle problematiche «urbane» e dei possibili rimedi ai mali, concludendo, invariabilmente, che essi rappresentano logiche conseguenze o inevitabili concomitanze di situazioni da cui, tuttavia, otteniamo molti vantaggi? Quante volte, dunque, tutto ciò ci è parso praticamente irrimediabile?
Tuttavia, soprattutto nelle grandi città con periferie trasformate in dormitori privi di servizi e aree per svago, le condizioni di vita, non solo socioeconomiche, potrebbero influenzare notevolmente i paesaggi che le persone trovano durante queste passeggiate, in particolare la quantità di verde che è probabile che vedano e della quale possono realmente fruire.
La correlazione tra copertura arborea urbana e reddito è ben documentata nelle città di tutto il mondo. Questo è spesso il sottoprodotto della disuguaglianza storica: le decisioni sulle infrastrutture prese decenni fa, comprese quelle sulla creazione di aree verdi, hanno beneficiato (ingiustamente) soprattutto i quartieri ricchi. Ciò continua ad avere un impatto sui servizi forniti oggi ed è un fattore di «disequità economica e sociale attuale e futura (chiedo scusa per l’uso di questo neologismo, ma non è lo stesso di disuguaglianza, spesso usato al suo posto). In questo contesto assumono rilevanza le «foreste urbane» per i vantaggi che esse forniscono alle persone, il che significa che la loro presenza o assenza può contribuire creare effetti diversi in termini di salute, ricchezza e benessere generale.

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Cuoci-pasta ecosostenibile


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Napoleone Bonaparte a tavola in Italia

Napoleone Bonaparte (1769 – 1821), del quale il 5 maggio 2021 si celebra i bicentenario della morte celebrata anche da Alessandro Manzoni con Il Cinque maggio, dal celebre inizio Ei fu… studiato dagli studenti di un tempo, è noto per le sue gesta militari e per i suoi interventi politici che influenzano gli stili di vita e la gastronomia, anche se da parte sua, nel periodo nel quale è console (1804) ama ripetere: Se volete mangiar bene, pranzate con il secondo Console, se volete mangiare molto, pranzate con il terzo Console, se volete mangiare in fretta, pranzate con me. Napoleone non è un buongustaio, ma un commensale sbrigativo, rapido e disattento che dedica al cibo non più di quindici o venti minuti, preferisce piatti semplici, non gradisce i lunghi e complessi pranzi alla francese.

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Il protocollo FAO per monitorare la gestione sostenibile del suolo

Molte autorevoli istituzioni e società scientifiche internazionali e nazionali, tra cui l’Associazione Italiana delle Società Scientifiche Agrarie (AISSA), indicano nell’ intensificazione sostenibile una possibile risposta alle crescenti necessità agroalimentari di una popolazione mondiale in aumento e all’esigenza di diminuire l’impatto ambientale delle produzioni agricole e forestali. L’intensificazione sostenibile ha l’obiettivo di incrementare le produzioni riducendo gli impatti ambientali dei processi coinvolti, al fine di elevare il livello di sostenibilità dell’agricoltura ed aiutare da un lato la sostenibilità economica delle imprese e dall’altro la salvaguardia dell’ambiente.
Le innovazioni che vengono proposte nei diversi settori produttivi sono molteplici ed hanno tutte bisogno di confrontarsi con degli indicatori di sostenibilità semplici e significativi.
Per quanto riguarda gli indicatori pedologici, la FAO ha recentemente pubblicato un protocollo di riferimento per il monitoraggio di alcune qualità del suolo sensibili ai cambiamenti di gestione (http://www.fao.org/fileadmin/user_upload//GSP/SSM/SSM_Protocol_EN_006.pdf). Il documento, realizzato con il contributo di molti esperti anche italiani, prosegue l’impegno della Global Soil Partnership per favorire la conservazione del suolo e si pone in continuità con le “Linee guida volontarie sulla gestione sostenibile del suolo”, anch’esse pubblicate dalla FAO (http://www.fao.org/3/i6874it/I6874IT.pdf).
Il protocollo costituisce uno strumento pratico e applicativo per valutare i reali effetti sul suolo degli interventi attuati in campo agricolo per implementare tecniche di intensificazione sostenibile, come il miglioramento dei sistemi produttivi, l'innovazione e l’implementazione di nuove tecnologie, il ripristino degli ecosistemi e il sequestro del carbonio. In concreto, il protocollo fornisce indicatori chiave e una serie di strumenti per valutare le funzioni del suolo in base alle sue proprietà fisiche, chimiche e biologiche. Le variazioni dei valori degli indicatori dovrebbero consentire un primo giudizio sull’efficacia delle pratiche introdotte.

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Quattro “i” meno una

Stiamo attraversando un periodo in cui le prospettive si confondono e la stessa vita quotidiana propone riflessioni su questioni che sembravano accantonate. Commentando un incontro organizzato dalla Società Agraria di Lombardia sul tema “Quale agricoltura dopo il coronavirus?” sottolineavo il ruolo che quattro concetti tutti caratterizzati dall’iniziare appunto per “i” –ovvero “impresa”, “innovazione”, “intensificazione sostenibile” ed “informazione”- avrebbero avuto (o dovuto avere) per assicurare una sollecita ripresa. Anche più di recente, presentando la ristampa anastatica dello storico volume “Quaranta quintali di latte per anno e per vacca” le stesse considerazioni si sono presentate con una aggiunta. Ovvero che vi è un pericolo da cui dobbiamo guardarci, se vogliamo davvero riconquistare la normalità, le prospettive di sviluppo e le stesse libertà fondamentali, rappresentato da un altro concetto che inizia per “i”: l’ideologia, che coi suoi pregiudizi, con le sue affermazioni apodittiche, coi suoi “voli pindarici” e con le sue elucubrazioni spesso avulse dalla realtà e contrarie al buonsenso rischia di determinare guasti anche peggiori e più duraturi di quelli procurati dalle  avversità.
Il pericolo rappresentato dalle derive ideologiche, antiscientifiche, tecnofobiche e persino “pauperistiche” incombe da tempo sul futuro e sull’esistenza stessa della nostra agricoltura. La delicatissima fase politica che stiamo attraversando, con la concomitanza di numerosi processi decisionali (dalla definizione della Politica Agricola Comunitaria per i prossimi anni, alla sua declinazione a livello nazionale con il PSN, passando per le applicazioni normative derivanti da discusse e discutibili indicazioni “strategiche”, come quelle contenute nella comunicazione “Farm to Fork”) rendono particolarmente insidioso il rischio che l’ideologia prevalga e si imponga laddove servirebbero serietà, razionalità, competenza e  pragmatismo.
Le dinamiche che caratterizzano il quadro di politica agraria italiana (al quale la parziale “rinazionalizzazione” delle politiche europee delega importanti momenti decisionali) portano alla nostra attenzione le vicende legate alla formazione del nuovo governo, tra cui si segnalano l’istituzione di un non meglio definito “ministero per la transizione ecologica” e l’assegnazione al sen. Patuanelli della poltrona di titolare del MIPAAF.

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La pasta di grano duro dei Faraoni

In una tomba egiziana di circa quattromila anni fa vi è un’immagine che gli egittologi interpretano come la pasta sia prodotta impastando la farina con i piedi. Circa millecinquecento anni dopo gli Egiziani “lavorano la pasta con i piedi, l’argilla con le mani” afferma lo storico greco Erodoto (484 a. C. – 420 circa a. C.) nelle sue Storie (II, 36) che raccolgono digressioni su costumi dei popoli molto interessanti da un punto di vista antropologico e tra queste quella sull’Egitto a lui contemporaneo che per estensione e quantità di dettagli costituisce quasi un libro a parte.
La consuetudine egiziana di lavorare la pasta di farina con i piedi è molto antica e presente nell’Egitto del Medio Regno (2055 a. C. – 1790 a. C.) come dimostra una delle immagini che decorano la tomba di Antefoker visir durante il regno del re Amenemhat I e del suo successore Sesostri I della XII dinastia, che organizza una spedizione verso il Paese di Punt e che ha un concreto ruolo nelle campagne militari di riconquista della Nubia (Davies N., Gardiner A. H. – The Tomb of Antefoker – Egypt Exploration Society, London, G. Allen and Unwi, 1929).

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Non bastano gli alberi per rendere una città vivibile

Sull’onda del cosiddetto  “green new deal” si moltiplicano le iniziative per piantare alberi nelle nostre città, contornate da grande seguito mediatico.
Sia chiaro, il verde è importante, specie se arboreo, e contribuisce certamente alla cattura delle polveri sottili e al raffrescamento durante i periodi più caldi, oltre ad apportare indubbi benefici di tipo psicologico e ricreativo.
Ma non è altrettanto evidente che sia sufficiente la messa a dimora di un albero per rendere piacevole un luogo.

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Lobby anti-alcol e vino: il possibile ruolo (a favore del vino) della sostenibilità

Una delle più gravi minacce che il mondo del vino sta subendo, a livello internazionale,  è il  potere crescente della lobby anti-alcol, che non distingue tra il vino e le altre  bevande alcoliche  e che considera  il vino  solo come fonte di alcol  e quindi dannoso per la salute umana, indipendentemente dalla dose. Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha da tempo in agenda il discorso relativo all’alcol che assieme al tabacco è nella lista dei composti  associati alle malattie non trasmissibili  e che indica anche alcune strategie da adottare per prevenire quelle malattie, come ad esempio  l’aumento della  tassazione,  restrizioni alla vendita, divieto di pubblicità.  Ci sono però altre voci, positive per il vino, che provengono sia dal mondo scientifico che dalla società, come ad esempio quella dell’associazione Wine in Moderation  che lancia un messaggio molto semplice: l’abuso di alcol  è dannoso per la salute umana, ma un consumo  moderato e consapevole di vino (per una persona sana) è positivo sia per il corpo che per la mente. Anche l’Unione Europea ha nel mirino il vino, oggetto di attenzione per quanto riguarda l’indicazione degli ingredienti in  etichetta, prodromo, secondo alcuni (ex il CEEV – Comité Européen des Enterprises Vins) di possibili azioni ostili come gli health-warnings, similmente a quelli a carico delle sigarette. Il già citato CEEV cerca di reagire a questi attacchi, ma per arginare il problema è necessario che si crei un ambiente, un modo di pensare  favorevole  al consumo consapevole di vino, che questo cioè diventi conventional wisdom; bisogna riuscire a dimostrare cioè che un mondo senza vino (come vorrebbero taluni) sarebbe peggiore di un mondo col vino. Penso che ci siano due strategie principali per raggiungere quell’obiettivo:  la prima è enfatizzare il ruolo culturale del vino, visto che condivide la storia di una parte dell’umanità da millenni e che è fortemente radicato  nel vissuto di molte nazioni. Il vino è un prodotto affascinante, non solo per l’aspetto edonistico del sorseggiarne un calice, ma anche per gli aspetti immateriali e le emozioni che suscita in chi lo degusta; è ricco di significati a volte contraddittori tra loro, come scienza ed arte, storia e leggenda, sacro e profano.  Gli aspetti salutistici  sono importanti, ma da considerarsi come effetti collaterali positivi e non come motivo principale per il suo consumo. Chi può avere dunque il coraggio di combattere un prodotto culturale?  La seconda è di connotare  il vino come campione della sostenibilità, e qui c’è ancora molto da fare, ma è uno stimolo per accelerare  questo percorso virtuoso (della sostenibilità).

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Le piante pallide

Il numero 27 (5) – 2020 della rivista Global Change Biology (Wiley) pubblica un "opinion paper" firmato da Lorenzo Genesio (IBE-CNR), Roberto Bassi (Univ.Verona) e Franco Miglietta (Accademia dei Georgofili e IBE-CNR) dal titolo “Plants with less chlorophyll: A global change perspective”.
L'articolo discute di un tema nuovo ma che è già molto discusso in ambito accademico: nuove piante a basso contenuto di clorofilla (pale-green) possono diventare uno strumento per coniugare produzioni agricole e azioni di mitigazione del cambiamento climatico. Il ragionamento è paradossalmente semplice anche se non del tutto intuitivo. Si gioca su due fronti: le piante-pallide riflettono di più la luce solare e possono, se sono ben costruite, contribuire ad aumentare le rese colturali.

Ma andiamo con ordine.

Superfici più riflettenti per ridurre il riscaldamento globale

Tutti sappiamo che l'energia primaria di cui dispone il nostro pianeta arriva con la luce del sole. Ma non è altrettanto chiaro a tutti che la temperatura media alla superficie della terra dipende da un complesso bilancio fra la quota di energia che viene riflessa dal nostro pianeta e quella che, una volta assorbita, viene riemessa sotto forma di calore. Calore che poi resta in parte “intrappolato” dai cosiddetti gas ad effetto serra nell’atmosfera. Per capire questo “bilancio energetico” basta rifarsi alla nostra esperienza diretta: quando indossiamo abiti scuri sotto il sole estivo soffriamo molto più il caldo di quando invece indossiamo abiti più chiari. Ciò che i nostri occhi percepiscono come “colore scuro” altro non è che il risultato di un maggior assorbimento della luce da parte dei pigmenti che colorano l'abito che indossiamo. Il colore chiaro si ottiene invece quando molta luce è riflessa. E così come fa un abito scuro le piante con molta clorofilla assorbono molta energia luminosa, ne convertono solo una piccola frazione in zuccheri attraverso la fotosintesi e riemettono il resto come calore. Le piante a basso contenuto di clorofilla (che abbiamo già sopranominato “pallide”) riflettono invece una frazione più elevata di radiazione solare, ne assorbono meno e di conseguenza emettono meno calore.
E da qui prende le mosse l’idea discussa nell’Opinion paper: se coltivassimo specie più “riflettenti” potremmo contrastare, pur solo in parte, l’effetto globale di riscaldamento dovuto all’aumento dell’effetto serra.

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La risicoltura italiana e il problema delle resistenze agli erbicidi

Il 26 gennaio 2021 si è tenuto l'evento online intitolato "Le resistenze agli erbicidi nelle risaie" in cui è stato presentato il progetto Epiresistenze. L'incontro ha permesso di far luce su questo nuovo meccanismo di resistenza e sulla sua importanza per l'efficace gestione delle malerbe nei campi di riso.

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Prospettive future per la sostenibilità delle produzioni animali

Se l’obiettivo da raggiungere è la sostenibilità delle produzioni animali, dobbiamo puntare su ingredienti alimentari innovativi, sulla digitalizzazione, su nuove tecniche di preparazione degli alimenti e tecnologie di alimentazione, che contribuiscano a ridurne l’impatto sull’ambiente.

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Sostanze naturali: un tesoro non del tutto svelato per il trattamento della Covid 19

L’umanità non è nuova ad emergenze sanitarie come quella da coronavirus in corso. Eppure, ne avvertiamo tutta l’eccezionalità. Ha stravolto il nostro modo di vivere. Ci ha costretti a cambiare le nostre abitudini, imponendoci comportamenti e modalità di interazione sociale che rappresentano una vera e propria svolta culturale dai profondi significati antropologici e dalle immense ricadute psicologiche ed economiche. Eccezionale è sicuramente lo sforzo collettivo di tante comunità scientifiche che a livello globale stanno cooperando per sconfiggere la malattia.
Una malattia generata da un virus dell’ampia famiglia dei coronavirus, il SARS-COV2, scoperto alla fine del 2019 e così definito in quanto simile al già noto SARS-COV (severe acute respiratory syndrome coronavirus). L’infezione da SARS-COV2 è stata, dunque, denominata dalla World Health Organization ‘COVID-19’ dall’inglese COronaVIrus Disease 2019.
Grandi speranze sono riposte nel vaccino che ci si augura possa garantire un’immunità di massa. Non tutti, purtroppo, potranno beneficiarne, come i soggetti già infetti o allergici, gli immuno-depressi o, ancora, le donne in gravidanza e attualmente i ragazzi al di sotto dei 16 anni per mancanza di studi sperimentali. Inoltre, il virus può mutare e mutare in maniera tale da compromettere l’efficacia del vaccino stesso. Ne consegue che la ricerca farmacologica finalizzata a mettere a punto delle terapie antivirali rimane una priorità. La necessità di avere farmaci prontamente disponibili ha infuso nuova linfa vitale al drug repurposing (riposizionamento dei farmaci), una strategia che consiste nell’indentificare farmaci già approvati e commercializzati da usare per nuovi scopi terapeutici, evitando in tal modo i lunghi stadi necessari per lo sviluppo di un nuovo agente terapeutico. Alla luce di tali considerazioni e in virtù di una consolidata tendenza verso i rimedi naturali, le sostanze naturali biologicamente attive sono subito emerse come un ricco arsenale a cui ispirarsi per il trattamento della COVID-19.

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Meno infortuni in agricoltura nel 2020

L’analisi della Coldiretti fatta sulla base dei dati Inail ha evidenziato che, su base annua, gli infortuni sul lavoro in agricoltura denunciati nel 2020 (26.287), sono diminuiti del 19,6% rispetto al 2019 (32.692). Si tratta cioè di una riduzione di ben 6.405 infortuni mai registrata in maniera così rilevante negli anni passati. Infatti, negli ultimi dieci anni, le variazioni massime registrate sono state dell’ordine del 3,5%. Significativo e in controtendenza rispetto agli altri comparti è stato il calo degli infortuni mortali che, su base annua, si è ridotto di 38 unità passando da 151 a 113 infortuni (riduzione del 25%). Anche in questo caso una riduzione mai registrata in modo così rilevante.
I risultati di questa analisi sono di buon auspicio in quanto segnalano un calo infortunistico nettamente superiore rispetto al trend degli ultimi anni. Tuttavia, su circa un milione di occupati nel settore agricolo, 26.287 denunce di infortunio e 113 denunce di infortuni mortali, a cui vanno aggiunte circa 12.000 denunce di malattie professionali, sono dati ancora troppo elevati. Inoltre il risultato di un solo anno non consente di considerare l’entità di questa riduzione come una tendenza destinata a mantenersi nel futuro. Le ragioni del calo infortunistico infatti possono essere diverse: può avere influito una maggiore prevenzione, come pure un miglioramento delle pratiche colturali e un ammodernamento delle attrezzature, ma certamente non va dimenticato che l’attività produttiva del 2020 è stata pesantemente condizionata dal Covid-19, pur tenendo presente che le denunce di infortunio da Covid-19 registrate dall’Inail nel 2020 non hanno superato lo 0,3% dei contagi.

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