Il genome editing, che potremmo tradurre, in ambito agrario, con
tecnologia per l’evoluzione assistita (TEA) è una tecnica rivoluzionaria
che permette di agire a livello del DNA facendogli esprimere delle
nuove funzioni ritenute positive per l’uomo, per un animale, per una
pianta, per un microorganismo. Nel regno vegetale questa tecnica ha
permesso di ottenere piante di interesse agrario, che resistono a
malattie, siccità, ecc., ma questa nuova biotecnologia non è ammessa
ovunque. Nell’UE per esempio il genome editing è assimilato (vedi
decisione della Corte di Giustizia europea del 25 luglio 2018) a quelle
tecniche con le quali si ottengono gli organismi geneticamente
modificati (OGM), che sono di fatto proibiti alla coltivazione. Da un
punto di vista scientifico l’ equiparazione tra genome editing e OGM
non è corretta; gli organismi pubblici, nazionali ed europei però
stanno cambiando idea e probabilmente sarà possibile anche in Europa
poter sperimentare in campo, e poi coltivare, piante (la vite per
esempio) che siano state rese più resistenti a vari fattori di stress
biotico e abiotico: questo nuovo individuo, nel caso della vite, sarà
considerato (probabilmente) un clone di quel vitigno, per cui la
piattaforma ampelografica di una certa denominazione non cambierà;
questo intervento infatti simula quanto la natura fa normalmente in
pieno campo da millenni e che viene valorizzato mediante la selezione
clonale. Il cambio di visione della Commissione europea (da ostile a
positiva) è riscontrabile anche dal fatto che il genome editing è stato
inserito nella strategia “From Farm to Fork” come strumento per
realizzare gli obiettivi di sostenibilità tracciati dal Green Deal. Le
prospettive sono quindi positive, ma per renderle concrete e utili i
paradigmi scientifici da soli non bastano; bisogna infatti che queste
nuove tecnologie si sviluppino all’interno di una “governance”
condivisa (a livello internazionale) non solo dalla comunità
scientifica, ma anche dalla società, perché solo così l’innovazione
porterà vantaggi a tutti gli attori delle varie filiere agroalimentari,
dai produttori ai consumatori.
Dal 23 giugno 2016, il giorno del referendum sull’uscita della Gran
Bretagna (UK) dall’Ue, al 31 dicembre 2020 sono trascorsi quattro anni e
mezzo. Tanto è stato necessario perché si potesse giungere ad un
accordo sulle regole che governeranno d’ora in poi i rapporti fra le
Parti.
La separazione è avvenuta in due tempi: a fine 2019, con la
firma di un Trattato internazionale che definisce le modalità
dell’uscita dell’UK dall’Ue e, a fine 2020, con un Accordo commerciale e
di cooperazione entrato in vigore il 1° gennaio 2021 in via
provvisoria, in attesa delle necessarie ratifiche. L’Accordo regola
tutti gli aspetti concreti della separazione ed è costituito da un
volume di oltre 1200 pagine.
Per arrivare alla conclusione le Parti
hanno compiuto un defatigante lavoro che, ancora ai primi di dicembre,
sembrava sul punto di naufragare per alcune “divergenze
significative”che sembravano insanabili. I punti aperti erano tre: le
condizioni per una competizione leale negli scambi fra le Parti, le
modalità per dirimere contrasti che sorgessero fra di esse e le regole
per i diritti di pesca. Come in ogni trattativa, fino all’ultimo il
risultato è rimasto in sospeso e ha richiesto passaggi clamorosi come i
decisivi contatti diretti fra il premier inglese Boris Johnson e la
Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. L’Accordo è
stato raggiunto con una volata finale alla vigilia di Natale: il
Parlamento inglese l’ha approvato il 27 dicembre, quello europeo il 29 e
il Consiglio dei Ministri Ue il 31.
Nonostante i sussulti finali, le
questioni in discussione ai primi di dicembre lasciavano intendere che
il traguardo fosse in vista. Considerando che l’interscambio totale fra
UK e Ue vale circa 660 miliardi di euro all’anno e i diritti di pesca
in acque inglesi 650 milioni, si comprende come non potesse essere un
ostacolo insormontabile.
Non ci sono eventi in programma nei prossimi giorni
Il d.lgs. 3 aprile 2018, n. 34 (testo unico in materia di foreste e
filiere forestali, TUFF) costituisce la legge quadro di indirizzo e
coordinamento in materia di gestione del bosco, le cui finalità sono
volte a: “migliorare il potenziale protettivo e produttivo delle risorse
forestali del Paese e lo sviluppo delle filiere locali a esso
collegate, valorizzando il ruolo fondamentale della selvicoltura e
ponendo l’interesse pubblico come limite all’interesse privato”.
“Il metano ti dà una mano” era lo slogan pubblicitario di qualche tempo
fa, che ci invitava a consumare il metano come fonte energetica, in
quanto il meno inquinante fra i combustibili fossili e non fossili. Ma
c’è chi, oggi, punta l’indice contro il metano se prodotto dall’apparato
digerente degli animali erbivori a partire dalla componente alimentare
fibrosa o prodotto dalle fermentazioni vegetali nelle acque delle
coltivazioni del riso e rilasciato in atmosfera. Onestamente, il contributo alla diminuzione della concentrazione di gas
serra in atmosfera che può venire dalla regolamentazione delle attività
agricole appare modesto rispetto a quanto si possa ottenere ponendo un
freno all’uso di combustibili fossili nelle centrali elettriche, nella
climatizzazione degli ambienti e nei trasporti terrestri ed aerei.