Comincia a delinearsi il Pnrr, orrendo acronimo per indicare il Piano
nazionale rilancio e resilienza, che non è altro che l’insieme dei
progetti con cui l’Italia vuole spendere la pioggia di miliardi del
Recovery Plan. Il governo, la ministra Teresa Bellanova in primis, parla
di “agroalimentare protagonista del Pnrr e del Patto per l'export”. Tra
le priorità indicate dalla ministra (sostenibilità, biodiversità, lotta
al dissesto idrogeologico, digitalizzazione, infrastrutture materiali e
immateriali, agricoltura 4.0) l’ortofrutta – finora davvero la
Cenerentola delle politiche governative – guarda con fiducia ma anche
preoccupazione.
I vitigni “resistenti” rappresentano per la filiera vitivinicola una
delle novità più importanti degli ultimi anni, in quanto danno una
risposta concreta a molte delle problematiche poste dalla sempre
maggiore esigenza di sostenibilità. Più di 120 varietà “resistenti”,
sono iscritte nei Registri Nazionali delle Varietà di Vite dei diversi
paesi Europei e la superficie vitata cresce a ritmi molto più rapidi
di altre “nuove” varietà , non “resistenti”.
Con l’inizio della presidenza semestrale di turno tedesca dell’Unione
europea, c’è stata una accelerazione del processo di riforma della PAC,
iniziato formalmente a meta 2018 e poi arenatosi per ragioni
istituzionali (elezione del nuovo Parlamento Ue e rinnovo del collegio
dei commissari), oltre che per motivazioni di tipo politico, in primis
le difficoltà a definire il bilancio pluriennale 2021-2027, cui si sono
aggiunte altre cause, come la relativa debolezza delle precedenti
presidenze di turno e le difficoltà di collaborazione tra le commissioni
agricoltura e ambiente del Parlamento europeo.
Entro il corrente
mese di ottobre, sia il Consiglio dei ministri che il Parlamento
dovrebbero definire la posizione comune e sarà così possibile avviare la
parte finale del negoziato, con i contraddittori a tre (i cosiddetti
triloghi).
Pertanto, non è più il caso di temporeggiare ed è
arrivato il momento che, a livello nazionale, inizi una fase nuova, di
analisi, di confronto e di proposte che porti a formulare le scelte
applicative nell’ambito del piano strategico della PAC post 2020. Non è
che fino ad oggi l’argomento sia stato accantonato. Piuttosto c’è stata
carenza nella qualità, continuità e spessore del dibattito.
A
differenza del passato, la responsabilità decisionale di Ministero e
Regioni è aumentata e con essa è cresciuta pure la possibilità di
incidere in modo virtuoso sul sistema agricolo. Il new delivery model,
ovvero la più radicale discontinuità della riforma in discussione, non
costringe più a muoversi entro i rigidi confini circoscritti dai
minuziosi regolamenti di Bruxelles.
Un nuovo modello di riferimento della gestione dell’agricoltura viene
definito “smartfarming”; Smart, popolarmente identificabile in
“intelligente” e anche acronimo di Specifico, Misurabile, raggiungibile
(Achievable), Realistico e calendarizzabile (Time_based). Il termine non
è sconosciuto perché già negli anni ’90 l’agricoltura di precisione
veniva anche definita agriculture raisonné e preludeva al
superamento di una semplificazione nelle pratiche colturali indotta da
modelli di gestione normalizzati del dopoguerra e proposti per grandi
aree dai noti prontuari degli anni ’70.
Raisonné, Smart, di
Precisione, sottolineano il recupero di una attenzione specifica alle
singole unità produttive, grazie ai nuovi strumenti di alta tecnologia e
della digitalizzazione: la definizione più accreditata tiene in
considerazione il fare per ogni punto sitospecifico o per ogni soggetto
di coltivazione, la cosa giusta, nel momento più opportuno, nelle
modalità e nelle quantità più appropriate, con la registrazione delle
specifiche azioni per una tracciabilità ai fini di un continuo
miglioramento. Le ulteriori declinazioni in Sostenibile, Durable,
Durevole, ne definiscono l’orientamento etico e strategico.
Uno studio recente del gruppo AgriSmartLab (www.agrismartlab.unifi.it – doi:10.3390/su12177191) ha focalizzato nel termine smartfarming
questo nuovo approccio che, dalla “meccanizzazione” degli anni ’70,
affronta il paradigma nascente dell’alta tecnologia e della
digitalizzazione in agricoltura. Il termine farming specifica l’ambito
di applicazione in quanto identifica tutte le operazioni che si attuano
nel pieno campo dove le attività sono fortemente condizionate dalla
variabilità delle caratteristiche territoriali, in termini di suolo,
giacitura, clima; variabilità che è oggi ampliata dai cambiamenti
climatici con avversità moltiplicate in termini di parassiti alieni e di
eventi eccezionali e improvvisi.
Gli insetti, esseri eterotrofi, consumano composti organici ed
inorganici per procurarsi energia, carbonio, azoto e sali minerali. La
loro alimentazione deve necessariamente fornire alcuni amminoacidi,
vitamine, steroli ed acidi grassi indispensabili al loro sviluppo
(crescita e riproduzione) e che sono incapaci di sintetizzare ex novo.
Diversi anni fa, in occasione di un congresso scientifico, un collega
nutrizionista americano mi fece la seguente osservazione: “voi europei
continentali ci snobbate col vostro sistema metrico decimale e poi
esprimente il potenziale energetico degli alimenti in calorie. Se foste
coerenti, dovreste usare i Joule!”
Non avevo mai fatto caso al fatto che i Joule sono unità del sistema metrico decimale, mentre le calorie non lo sono.
E’ una buona cosa che la Commissione stia lavorando ad una visione
organica della produzione di cibo e del suo impatto sull’ambiente. Le
decisioni che verranno prese avranno un impatto sulla quota di
autosufficienza alimentare del continente, sulla sicurezza alimentare e
sull’ambiente. L’implementazione di qualsiasi strategia necessita di
inclusività e la voce degli agricoltori dev’essere presa in
considerazione. Una buona governance inoltre prevederebbe di condurre
valutazioni di impatto ex-ante di tali proposte, sia per le conseguenze
economiche che per quelle ambientali.
Tra gli obiettivi proposti c’è
quello di tagliare l’utilizzo di agrofarmaci del 50%. La severa
revisione dei principi attivi che avviene a livello europeo ha reso il
lavoro degli agricoltori e l’ambiente più sicuri, ma la riduzione dei
principi attivi consentiti complica la protezione dei raccolti. Eppure
l’utilizzo di agrofarmaci continua a calare: -40% in Italia negli ultimi
30 anni, grazie al miglioramento nella gestione.
Gli agricoltori
stanno già facendo molto per migliorare la propria impronta ecologica,
ma senza protezione più di metà dei nostri pasti svanirebbe a causa di
insetti, funghi e malerbe. Non dimentichiamo che la FAO ha dichiarato il
2020 Anno Internazionale della Salute delle Piante, poiché stima che il
40% dei raccolti mondiali vada perso ogni anno a causa della mancanza
di adeguati strumenti protettivi. E’ un spreco difficile da accettare,
non è etico tollerarlo. Gli agrofarmaci sono uno degli strumenti a
disposizione, non l’unico, insieme alle biotecnologie, la lotta
integrata, il digitale ecc.
Nei campi il cambiamento del clima è
evidente: aumenta il numero di giornate e di notti con temperature sopra
le medie storiche; diminuiscono i giorni di gelo; siccità prolungate
sono più frequenti; arrivano nuovi parassiti e le malattie fungine sono
più aggressive. Pertanto, mentre ci chiediamo su quale base scientifica
siano stati proposti tali tagli delle molecole a disposizione e se siano
stati valutati i trade off di queste scelte, guardiamo alla ricerca, a
quella biotecnologica in particolare, con grande speranza.
Nei giorni immediatamente precedenti la tornata elettorale del 20 e 21
settembre il Governo ha presentato alle Camere le “Linee guida per la
definizione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” (Pnrr).
È il primo passo per dare avvio ai programmi di rilancio della nostra
economia disastrata a causa del Covid 19. Il documento è stato relegato
in secondo piano dalle polemiche post elettorali, ma merita attenzione.
Negli
scorsi mesi ha prevalso l’obiettivo di contenere le conseguenze di una
situazione economica sull’orlo del collasso. Gli interventi, pari a un
centinaio di miliardi, sono stati utilizzati per sostenere il comparto
sanitario, per aiutare le persone e le categorie più colpite e le
attività bloccate dal lockdown. Non si è seguita una logica selettiva,
ma quella di un intervento generalizzato. Ora, di fronte al compito
immane della ricostruzione e dello stimolo alla resilienza del sistema
servono priorità chiare, scelte vere, sostenute da un ingente sforzo
finanziario che graverà sul futuro del Paese.
Il documento sulle
linee guida costituisce la prima risposta ed era atteso con grande
interesse. Altri paesi hanno già predisposto il proprio documento e la
Commissione Europea negli stessi giorni ha reso note le sue indicazioni.
Il Pnrr è scarno e molto generale, 38 pagine a cui si sommano circa altrettante di diapositive (si veda: linee-guida-pnrr-2020.pdf).
L’analogo piano francese, ad esempio, è di circa 300 pagine ed entra
in elementi di dettaglio, mentre altri paesi europei affrontano la fase
di scrittura in stretto contatto con gli organismi comunitari.
La
struttura del testo è semplice, quasi scolastica, ma a queste
caratteristiche non si accompagnano chiare indicazioni operative.
L’impressione che ne deriva è che il “vero” contenuto debba ancora
essere deciso.
La mela, dal latino malum, il frutto del melo ha origine in Asia
centrale e diventa cibo dell’uomo nel Neolitico con un nome che potrebbe
avere relazione con la radice indoeuropea *mal, dal significato
di morbido e dolce. Più di ogni altro frutto la mela stimola
l'immaginario entrando nel folklore e nella mitologia di vari popoli. Quando i pittori devono rappresentare il frutto dell’albero proibito di
Adamo ed Eva in gran parte scelgono la mela, il pomo della discordia è
all’origine della guerra di Troia, i pomi delle Esperidi sono custodite
da un drago ai confini del mondo, le mele mistiche danno il nome ad
Avalon (Isola delle Mele), una mela avvelena Biancaneve e Alan Turing,
una mela è posta da Guglielmo Tell sulla testa del proprio figlio, una
mela che cade stimola il genio di Isaac Newton.
Credo che siamo tutti d’accordo nel dire che viviamo in un momento unico
nella storia. Non è come una guerra o una recessione economica, dove si
sa che le cose andranno male per alcuni anni, ma alla fine
miglioreranno. Mai prima d'ora abbiamo saputo che il deterioramento non
solo dei nostri paesi, ma del nostro intero pianeta, continuerà per il
prossimo futuro, indipendentemente da ciò che facciamo. Come dice Richard Attemborough, possiamo (e dovremmo) lottare per
rallentare la velocità con cui le cose peggiorano, anche se non possiamo
realisticamente sperare in un miglioramento.
Fra le tante notizie e cronache di questa estate afflitta da tanti
problemi, fra cui quelli del coronavirus, apparse sui mezzi di
comunicazione di massa, soprattutto sui social, ha senza dubbio colpito
l’enorme afflusso di turisti nelle località montane in particolare delle
Alpi, con maggior frequenza sulle Dolomiti. Hanno fatto impressione le
foto delle code chilometriche, in barba al distanziamento sociale, alla
partenza degli impianti di risalita; particolarmente impressionanti le
immagini più diffuse relative a quelle al Passo Pordoi, al Sassolungo e a
Malga Ciapela per salire sulla cima della Marmolada e queste ultime
sono anche comprensibili visto che il ghiacciaio si ritira a vista
d’occhio perché perdere l’occasione di calpestarlo fin che c’è!
A
parte le considerazioni sulla male educazione di molti turisti non
sensibili al rispetto di un ambiente particolare e fragile come quello
della montagna ed anche sul proliferare di questi impianti di risalita
che, quando si esagera, deturpano il paesaggio oltre ad aumentare i
rischi di dissesto idrogeologico, quello che più ha colpito e che però
non è stato evidenziato dai mezzi di comunicazione di massa è stato
l’aumento impressionante di ampie aree, limitrofe alle aree di partenza
di questi impianti, adibite a parcheggio per accogliere il considerevole
aumento delle auto dei turisti stessi. In termini di consumo di suolo
queste aree possono considerarsi recuperabili in quanto non coperte da
asfalto ma sicuramente il compattamento indiscriminato effettuato e in
molti casi l’assestamento della copertura con breccino hanno alterato
un’importante funzione del suolo che è quella legata all’infiltrazione
dell’acqua. Quello che i mezzi di comunicazione hanno però riportato
sono state le notizie sulle numerose esondazioni di piccoli torrenti e
fiumi (l’Adige, ad esempio) attribuendole a eventi piovosi di notevole
intensità ma che ormai, alla luce dei cambiamenti climatici in atto,
eccezionali non sono più. È evidente che se si continua a
impermeabilizzare il suolo o a ridurne drasticamente la capacità di
infiltrazione in vaste aree proprio nei fondovalle adiacenti ai corsi
d’acqua e dove sono collocati la maggior parte degli impianti di
risalita la situazione peggiorerà ancor di più, visto l’ormai
consolidata tendenza degli andamenti climatici che prevedono sempre più
frequenti nubifragi di notevole entità (bombe d’acqua).
L’obiettivo
dell’inversione di tendenza al progressivo consumo di suolo e, a
maggior ragione, del consumo “zero” al momento pare proprio un’utopia!
La crisi del COVID ha fatto emergere il ruolo e l’importanza della
digitalizzazione come fattore di resilienza sociale e di sviluppo
economico. L’Italia ha un grave ritardo in questo ambito, e il dibattito
sull’utilizzo dei fondi del ‘Next Generation’ considera la
trasformazione digitale una priorità.
Le aree rurali rappresentano un
aspetto specifico di questo ritardo, e non solo in Italia, per colmare
il quale è necessaria una riflessione specifica e una strategia mirata.
Perché
la digitalizzazione rurale sia un fattore di sviluppo bisogna partire
dalle cause del ‘digital divide’, che oltre alle carenze delle
infrastrutture sono riguardano aspetti come il capitale umano e quello
istituzionale-amministrativo.
Il primo passo da compiere in questa
direzione è comprendere che la digitalizzazione non è solo un problema
tecnologico. Le tecnologie digitali
consentono – anzi rendono
necessario - un ripensamento complessivo dell’organizzazione sociale e
della vita quotidiana: il lavoro, la mobilità, gli acquisti,
l’intrattenimento, l’educazione, e la progettazione di tutti i beni e
servizi che la sostengono. Ma devono essere i bisogni delle persone e
delle comunità, e non la tecnologia, a guidare questo ripensamento.
Le
sfida della digitalizzazione rurale è orientare lo sviluppo della
tecnologia partendo dai problemi e non gestire i problemi partendo dalla
tecnologia. Le tecnologie informatiche sono estremamente flessibili, e
le forme che queste possono assumere dipende dalla capacità di
formulare
una visione e di progettare. La digitalizzazione richiede inoltre
importanti azioni nell’ambito legislativo, nell’organizzazione delle
imprese, delle amministrazioni pubbliche e della vita familiare, per non
parlare del ruolo fondamentale dell’educazione e della formazione.
Per
affrontare le cause profonde del ‘digital divide’, le strategie di
digitalizzazione rurale dovranno fare leva sulle specificità delle
condizioni del territorio, sulle sue fragilità, sui suoi punti di forza,
e partire dai bisogni e dalle aspirazioni delle popolazioni e delle
imprese locali.
Il 14 settembre dell’anno del Covid 19 è stato scelto come giorno
d’inizio dell’anno scolastico 2020/2021. Nei giorni precedenti e, poi,
anche in quelli che verranno, si è molto parlato e discusso di questa
scadenza e, soprattutto, delle strane modalità con cui essa (non) è
stata tempestivamente preparata. La stessa scelta della giornata
d’inizio, a ridosso della prima sospensione delle attività scolastiche
per dare spazio alla tornata elettorale del 20/21 settembre, ha
suscitato molte perplessità, se non addirittura contrarietà, in chi
faceva notare l’assurdità di una scelta rigidamente imposta e perseguita
con una serie addizionale di elementi di rischio. Appare molto più
ragionevole la decisione di molte Regioni di spostarla a dopo le
elezioni, a seggi smontati, ambienti sanificati e frequentazione di
persone esterne alla scuola ridotta a zero.
La ripresa scolastica
avviene letteralmente sulla pelle dei più innocenti protagonisti, e cioè
i bambini e i giovani, convogliati in oltre 5,6 milioni circa di unità
verso un caotico destino in realtà sconosciuto nei suoi aspetti
organizzativi e nei rischi potenziali. Senza esagerare ci sembra di
poter dire che sia in atto una nuova “Crociata dei fanciulli” che,
storicamente, non è un esempio confortante.
La domanda che i solerti
cronisti hanno rivolto agli esperti, veri e presunti, è stata
sostanzialmente questa: ottimisti o pessimisti sull’esito della
Crociata? È la stessa che ognuno si pone, ma non ci sembra il punto di
partenza giusto.
Il fatto è che qui non solo si è in presenza di un
sia pur gigantesco problema organizzativo di cui alcuni elementi sono
stati dibattuti sino alla nausea senza evidenti soluzioni, considerato
lo stato in cui avviene la partenza della Crociata. Ma che ciò avviene
senza aver preso minimamente in considerazione le esigenze del mondo
della scuola in funzione dei suoi obiettivi formativi,
dell’organizzazione della didattica, dei contenuti da adeguare ai tempi
ed alle condizioni della nostra vita sociale ed economica in questi
travagliati tempi della pandemia.
La nostra specie è indubbiamente onnivora ma piena di dilemmi come ha rilevato l’antropologo Michael Pollan (Pollan M: - Il dilemma dell’onnivoro
– Adelphi, 2008) il quale, senza prendere posizione, descrive come
l’uomo moderno si trova al vertice della catena alimentare e a
differenza delle altre specie e delle società del passato può mangiare
pressoché tutto con numerosi vantaggi ma anche esponendosi a infinite
possibilità di manipolazione
L’agricoltura verticale o la coltivazione in ambiente interno, noti in termini anglosassoni come vertical farming o indoor farming,
stanno acquistando sempre maggiore interesse da parte degli
imprenditori, investitori e consumatori. I sistemi produttivi possono
essere molto semplificati a scopo hobbistico per attività da svolgere
nel tempo libero per produrre piccole quantità di ortaggi destinati
all’autoconsumo oppure molto complessi e tecnologicamente avanzati per
produzione di ortaggi su larga scala. Nel periodo di lockdown,
durante l’emergenza sanitaria, molte persone sono state costrette a
lavorare da casa, e così, si sono cimentate nella produzione di ortaggi
da foglie, come insalate, piantine officinali etc.
La migrazione della popolazione dalle aree rurali a quelle urbane
avviene da tempo ma è esplosa con la globalizzazione. Oggi, circa il 55%
della popolazione mondiale già vive nelle metropoli, contro il 30% del
1930, mentre per il 2050, quando la popolazione mondiale raggiungerà i
10 miliardi di abitanti, si stima che la percentuale delle persone che
vivranno nelle aree urbane salirà a circa il 70% del totale. Una
trasformazione radicale che ha ripercussioni in diversi settori, dalla
mobilità e circolazione delle persone alla ricettività abitativa, dalla
produzione crescente di gas serra alle emergenze sanitarie. Non
certamente ultime le problematiche legate alla qualità
dell’alimentazione e alla sua disponibilità, per fare fronte alle quali,
tra le diverse possibilità, vi è anche il ricorso crescente
all’agricoltura urbana, attuata in forme e con finalità diverse.
Una
forma che nel nostro Paese ha origini lontane (basti pensare agli orti
di guerra nati durate il secondo conflitto mondiale), è rappresentata
dagli orti urbani. Viene generalmente attuata dietro concessione per un
periodo definito di spazi comunali inutilizzati, a fronte della
corresponsione di un affitto più che altro simbolico, a singoli
cittadini, spesso riuniti in associazioni, per la produzione di frutta e
ortaggi destinati ai loro fabbisogni. Si tratta di superfici di
dimensioni ridotte che, pur potendo essere collocate in ogni parte della
città, in genere sono situate in zone periferiche e a volte
degradate. Oltre produrre frutta e verdura fresca a chilometro zero e a
costi contenuti per gli affidatari, assolvono anche altre finalità,
come: favorire la socializzazione tra le persone, ridurre la
marginalizzazione, creare più attenzione verso l’ambiente e la
biodiversità, ridurre il degrado di determinate aree. I metodi di
coltivazione sono quelli legati alle tecnologie tradizionali, ispirati
però a una gestione sostenibile. Questo tipo di agricoltura urbana si va
sempre più diffondendo e non riguarda soltanto i grandi centri urbani.
Secondo un’indagine condotta da Coldiretti, nel 2013 la superficie
nazionale destinata agli orti urbani era di circa 330 ha e si è elevata a
circa 450 ha nel 2017, con un incremento quindi di oltre il 36%.
Nell’immaginario collettivo le cavallette sono da sempre sinonimo di voracità devastatrice. Tali insetti lasciano infatti il proprio segno nella storia da oltre quattromila e 500 anni, dal momento che gli antichi Egizi erano usi scolpire locuste sulle proprie tombe almeno dal 2470 a.C. Un’illustre invasione di locuste fu per esempio quella che devastò l’Egitto ai tempi del faraone Thutmose III, supposto coevo di Mosè.
Sotto gli occhi di tutti vi sono i diversi movimenti d’opinione che soprattutto sulle reti telematiche danno avvio a moti sociali contrari a un’alimentazione basata sui criteri proposti dalla modernità privilegiando nuovi stili e in questo quadro solo abbozzato è da inserire una recente classificazione internazionale (NOVA worldnutritionjournal.org/index.php/wn/article/view/5/4) che suddivide gli alimenti consumati dall’uomo in base ai trattamenti ai quali sono sottoposti: Gruppo 1 Alimenti non trasformati o minimamente trasformati; Gruppo 2 Ingredienti culinari trasformati; Gruppo 3 Alimenti trasformati; Gruppo 4 Prodotti alimentari e bevande ultratrasformati. Nel quarto gruppo sono compresi molti ingredienti e tra questi zuccheri, oli, grassi, sale, antiossidanti, stabilizzanti, coloranti e conservanti usati nei prodotti ultralavorati e ultraprocessati con lo scopo di conservarli, imitare le qualità sensoriali degli alimenti degli altri gruppi, mascherare qualità sensoriali indesiderabili del prodotto finale o per dargli aspetti utili alla propaganda e commercializzazione. A questa categoria appartengono anche i cibi un tempo denominati junk food, i cosiddetti cibi spazzatura, in continua, forte crescita tra i giovani e nella popolazione di basso reddito non solo costituendo un pericolo per la salute, evento largamente segnalato, ma favorendo modelli di produzioni agro-zootecniche che non appartengono all’identità del nostro paese e sulle quali è necessario fare particolare attenzione.
Partendo dal principio che l’uomo è un onnivoro che deve alimentarsi con una grande varietà di cibi, non dimenticando che sola dosis facit venenum e che ogni alimento può divenire pericoloso se usato in modo non corretto, non si possono sottovalutare le considerazioni e le critiche che da più parti vendono sollevate per gli alimenti ultratrasformati. Allo stato attuale delle conoscenze, oltre ai rischi e pericoli di tipo tossicologico per questi alimenti usati in modo eccessivo e non appropriato, sono da considerare gli effetti che questi alimenti industriali hanno sul sistema alimentare nel suo complesso e sulla filiera dalla terra alla tavola soprattutto perché il cibo non è quello originario e naturale, ma quello dell’industria.
Più si legge sull’argomento e più si rimane confusi. Nei paesi ricchi, le scelte possibili sono fra la dieta mediterranea, la dieta vegetariana, la dieta vegana, la dieta fast food, la dieta delle grigliate in giardino, la dieta a base di pop corn al cinema e infinite altre amenità. Nei paesi poveri, purtroppo, il problema della scelta non si pone. In ogni caso, è inevitabile domandarci: ma quando saremo nove, dieci, undici miliardi, il nostro pianeta sarà ancora in grado di fornire cibo sufficiente per tutti, a prescindere dalla dieta che si sceglie? Leggendo qua e là, si trovano opinioni diverse e contrastanti, anche opposte, riguardo alle varie diete e alla loro sostenibilità.
Cerco di riordinarmi le idee e di riassumere che cosa ho capito.
La dieta mediterranea, come è noto, è basata largamente su frutta e verdura, con poca carne di qualsiasi tipo, pesce, latticini, olio di oliva e un bicchiere di buon vino. A sentire chi la propone e la pratica, è salutare e gradevole. C’è da crederlo, visto che il biologo americano Ancel Keys che, per praticarla meglio si era trasferito dalle nostre parti, è morto a 101 anni.
La dieta vegetariana non utilizza alimenti di origine animale, con l’eccezione del latte e delle uova. Può essere altrettanto valida in termini di soddisfacimento di tutti i fabbisogni nutritivi.
La dieta vegana non ammette assolutamente alcun alimento di origine animale e, per questo, non può garantire l’apporto di tutti i nutrienti necessari, a cominciare dalla vitamina B12, dagli acidi omega 3, dal ferro assimilabile, per non parlare della vitamina D3 e del calcio. Pertanto, chi adotta questa dieta, per qualsiasi ragione lo faccia, deve per forza ricorrere alla integrazione con prodotti dell’industria chimico-farmaceutica per non incorrere in gravi problemi di salute del tipo anemie, rachitismo e fragilità ossea o scarso sviluppo del sistema nervoso. Dietro alla dieta vegana si muovono, ovviamente, interessi industriali, commerciali e dell’editoria che la sostiene.
Il fast food, le grigliate all’americana o l’abuso di pop corn e bibite gassate e zuccherate, non sono neanche da prendere in considerazione perché palesemente nocive.
Date queste premesse, la scelta da fare non sembrerebbe difficile. Ma, ci avvertono i vegetariani ed i vegani, state attenti perché una dieta che comprenda la carne non è sostenibile: gli allevamenti sono i maggiori e più pericolosi produttori di gas serra, insaziabili consumatori di acqua e di terra.