Notiziario







Ortofrutta e Recovery plan

Comincia a delinearsi il Pnrr, orrendo acronimo per indicare il Piano nazionale rilancio e resilienza, che non è altro che l’insieme dei progetti con cui l’Italia vuole spendere la pioggia di miliardi del Recovery Plan. Il governo, la ministra Teresa Bellanova in primis, parla di “agroalimentare protagonista del Pnrr e del Patto per l'export”. Tra le priorità indicate dalla ministra (sostenibilità, biodiversità, lotta al dissesto idrogeologico, digitalizzazione, infrastrutture materiali e immateriali, agricoltura 4.0) l’ortofrutta – finora davvero la Cenerentola delle politiche governative – guarda con fiducia ma anche preoccupazione.

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L’importanza del nome del vitigno per salvaguardare l’originalità e la commercializzazione del vino italiano*

I vitigni “resistenti” rappresentano per la filiera vitivinicola  una delle novità più importanti degli ultimi anni, in quanto danno una risposta concreta  a molte delle problematiche poste dalla sempre maggiore esigenza di sostenibilità. Più di 120 varietà “resistenti”, sono iscritte nei Registri Nazionali delle Varietà di Vite dei diversi paesi Europei  e la superficie vitata  cresce a ritmi molto più rapidi di altre “nuove” varietà , non “resistenti”.

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La PAC post 2020 verso la fase finale del complicato negoziato: ora sagge scelte nazionali

Con l’inizio della presidenza semestrale di turno tedesca dell’Unione europea, c’è stata una accelerazione del processo di riforma della PAC, iniziato formalmente a meta 2018 e poi arenatosi per ragioni istituzionali (elezione del nuovo Parlamento Ue e rinnovo del collegio dei commissari), oltre che per motivazioni di tipo politico, in primis le difficoltà a definire il bilancio pluriennale 2021-2027, cui si sono aggiunte altre cause, come la relativa debolezza delle precedenti presidenze di turno e le difficoltà di collaborazione tra le commissioni agricoltura e ambiente del Parlamento europeo.
Entro il corrente mese di ottobre, sia il Consiglio dei ministri che il Parlamento dovrebbero definire la posizione comune e sarà così possibile avviare la parte finale del negoziato, con i contraddittori a tre (i cosiddetti triloghi).
Pertanto, non è più il caso di temporeggiare ed è arrivato il momento che, a livello nazionale, inizi una fase nuova, di analisi, di confronto e di proposte che porti a formulare le scelte applicative nell’ambito del piano strategico della PAC post 2020. Non è che fino ad oggi l’argomento sia stato accantonato. Piuttosto c’è stata carenza nella qualità, continuità e spessore del dibattito.
A differenza del passato, la responsabilità decisionale di Ministero e Regioni è aumentata e con essa è cresciuta pure la possibilità di incidere in modo virtuoso sul sistema agricolo. Il new delivery model, ovvero la più radicale discontinuità della riforma in discussione, non costringe più a muoversi entro i rigidi confini circoscritti dai minuziosi regolamenti di Bruxelles.

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Dalla Meccanizzazione Agricola allo SmartFarming

Un nuovo modello di riferimento della gestione dell’agricoltura viene definito “smartfarming”; Smart, popolarmente identificabile in “intelligente” e anche acronimo di Specifico, Misurabile, raggiungibile (Achievable), Realistico e calendarizzabile (Time_based). Il termine non è sconosciuto perché già negli anni ’90 l’agricoltura di precisione veniva anche definita agriculture raisonné e preludeva al superamento di una semplificazione nelle pratiche colturali indotta da modelli di gestione normalizzati del dopoguerra e proposti per grandi aree dai noti prontuari degli anni ’70.
Raisonné, Smart, di Precisione, sottolineano il recupero di una attenzione specifica alle singole unità produttive, grazie ai nuovi strumenti di alta tecnologia e della digitalizzazione: la definizione più accreditata tiene in considerazione il fare per ogni punto sitospecifico o per ogni soggetto di coltivazione, la cosa giusta, nel momento più opportuno, nelle modalità e nelle quantità più appropriate, con la registrazione delle specifiche azioni per una tracciabilità ai fini di un continuo miglioramento. Le ulteriori declinazioni in Sostenibile, Durable, Durevole, ne definiscono l’orientamento etico e strategico.
Uno studio recente del gruppo AgriSmartLab (www.agrismartlab.unifi.itdoi:10.3390/su12177191) ha focalizzato nel termine smartfarming questo nuovo approccio che, dalla “meccanizzazione” degli anni ’70, affronta il paradigma nascente dell’alta tecnologia e della digitalizzazione in agricoltura. Il termine farming specifica l’ambito di applicazione in quanto identifica tutte le operazioni che si attuano nel pieno campo dove le attività sono fortemente condizionate dalla variabilità delle caratteristiche territoriali, in termini di suolo, giacitura, clima; variabilità che è oggi ampliata dai cambiamenti climatici con avversità moltiplicate in termini di parassiti alieni e di eventi eccezionali e improvvisi.

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La teoria della TROFOBIOSI nella gestione degli agroecosistemi

Gli insetti, esseri eterotrofi, consumano composti organici ed inorganici per procurarsi energia, carbonio, azoto e sali minerali. La loro alimentazione deve necessariamente fornire alcuni amminoacidi, vitamine, steroli ed acidi grassi indispensabili al loro sviluppo (crescita e riproduzione) e che sono incapaci di sintetizzare ex novo.

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L’energia degli alimenti si esprime in Joule o in calorie?

Diversi anni fa, in occasione di un congresso scientifico, un collega nutrizionista americano mi fece la seguente osservazione: “voi europei continentali ci snobbate col vostro sistema metrico decimale e poi esprimente il potenziale energetico degli alimenti in calorie. Se foste coerenti, dovreste usare i Joule!”
Non avevo mai fatto caso al fatto che i Joule sono unità del sistema metrico decimale, mentre le calorie non lo sono.

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Riflessioni di una imprenditrice agricola sulla strategia Farm to Fork

E’ una buona cosa che la Commissione stia lavorando ad una visione organica della produzione di cibo e del suo impatto sull’ambiente. Le decisioni che verranno prese avranno un impatto sulla quota di autosufficienza alimentare del continente, sulla sicurezza alimentare e sull’ambiente. L’implementazione di qualsiasi strategia necessita di inclusività e la voce degli agricoltori dev’essere presa in considerazione. Una buona governance inoltre prevederebbe di condurre valutazioni di impatto ex-ante di tali proposte, sia per le conseguenze economiche che per quelle ambientali.
Tra gli obiettivi proposti c’è quello di tagliare l’utilizzo di agrofarmaci del 50%. La severa revisione dei principi attivi che avviene a livello europeo ha reso il lavoro degli agricoltori e l’ambiente più sicuri, ma la riduzione dei principi attivi consentiti complica la protezione dei raccolti. Eppure l’utilizzo di agrofarmaci continua a calare: -40% in Italia negli ultimi 30 anni, grazie al miglioramento nella gestione.
Gli agricoltori stanno già facendo molto per migliorare la propria impronta ecologica, ma senza protezione più di metà dei nostri pasti svanirebbe a causa di insetti, funghi e malerbe. Non dimentichiamo che la FAO ha dichiarato il 2020 Anno Internazionale della Salute delle Piante, poiché stima che il 40% dei raccolti mondiali vada perso ogni anno a causa della mancanza di adeguati strumenti protettivi. E’ un spreco difficile da accettare, non è etico tollerarlo. Gli agrofarmaci sono uno degli strumenti a disposizione, non l’unico, insieme alle biotecnologie, la lotta integrata, il digitale ecc.
Nei campi il cambiamento del clima è evidente: aumenta il numero di giornate e di notti con temperature sopra le medie storiche; diminuiscono i giorni di gelo; siccità prolungate sono più frequenti; arrivano nuovi parassiti e le malattie fungine sono più aggressive. Pertanto, mentre ci chiediamo su quale base scientifica siano stati proposti tali tagli delle molecole a disposizione e se siano stati valutati i trade off di queste scelte, guardiamo alla ricerca, a quella biotecnologica in particolare, con grande speranza.

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Recovery Fund: un’impostazione fortemente statalista è quella più idonea a far ripartire l’economia?

Nei giorni immediatamente precedenti la tornata elettorale del 20 e 21 settembre il Governo ha presentato alle Camere le “Linee guida per la definizione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza”  (Pnrr). È il primo passo per dare avvio ai programmi di rilancio della nostra economia disastrata a causa del Covid 19. Il documento è stato relegato in secondo piano dalle polemiche post elettorali, ma merita attenzione.
Negli scorsi mesi ha prevalso l’obiettivo di contenere le conseguenze di una situazione economica sull’orlo del collasso. Gli interventi, pari a un centinaio di miliardi, sono stati utilizzati per sostenere il comparto sanitario, per aiutare  le persone e le categorie più colpite e le attività bloccate dal lockdown. Non si è seguita una logica selettiva, ma quella di un intervento generalizzato. Ora, di fronte al compito immane della  ricostruzione e dello stimolo alla resilienza del sistema servono priorità chiare,  scelte vere, sostenute da un ingente sforzo finanziario che graverà sul futuro del Paese.
Il documento sulle linee guida costituisce la prima risposta ed era atteso con grande interesse. Altri paesi hanno già predisposto il proprio documento e la Commissione Europea negli stessi giorni ha reso note le sue indicazioni.
Il Pnrr è scarno e molto generale, 38 pagine a cui si sommano  circa altrettante di diapositive (si veda: linee-guida-pnrr-2020.pdf).  L’analogo  piano francese, ad esempio, è di circa 300  pagine ed entra in elementi di dettaglio, mentre altri paesi europei affrontano la fase di scrittura in stretto contatto con gli organismi comunitari.
La struttura del testo è semplice, quasi scolastica, ma a queste caratteristiche non si accompagnano chiare indicazioni operative. L’impressione che ne deriva è che il “vero” contenuto debba ancora essere deciso.

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Una mela al giorno ...

La mela, dal latino malum, il frutto del melo ha origine in Asia centrale e diventa cibo dell’uomo nel Neolitico con un nome che potrebbe avere relazione con la radice indoeuropea *mal, dal significato di morbido e dolce. Più di ogni altro frutto la mela stimola l'immaginario entrando nel folklore e nella mitologia di vari popoli. Quando i pittori devono rappresentare il frutto dell’albero proibito di Adamo ed Eva in gran parte scelgono la mela, il pomo della discordia è all’origine della guerra di Troia, i pomi delle Esperidi sono custodite da un drago ai confini del mondo, le mele mistiche danno il nome ad Avalon (Isola delle Mele), una mela avvelena Biancaneve e Alan Turing, una mela è posta da Guglielmo Tell sulla testa del proprio figlio, una mela che cade stimola il genio di Isaac Newton.

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Cambiamenti climatici e crescita verde: come possiamo affrontare l’inevitabile declino del nostro Pianeta?

Credo che siamo tutti d’accordo nel dire che viviamo in un momento unico nella storia. Non è come una guerra o una recessione economica, dove si sa che le cose andranno male per alcuni anni, ma alla fine miglioreranno. Mai prima d'ora abbiamo saputo che il deterioramento non solo dei nostri paesi, ma del nostro intero pianeta, continuerà per il prossimo futuro, indipendentemente da ciò che facciamo. Come dice Richard Attemborough, possiamo (e dovremmo) lottare per rallentare la velocità con cui le cose peggiorano, anche se non possiamo realisticamente sperare in un miglioramento.

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Eccessi e contraddizioni del nostro Bel Paese

Fra le tante notizie e cronache di questa estate afflitta da tanti problemi, fra cui quelli del coronavirus, apparse sui mezzi di comunicazione di massa, soprattutto sui social, ha senza dubbio colpito l’enorme afflusso di turisti nelle località montane in particolare delle Alpi, con maggior frequenza sulle Dolomiti. Hanno fatto impressione le foto delle code chilometriche, in barba al distanziamento sociale, alla partenza degli impianti di risalita; particolarmente impressionanti le immagini più diffuse relative a quelle al Passo Pordoi, al Sassolungo e a Malga Ciapela per salire sulla cima della Marmolada e queste ultime sono anche comprensibili visto che il ghiacciaio si ritira a vista d’occhio perché perdere l’occasione di calpestarlo fin che c’è!
A parte le considerazioni sulla male educazione di molti turisti non sensibili al rispetto di un ambiente particolare e fragile come quello della montagna ed anche sul proliferare di questi impianti di risalita che, quando si esagera, deturpano il paesaggio oltre ad aumentare i rischi di dissesto idrogeologico, quello che più ha colpito e che però non è stato evidenziato dai mezzi di comunicazione di massa è stato l’aumento impressionante di ampie aree, limitrofe alle aree di partenza di questi impianti, adibite a parcheggio per accogliere il considerevole aumento delle auto dei turisti stessi. In termini di consumo di suolo queste aree possono considerarsi recuperabili in quanto non coperte da asfalto ma sicuramente il compattamento indiscriminato effettuato e in molti casi l’assestamento della copertura con breccino hanno alterato un’importante funzione del suolo che è quella legata all’infiltrazione dell’acqua. Quello che i mezzi di comunicazione hanno però riportato sono state le notizie sulle numerose esondazioni di piccoli torrenti e fiumi (l’Adige, ad esempio) attribuendole a eventi piovosi di notevole intensità ma che ormai, alla luce dei cambiamenti climatici in atto, eccezionali non sono più. È evidente che se si continua a impermeabilizzare il suolo o a ridurne drasticamente la capacità di infiltrazione in vaste aree proprio nei fondovalle adiacenti ai corsi d’acqua e dove sono collocati la maggior parte degli impianti di risalita la situazione peggiorerà ancor di più, visto l’ormai consolidata tendenza degli andamenti climatici che prevedono sempre più frequenti nubifragi di notevole entità (bombe d’acqua).
L’obiettivo dell’inversione di tendenza al progressivo consumo di suolo e, a maggior ragione, del consumo “zero” al momento pare proprio un’utopia!

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Digitalizzazione e sviluppo rurale nel nuovo contesto europeo

La crisi del COVID ha fatto emergere il ruolo e l’importanza della digitalizzazione come fattore di resilienza sociale e di sviluppo economico. L’Italia ha un grave ritardo in questo ambito, e il dibattito sull’utilizzo dei fondi del ‘Next Generation’ considera la trasformazione digitale una priorità.
Le aree rurali rappresentano un aspetto specifico di questo ritardo, e non solo in Italia, per colmare il quale è necessaria una riflessione specifica e una strategia mirata.
Perché la digitalizzazione rurale sia un fattore di sviluppo bisogna partire dalle cause del ‘digital divide’, che oltre alle carenze delle infrastrutture sono riguardano aspetti come il capitale umano e quello istituzionale-amministrativo.
Il primo passo da compiere in questa direzione è comprendere che la digitalizzazione non è solo un problema tecnologico. Le tecnologie digitali
consentono – anzi rendono necessario - un ripensamento complessivo dell’organizzazione sociale e della vita quotidiana: il lavoro, la mobilità, gli acquisti, l’intrattenimento, l’educazione, e la progettazione di tutti i beni e servizi che la sostengono. Ma devono essere i bisogni delle persone e delle comunità, e non la tecnologia, a guidare questo ripensamento.
Le sfida della digitalizzazione rurale è orientare lo sviluppo della tecnologia partendo dai problemi e non gestire i problemi partendo dalla tecnologia. Le tecnologie informatiche sono estremamente flessibili, e le forme che queste possono assumere dipende dalla capacità di
formulare una visione e di progettare. La digitalizzazione richiede inoltre importanti azioni nell’ambito legislativo, nell’organizzazione delle imprese, delle amministrazioni pubbliche e della vita familiare, per non parlare del ruolo fondamentale dell’educazione e della formazione.
Per affrontare le cause profonde del ‘digital divide’, le strategie di digitalizzazione rurale dovranno fare leva sulle specificità delle condizioni del territorio, sulle sue fragilità, sui suoi punti di forza, e partire dai bisogni e dalle aspirazioni delle popolazioni e delle imprese locali.

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La crociata dei fanciulli

Il 14 settembre dell’anno del Covid 19 è stato scelto come giorno d’inizio dell’anno scolastico 2020/2021. Nei giorni precedenti e, poi, anche in quelli che verranno,  si è molto  parlato e discusso di questa scadenza e, soprattutto, delle strane modalità con cui essa (non) è stata tempestivamente preparata. La stessa scelta della giornata d’inizio, a ridosso della prima sospensione delle attività scolastiche per dare spazio alla tornata elettorale del 20/21 settembre, ha suscitato molte perplessità, se non addirittura contrarietà,  in chi faceva notare l’assurdità di una scelta rigidamente imposta e perseguita con una serie addizionale di elementi di rischio. Appare molto più ragionevole la decisione di molte Regioni di spostarla a dopo le elezioni, a seggi smontati, ambienti sanificati e frequentazione di persone esterne alla scuola ridotta a zero.
La ripresa scolastica avviene letteralmente sulla pelle dei più innocenti protagonisti, e cioè i bambini e i giovani, convogliati in oltre 5,6 milioni circa di unità verso un caotico destino in realtà sconosciuto nei suoi aspetti organizzativi e nei rischi potenziali. Senza esagerare ci sembra di poter dire che sia in atto una nuova “Crociata dei fanciulli” che, storicamente, non è un esempio confortante.
La domanda che i solerti cronisti hanno rivolto agli esperti, veri e presunti, è stata sostanzialmente questa: ottimisti o pessimisti sull’esito della Crociata? È la stessa che ognuno si pone, ma non ci sembra il punto di partenza giusto.
Il fatto è che qui non solo si è in presenza di un sia pur gigantesco problema organizzativo di cui alcuni elementi sono stati dibattuti sino alla nausea senza evidenti soluzioni, considerato lo stato in cui avviene la partenza della Crociata.  Ma che ciò avviene senza aver preso minimamente in considerazione le esigenze del mondo della scuola in funzione dei suoi obiettivi formativi, dell’organizzazione della didattica, dei contenuti da adeguare ai tempi ed alle condizioni della nostra vita sociale ed economica in questi travagliati tempi della pandemia.

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Vegafobia, carnofobia e consumi alimentari

La nostra specie è indubbiamente onnivora ma piena di dilemmi come ha rilevato l’antropologo Michael Pollan (Pollan M: - Il dilemma dell’onnivoro – Adelphi, 2008) il quale, senza prendere posizione, descrive come l’uomo moderno si trova al vertice della catena alimentare e a differenza delle altre specie e delle società del passato può mangiare pressoché tutto con numerosi vantaggi ma anche esponendosi a infinite possibilità di manipolazione

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Agricoltura verticale e indoor: da utopia a realtà

L’agricoltura verticale o la coltivazione in ambiente interno, noti in termini anglosassoni come vertical farming o indoor farming, stanno acquistando sempre maggiore interesse da parte degli imprenditori, investitori e consumatori. I sistemi produttivi possono essere molto semplificati a scopo hobbistico per attività da svolgere nel tempo libero per produrre piccole quantità di ortaggi destinati all’autoconsumo oppure molto complessi e tecnologicamente avanzati per produzione di ortaggi su larga scala. Nel periodo di lockdown, durante l’emergenza sanitaria, molte persone sono state costrette a lavorare da casa, e così, si sono cimentate nella produzione di ortaggi da foglie, come insalate, piantine officinali etc.

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Fare agricoltura in aree urbane

La migrazione della popolazione dalle aree rurali a quelle urbane avviene da tempo ma è esplosa con la globalizzazione. Oggi, circa il 55% della popolazione mondiale già vive nelle metropoli, contro il 30% del 1930, mentre per il 2050, quando la popolazione mondiale raggiungerà i 10 miliardi di abitanti, si stima che la percentuale delle persone che vivranno nelle aree urbane salirà a circa il 70% del totale. Una trasformazione radicale che ha ripercussioni in diversi settori, dalla mobilità e circolazione delle persone alla ricettività abitativa, dalla produzione crescente di gas serra alle emergenze sanitarie. Non certamente ultime le problematiche legate alla qualità dell’alimentazione e alla sua disponibilità, per fare fronte alle quali, tra le diverse possibilità, vi è anche il ricorso crescente all’agricoltura urbana, attuata in forme e con finalità diverse.
Una forma che nel nostro Paese ha origini lontane (basti pensare agli orti di guerra nati durate il secondo conflitto mondiale), è rappresentata dagli orti urbani. Viene generalmente attuata dietro concessione per un periodo definito di spazi comunali inutilizzati, a fronte della corresponsione di un affitto più che altro simbolico, a singoli cittadini, spesso riuniti in associazioni, per la produzione di frutta e ortaggi destinati ai loro fabbisogni. Si tratta di superfici di dimensioni ridotte che, pur potendo essere collocate in ogni parte della città, in genere sono situate in zone periferiche e a volte degradate.   Oltre produrre frutta e verdura fresca a chilometro zero e a costi contenuti per gli affidatari, assolvono anche altre finalità, come: favorire la socializzazione tra le persone, ridurre la marginalizzazione, creare più attenzione verso l’ambiente e la biodiversità, ridurre il degrado di determinate aree. I metodi di coltivazione sono quelli legati alle tecnologie tradizionali, ispirati però a una gestione sostenibile. Questo tipo di agricoltura urbana si va sempre più diffondendo e non riguarda soltanto i grandi centri urbani. Secondo un’indagine condotta da Coldiretti, nel 2013 la superficie nazionale destinata agli orti urbani era di circa 330 ha e si è elevata a circa 450 ha nel 2017, con un incremento quindi di oltre il 36%.

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Quattro millenni e mezzo (almeno) di locuste

Nell’immaginario collettivo le cavallette sono da sempre sinonimo di voracità devastatrice. Tali insetti lasciano infatti il proprio segno nella storia da oltre quattromila e 500 anni, dal momento che gli antichi Egizi erano usi scolpire locuste sulle proprie tombe almeno dal 2470 a.C. Un’illustre invasione di locuste fu per esempio quella che devastò l’Egitto ai tempi del faraone Thutmose III, supposto coevo di Mosè. 

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Alimenti ultratrasformati

Sotto gli occhi di tutti vi sono i diversi movimenti d’opinione che soprattutto sulle reti telematiche danno avvio a moti sociali contrari a un’alimentazione basata sui criteri proposti dalla modernità privilegiando nuovi stili e in questo quadro solo abbozzato è da inserire una recente classificazione internazionale (NOVA worldnutritionjournal.org/index.php/wn/article/view/5/4) che suddivide gli alimenti consumati dall’uomo in base ai trattamenti ai quali sono sottoposti: Gruppo 1 Alimenti non trasformati o minimamente trasformati; Gruppo 2 Ingredienti culinari trasformati; Gruppo 3 Alimenti trasformati; Gruppo 4 Prodotti alimentari e bevande ultratrasformati. Nel quarto gruppo sono compresi molti ingredienti e tra questi zuccheri, oli, grassi, sale, antiossidanti, stabilizzanti, coloranti e conservanti usati nei prodotti ultralavorati e ultraprocessati con lo scopo di conservarli, imitare le qualità sensoriali degli alimenti degli altri gruppi, mascherare qualità sensoriali indesiderabili del prodotto finale o per dargli aspetti utili alla propaganda e commercializzazione. A questa categoria appartengono anche i cibi un tempo denominati junk food, i cosiddetti cibi spazzatura, in continua, forte crescita tra i giovani e nella popolazione di basso reddito non solo costituendo un pericolo per la salute, evento largamente segnalato, ma favorendo modelli di produzioni agro-zootecniche che non appartengono all’identità del nostro paese e sulle quali è necessario fare particolare attenzione.
Partendo dal principio che l’uomo è un onnivoro che deve alimentarsi con una grande varietà di cibi, non dimenticando che sola dosis facit venenum e che ogni alimento può divenire pericoloso se usato in modo non corretto, non si possono sottovalutare le considerazioni e le critiche che da più parti vendono sollevate per gli alimenti ultratrasformati. Allo stato attuale delle conoscenze, oltre ai rischi e pericoli di tipo tossicologico per questi alimenti usati in modo eccessivo e non appropriato, sono da considerare gli effetti che questi alimenti industriali hanno sul sistema alimentare nel suo complesso e sulla filiera dalla terra alla tavola soprattutto perché il cibo non è quello originario e naturale, ma quello dell’industria. 

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Sapremo mai come stanno veramente le cose sull’argomento “diete e sostenibilità”?

Più si legge sull’argomento e più si rimane confusi. Nei paesi ricchi, le scelte possibili sono fra la dieta mediterranea, la dieta vegetariana, la dieta vegana, la dieta fast food, la dieta delle grigliate in giardino, la dieta a base di pop corn al cinema e infinite altre amenità. Nei paesi poveri, purtroppo, il problema della scelta non si pone. In ogni caso, è inevitabile domandarci: ma quando saremo nove, dieci, undici miliardi, il nostro pianeta sarà ancora in grado di fornire cibo sufficiente per tutti, a prescindere dalla dieta che si sceglie? Leggendo qua e là, si trovano opinioni diverse e contrastanti, anche opposte, riguardo alle varie diete e alla loro sostenibilità. 
Cerco di riordinarmi le idee e di riassumere che cosa ho capito.
La dieta mediterranea, come è noto, è basata largamente su frutta e verdura, con poca carne di qualsiasi tipo, pesce, latticini, olio di oliva e un bicchiere di buon vino. A sentire chi la propone e la pratica, è salutare e gradevole. C’è da crederlo, visto che il biologo americano Ancel Keys che, per praticarla meglio si era trasferito dalle nostre parti, è morto a 101 anni.
La dieta vegetariana non utilizza alimenti di origine animale, con l’eccezione del latte e delle uova. Può essere altrettanto valida in termini di soddisfacimento di tutti i fabbisogni nutritivi.
La dieta vegana non ammette assolutamente alcun alimento di origine animale e, per questo, non può garantire l’apporto di tutti i nutrienti necessari, a cominciare dalla vitamina B12, dagli acidi omega 3, dal ferro assimilabile, per non parlare della vitamina D3 e del calcio. Pertanto, chi adotta questa dieta, per qualsiasi ragione lo faccia, deve per forza ricorrere alla integrazione con prodotti dell’industria chimico-farmaceutica per non incorrere in gravi problemi di salute del tipo anemie, rachitismo e fragilità ossea o scarso sviluppo del sistema nervoso. Dietro alla dieta vegana si muovono, ovviamente, interessi industriali, commerciali e dell’editoria che la sostiene.
Il fast food, le grigliate all’americana o l’abuso di pop corn e bibite gassate e zuccherate, non sono neanche da prendere in considerazione perché palesemente nocive.
Date queste premesse, la scelta da fare non sembrerebbe difficile. Ma, ci avvertono i vegetariani ed i vegani, state attenti perché una dieta che comprenda la carne non è sostenibile: gli allevamenti sono i maggiori e più pericolosi produttori di gas serra, insaziabili consumatori di acqua e di terra. 

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