“Il Nocciolo - Impianto e gestione delle coltivazioni da frutto” di Moreno Moraldi, è qui scaricabile per il lettori di Georgofili INFO
I legumi sono considerati un'alternativa vegetale ai prodotti carnei
grazie al loro profilo nutrizionale, i bassi costi di coltivazione ed il
ridotto impatto ambientale. Nonostante il loro relativamente alto
contenuto proteico, la qualità nutrizionale risente della carenza di
aminoacidi solforati e della presenza di fattori anti-nutrizionali,
quali acido fitico, polifenoli e α-galattosidi (che causano flatulenza).
Questi composti subiscono una parziale degradazione a seguito del
processo di maltazione, che consta in genere di tre diverse fasi:
macerazione, germinazione ed essiccazione.
L’attenzione nei riguardi delle attività zootecniche responsabili,
secondo alcuni, di più della metà delle emissioni totali di gas serra in
atmosfera, si è riaccesa recentemente, tanto da indurre il Comitato
Consultivo “Allevamenti e Prodotti Animali” della nostra Accademia dei
Georgofili a pubblicare un deciso commento sulla “newsletter” del 17
marzo scorso dal titolo “Improvvisazioni, falsità e clamori giornalistici sugli allevamenti e sui prodotti di origine animale. La necessità di un dialogo su vere basi scientifiche”.
Nel
commento si ribadisce che i dati ufficiali, anche della FAO (2019),
attribuiscono alla zootecnia non più del 14% della “colpa” globale
dell’inquinamento, per cui sarebbe opportuno guardare,
contemporaneamente, anche in altre direzioni, ad esempio ai trasporti
terrestri ed aerei, alle attività industriali non rispettose delle
norme, alle centrali elettriche a carbone o all’eccessivo dispendio
energetico per la climatizzazione degli ambienti pubblici, commerciali e
domestici.
Comunque, se vogliamo fare qualcosa per mitigare i guai
connessi agli allevamenti animali, ben vengano le proposte innovative e
non solo le critiche.
I due problemi che sembrano pesare di più in
questo momento sono l’allevamento dei ruminanti, che utilizzano
l’energia della fibra alimentare con emissione di metano, e l’impiego
praticamente esclusivo della soia come ingrediente proteico dei mangimi
un po’ di tutti gli animali allevati. Entrambe le attività spingono alla
criminale pratica della deforestazione di vaste zone con conseguenze
disastrose sulla “purificazione” dell’atmosfera dalla CO2 per
fotosintesi, la salvaguardia delle biodiversità e delle popolazioni
locali. Per non parlare della necessità di trasporti da un continente
all’altro, con tutto ciò che ne consegue anche in termini di ulteriore
inquinamento da gas serra.
Cosa possiamo fare? Ad alcuni è venuto
spontaneo proporre di divenire tutti vegani o, almeno, vegetariani,
magari eliminando dalla faccia della terra i ruminanti, dimenticando, ad
esempio, che la sola risicoltura contribuisce per l’11% della
produzione globale di metano. Il problema nel problema è che non è
possibile: non disponiamo di sufficienti aree coltivabili, non coperte
da foreste, adeguate a garantire a tutti i quasi otto miliardi di
abitanti di questo pianeta gli alimenti necessari a sostenere i
fabbisogni nutritivi, specialmente proteici, minerali, lipidici (omega
tre) e vitaminici (vitamina B12), dei bambini in special modo.
Negli ultimi trent'anni, a causa di pochi gradi di differenza della
temperatura stanno mutando le vite di specie animali selvatici, uccelli
che migrano prima, renne e caribù che si spostano quando non dovrebbero,
lupi e orsi che trasformano i loro comportamenti e molte specie animali
selvatiche stanno scomparendo, ma cosa avviene negli animali domestici
allevati dall’uomo e nelle loro produzioni a causa dei cambiamenti
climatici in corso e ancor più previsti? Quali le possibili prospettive
per i prodotti tipici dei quali l’Italia è ricca?
Quando si dice che
“Il clima è già cambiato” si elenca un susseguirsi di record che non
possono lasciare indifferenti per un’eccezionalità che è diventata la
norma con una tendenza in Italia alla tropicalizzazione del clima che si
manifesta con un’elevata frequenza di manifestazioni violente,
sfasamenti stagionali, precipitazioni brevi ed intense e sbalzi termici,
aumento delle temperature massime, periodi anormalmente siccitosi o
piovosi con precipitazioni fuori dalla norma. I cambiamenti climatici
sono oggetto d’attenzione soprattutto per gli effetti che gli eventi
estremi hanno sui centri abitati, le strade e le altre strutture umane.
Molto meno il pubblico considera le correlazioni tra i cambiamenti
climatici e il sistema alimentare e quali sono le possibili vie per
affrontare la crisi climatica attraverso le pratiche eco-sostenibili da
adottare nell’intera catena alimentare.
Molte sono le specie vegetali
e animali che siamo abituati a vedere sulle nostre tavole e che da
alimenti comuni potrebbero divenire prodotti privilegiati perché più che
scomparire potrebbero subire gli effetti di uno spostamento di fascia
climatica della loro produzione. Ciò significa che quello che oggi si
coltiva, si alleva, si conserva a latitudini temperate, domani potrebbe
trovare terreno e clima più favorevoli in altre parti del mondo, che
così potrebbero trarre benefici economici dai cambiamenti climatici.
Senza dimenticare che alcune coltivazioni potrebbero trarre vantaggio da
un ulteriore aumento della concentrazione di anidride carbonica in
atmosfera.
Sempre disponibile ogni qual volta una ricerca aveva bisogno di
sperimentare nuove soluzioni per l’allevamento del bovino da carne, Borgioli è stato anche la testimonianza di quanto un allevatore possa
amare profondamente i suoi animali, cui era legatissimo e per i quali
non smetteva mai di cercare soluzioni tecniche che garantissero le
migliori condizioni di benessere, investendo sulle strutture e sui
sistemi di gestione.
Nel mondo regole di grammatica alimentare stabiliscono se il cibo deve essere mangiato seduti o in piedi, sul pavimento o attorno a un tavolo, con la forchetta o le bacchette o con le dita, in quale ordine ogni piatto deve essere servito, stabilendo quali cibi possono o non possono essere tra loro abbinati, quali sono più adatti al mattino, mezzogiorno, sera o notte.
Un articolo molto interessante a firma di Di Sacco et al., riguardo ai
progetti di riforestazione a livello mondiale, è stato da poco
pubblicato sulla rivista Global Change Biology. Non c’è
dubbio che questi rappresentino necessarie soluzioni urgenti al
cambiamento climatico globale e le ambiziose iniziative di impianti
massali di alberi, molte già in corso, mirano a sequestrare enormi
quantità di carbonio per compensare in parte le emissioni antropiche di
CO2, che sono una delle principali cause dell'aumento delle temperature
globali e sulle quali dovremmo agire nell’immediato. Tuttavia, come ho
più volte scritto,, l’impianto di alberi mal pianificato ed eseguito
potrebbe addirittura aumentare le emissioni di CO2 e avere impatti a
lungo termine e deleteri sulla biodiversità, sui paesaggi e sui mezzi di
sussistenza.
Nell’articolo vengono analizzati i principali rischi
ambientali della piantagione di alberi su larga scala e gli autori
propongono “10 regole d'oro”, basate su alcune delle più recenti
ricerche ecologiche, per implementare il ripristino dell'ecosistema
forestale che massimizzi i tassi sia di sequestro del carbonio sia di
recupero della biodiversità, migliorando al contempo i mezzi per il
mantenimento nelle condizioni necessarie di vita.
Le 10 regole sono le seguenti: (1) Proteggere prima la foresta
esistente; (2) Lavorare insieme (coinvolgendo tutte le parti
interessate) (PERCHE' PIANTARE); (3) Puntare a massimizzare il recupero
della biodiversità per raggiungere molteplici obiettivi; (4) Selezionare
le aree appropriate per il recupero delle foreste; (5) Utilizzare la
rigenerazione naturale ove possibile (DOVE PIANTARE); (6) Selezionare le
specie per massimizzare la biodiversità (COSA PIANTARE); (7) Utilizzare
materiale vegetale resiliente (con variabilità genetica e provenienza
appropriate); (8) Pianificare in anticipo le infrastrutture necessarie,
la capacità e la fornitura del materiale per la piantagione (semi,
piantine forestali, ecc.); (9) Imparare facendo (learn by doing)
utilizzando un approccio di gestione adattivo (COME PIANTARE); e (10)
“Make it pay” garantendo cioè la sostenibilità economica del progetto.
Gli allevamenti e i prodotti di origine animale salgono periodicamente
all’onore delle cronache, non tanto per sottolineare il loro significato
socio-economico in ogni parte del mondo, ma perché su di essi vengono
riversate opinioni allarmistiche, riguardanti presunti catastrofici
impatti sull’ambiente e sulla salute umana.
Il Comitato Consultivo
dell’Accademia dei Georgofili per gli “allevamenti e i prodotti
animali”, in rappresentanza di una comunità scientifica molto ampia, che
conta in Italia centinaia di ricercatori operanti nei settori del
miglioramento genetico, della nutrizione e alimentazione animale, della
qualità dei prodotti e delle tecniche di allevamento, esprime una forte
preoccupazione per la diffusione di informazioni che non poggiano su
rigorose basi scientifiche e che diffondono dati molto lontani dal vero.
Gli
effetti di tali iniziative giornalistiche e propagandistiche, non
disgiunte talvolta da dichiarazioni di esponenti politici, possono
provocare un clima di smarrimento e di preoccupazione sul mondo dei
consumatori, senza che tutto ciò abbia un reale fondamento.
Ancora
più preoccupante è il possibile effetto delle campagne denigratorie nei
confronti dell’intero sistema delle produzioni animali che caratterizza
il nostro paese e dell’industria alimentare ad esso collegata che, come è
noto, rappresenta un valore straordinario del “made in Italy” e
contribuisce in maniera determinante a definire larga parte del
paesaggio italiano, un patrimonio nazionale riconosciuto anche dalla
costituzione. Tale preoccupazione si estende anche alle centinaia di
migliaia di lavoratori che sono all’interno del sistema delle produzioni
animali e vedono minacciato il futuro del loro lavoro da campagne
denigratorie dettate da logiche per loro incomprensibili perché lontane
dalla realtà dei fatti.
Uno dei più comuni elementi di quella che
potremmo definire “non corretta informazione” è rappresentato dal
contributo alla produzione di gas serra degli allevamenti e al loro
conseguente impatto ambientale. Quando viene riportato che la produzione
della carne pesa per il 20% delle emissioni totali di CO2, si diffonde
una informazione totalmente sbagliata, poiché questo dato non è
riscontrabile né all’interno delle statistiche della FAO (http://www.fao.org/faostat/en), né in quelle dell’Unione Europea (https://www.eea.europa.eu//publications/european-union-greenhouse-gas-inventory-2020), né in quelle dell’ISPRA (https://www.isprambiente.gov.it/it).
Dal 15 gennaio fino al 9 aprile 2021 è aperta la consultazione
pubblica per una “Revisione dei sistemi delle Indicazioni Geografiche
(IG) dell’UE per i prodotti agricoli e alimentari e le bevande”.
Con
i suoi regimi di qualità – indicazione geografica (IG), denominazioni
di origine protette (DOP) , Indicazione Geografica Protetta (IGP) e
Specialità Tradizionali Garantite (STG) – l’Unione europea tutela quasi
3.400 nomi di prodotti specifici, tra prodotti agricoli e alimentari,
prodotti della pesca e dell’acquacoltura e vini. L’obiettivo della
consultazione – spiega la Commissione – è raccogliere opinioni sulle
principali sfide individuate che dovrebbero essere affrontate durante
questa revisione pianificata.
Già nel novembre 2020 il presidente
dell’Accademia dei Georgofili, Massimo Vincenzini, a seguito di un
input giunto dall’Accademico Michele Pasca-Raymondo, Presidente della
Sezione Internazionale di Bruxelles e relativo alla apertura di una
consultazione pubblica da parte della UE sull’argomento IG, aveva
incaricato il Comitato consultivo dei Georgofili sulle Tecnologie
Alimentari di predisporre un documento che riflettesse la posizione
della Accademia sul processo di revisione in corso presso la UE sulle
IG.
Ciò al fine di trasmetterlo in via ufficiale sia alla Commissione
Europea che al MIPAAF, quali Organi competenti nelle future decisioni
finali, in materia.
Il Comitato consultivo di Tecnologie Alimentari
ha di conseguenza subito iniziato la discussione sull’argomento ed in
successive numerose riunioni telematiche, con il costante e fattivo
apporto da parte di tutti membri, ha elaborato il seguente documento
che sostanzialmente riflette la posizione dell’Accademia, unitamente ad
alcuni importanti suggerimenti e indicazioni che, a parere del
Comitato, appaiono di primaria importanza per il nostro Paese e per la
UE.
Sulle pratiche sleali arriva l’intesa tra la Distribuzione moderna (DM) e
il mondo agricolo, dopo quella tra DM e industria del Largo Consumo
(Federalimentare, Centromarca ecc). L’intesa di adesso integra e
completa doverosamente quella dello scorso novembre , perché senza i
produttori non si va da nessuna parte. Giustamente ADM, ANCC-Coop,
ANCD-Conad e Federdistribuzione sottolineano che “bisogna lavorare in
un’ottica di sistema su temi comuni per costruire rapporti di filiera
più trasparenti ed equi, a beneficio dei consumatori”.
Il 6 dicembre 2000 si tenne all'Accademia dei Georgofili in Firenze una
giornata di studio su: "I percorsi verdi" per la riscoperta e la
valorizzazione del territorio rurale. Il tema, per l'Italia, era di
recente introduzione e fui felice (e di questo ringrazio l'Accademia),
insieme agli altri relatori, di aver contribuito a fare un po' di
chiarezza sul significato del termine, le tipologie di percorsi verdi,
le esperienze e le proposte di sviluppo.
Da allora il tema si è
molto sviluppato, così come le iniziative e le realizzazioni di percorsi
in tutta Italia e in Europa, specialmente a livello di recupero di
molti tratti di ferrovie dismesse e di realizzazione lungo le vie
d'acqua.
A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, nuove entità
fitopatogene si sono diffuse nel nostro Paese in forma epidemica
causando gravi danni a colture importanti. Gli interventi di lotta hanno
consentito a tutt’oggi di contenere i danni ma con esito più o meno
soddisfacente, a seconda dei patogeni coinvolti. Si tratta, in
particolare, del virus della ‘Sharka’ o Vaiolatura delle drupacee (Plum pox virus, PPV), del fitoplasma della Flavescenza dorata della vite (Grapevine flavescence dorèe, GFD) e del batterio Xylella fastidiosa (XF) che ha colpito l’olivo.
PPV è un potyvirus (Potyviridae)
caratterizzato da particelle filamentose, flessuose, lunghe circa 760
nm, trasmesse da afidi in modo non-persistente. Gli afidi che infestano
le drupacee, quali Myzus persicae, Brachycaudus helichrysi, Hyalopterus pruni
ne sono i vettori più efficienti e lo sono anche, più raramente, afidi
parassiti di altre piante. Il virus è comparso all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso nella provincia di Cuneo diffondendosi in
forma epidemica sull’ albicocco, coltivazione allora ampiamente
praticata nella zona di Saluzzo, infettando anche peschi e susini. I
sintomi su albicocco consistono in maculatura anulare ben evidente e
assai tipica (tanto da consentire un primo approccio diagnostico, in
pieno campo), clorotica sulle foglie e necrotica sui frutti che sono poi
soggetti a cascola prima dell’invaiatura. Le perdite di raccolto sono
gravi, molto spesso totali nelle piante giovani e nelle cultivar più
suscettibili.
La presenza di GFD è stata segnalata in Italia già
nell’ultimo dopoguerra ma la sua espansione epidemica è iniziata
dall’Italia nord-orientale negli ultimi decenni del secolo scorso
interessando poi rapidamente tutta la Valle Padana e parte dell’Italia
centrale. Il fitoplasma associato alla malattia appartiene al gruppo
ribosomico 16Sr-V ed è trasmesso dalla cicalina Scaphoideus titanus
in modo persistente-propagativo. La distribuzione territoriale del
patogeno è strettamente legata a quella dell’insetto vettore tanto che
nell’Italia meridionale, dove GFD si riscontra raramente, S.titanus
non è insediato in forma stabile malgrado vi sia stato ritrovato in più
di un’occasione. Le viti colpite presentano vivace colorazione
perinervale o settoriale delle foglie, rossa su vitigni ad uva ‘nera’ e
gialla su quelli ad uva ‘bianca’, cui seguono accartocciamento infero e
ispessimento della lamina, acinellatura, necrosi di foglie, tralci e
frutti, morte. I sintomi, abbastanza tipici nella fase iniziale della
malattia, divengono in seguito confondibili con altri di differente
eziologia, come infezioni da ‘Bois noir’, infestazioni di cicaline,
carenze e squilibri nutrizionali.
Infezioni di X. fastidiosa a
carattere epidemico sono state individuate nel 2013 su piante di olivo
nel Salento, in Puglia. Alcune osservazioni raccolte con le prime
indagini, come la presenza di focolai di infezione distinti,
suggeriscono però che esso fosse già presente da qualche anno. Si tratta
di un batterio Gram-negativo, xilematico, trasmesso da cicaline
Cercopidi dei Generi Phylaenus sp. e Neophylaenus sp. La
trasmissione da parte di questi insetti presenta modalità che richiamano
sia il processo di tipo non-persistente (assenza del periodo di latenza
nel vettore) sia quello di tipo propagativo (moltiplicazione
dell’agente patogeno nel vettore). Di X. fastidiosa sono note diverse ‘varianti’ o ‘subspecie’ tra le quali la ‘pauca’
è quella identificata in Puglia. Le piante di olivo reagiscono
all’infezione con disseccamenti dapprima limitati alla vegetazione più
giovane, poi estesi al resto della chioma determinando la morte di rami,
branche e infine dell’intera pianta. Una volta nota la presenza della
malattia, detti sintomi ne consentono il riconoscimento visivo.
Tuttavia, poiché alterazioni simili possono essere indotte anche da
altre cause (funghi vascolari, danni da agenti atmosferici, ad esempio),
le fasi iniziali di infezione da X. fastidiosa possono anche essere ignorate per un certo tempo favorendo l’insediamento del patogeno.
Dalla più profonda antichità i bambini hanno conosciuto la preparazione
degli alimenti vivendo in cucina, fino a quando non sono arrivati i
fumetti e poi i cartoni animati del cinema e della televisione.
La giornalista freeelance Natalie Berkhout ci informa dalle pagine di
“All About Feed” che negli Stati Uniti è stata inoltrata a chi di
competenza la richiesta per l’approvazione dell’impiego dei semi e
pannelli di Cannabis indica come ingrediente dei mangimi. Una
volta approvata la richiesta, i semi ed i pannelli potranno essere
legalmente usati come mangime commerciale per le galline ovaiole.
Il sapore, i profumi e gli aromi del pane toscano DOP, insieme ad altre
sue peculiari caratteristiche organolettiche, nutrizionali e
salutistiche, potrebbero dipendere in larga misura dalla complessa
struttura delle comunità di microrganismi agenti della fermentazione.
La
DOP, denominazione di origine protetta, è stata conferita al pane
toscano ottenuto mediante l’esclusivo impiego sia di farine di grano
tenero tipo “0”, contenenti il germe di grano e prodotte da varietà di
frumento coltivate, stoccate e molite in Toscana, sia del lievito madre
(o lievito naturale, impasto acido). Tale lievito madre (in inglese
"sourdough”), rappresentato da una porzione di impasto proveniente da
una precedente lavorazione, è in grado di avviare la lievitazione
grazie al complesso sistema biologico costituito da lieviti e batteri
lattici. Diversi studi effettuati in tutto il mondo hanno da tempo
dimostrato che l’utilizzazione del lievito madre conferisce
caratteristiche sensoriali e nutritive uniche al pane, incrementandone
aroma e gusto, migliorandone il volume e la consistenza, prolungando la
sua shelf-life, e aumentando il suo valore nutrizionale e nutraceutico.
In
ogni lievito madre utilizzato per la produzione dei vari pani e
prodotti da forno tipici, tra cui il pane di San Francisco, il pane di
Altamura, il pane toscano, insieme a panettone e pandoro, si sviluppano
popolazioni di microrganismi peculiari, in relazione al processo di
produzione (temperatura, pH, modalità dei rinfreschi), al tipo di
farina utilizzato e alle diverse condizioni ambientali. Per questo ogni
lievito madre è strettamente legato all’area geografica di origine, al
territorio in cui viene prodotto. In generale, i lieviti che più
comunemente sono stati identificati in vari tipi di lievito madre
appartengono alle specie Saccharomyces cerevisiae, Kazachstania exigua, Kazachstania humilis, Yarrowia keelungensis e Torulaspora delbrueckii, mentre i batteri lattici appartengono al genere Lactobacillus, come le specie L. plantarum, L. brevis, L. sanfranciscensis, L. fermentum, L. curvatus e L. sakei.
È importante sottolineare che alcune delle specie di batteri lattici
vivono in una stretta associazione metabolica con particolari specie di
lieviti; per esempio L. sanfranciscensis (così chiamato perché fu
isolato per la prima volta dal pane di San Francisco), che rappresenta
la specie batterica predominante nel lievito madre, fermenta in maniera
molto efficiente il maltosio contenuto nelle farine e si trova spesso in
simbiosi con le specie di lievito incapaci di utilizzare il maltosio,
come K. humilis e K. exigua.
Nella scorsa primavera, con l'attenuarsi delle restrizioni sul
Coronavirus in tutto il mondo, molti di noi si sono riversati nei parchi
per una passeggiata rigenerante, per prendere un po’ d’aria fresca ma,
soprattutto, per riprendere quel contatto, anche solo visivo, con la
natura.
Ritemprarsi nella natura rappresenta una necessità per
«staccare», anche se temporaneamente, dal ritmo e dalle condizioni in
cui conduciamo le nostre vite alle quali gli stili di vita della società
contemporanea impongono ritmi pressanti. Già nel Seicento, il
matematico, fisico, filosofo e teologo francese Pascal (cui è stata
intitolata l’unità di misura della pressione) scriveva: «Quando mi sono
messo talvolta a considerare le diverse agitazioni degli esseri umani e i
pericoli e le pene a cui si espongono (…) ho scoperto che tutta
l’infelicità degli esseri umani deriva da una sola cosa e cioè non saper
restarsene tranquilli in una stanza…». Nel nostro caso potremmo dire
«tranquilli in un parco».
Quante volte abbiamo infatti pensato o
parlato, o udito parlare e letto delle problematiche «urbane» e dei
possibili rimedi ai mali, concludendo, invariabilmente, che essi
rappresentano logiche conseguenze o inevitabili concomitanze di
situazioni da cui, tuttavia, otteniamo molti vantaggi? Quante volte,
dunque, tutto ciò ci è parso praticamente irrimediabile?
Tuttavia,
soprattutto nelle grandi città con periferie trasformate in dormitori
privi di servizi e aree per svago, le condizioni di vita, non solo
socioeconomiche, potrebbero influenzare notevolmente i paesaggi che le
persone trovano durante queste passeggiate, in particolare la quantità
di verde che è probabile che vedano e della quale possono realmente
fruire.
La correlazione tra copertura arborea urbana e reddito è ben
documentata nelle città di tutto il mondo. Questo è spesso il
sottoprodotto della disuguaglianza storica: le decisioni sulle
infrastrutture prese decenni fa, comprese quelle sulla creazione di aree
verdi, hanno beneficiato (ingiustamente) soprattutto i quartieri
ricchi. Ciò continua ad avere un impatto sui servizi forniti oggi ed è
un fattore di «disequità economica e sociale attuale e futura (chiedo
scusa per l’uso di questo neologismo, ma non è lo stesso di
disuguaglianza, spesso usato al suo posto). In questo contesto assumono
rilevanza le «foreste urbane» per i vantaggi che esse forniscono alle
persone, il che significa che la loro presenza o assenza può contribuire
creare effetti diversi in termini di salute, ricchezza e benessere
generale.