Le api mellifere sono state considerate un importante esempio di
perfetta struttura sociale e di buon governo. Esiodo nel libro Teogonia,
del 700 a.C., paragonò le api operaie agli uomini che nutrono le donne,
quest’ultime paragonate agli sfaticati fuchi, che “restando dentro gli ombrosi alveari | l'altrui fatica nel loro ventre raccolgono”. Nel panorama politico italiano, l’acronimo ape è stato utilizzato,
insieme all’immagine dell’insetto, dall’apparenza fumettistica, nel
2009, dagli Autonomisti per l’Europa - A.P.E.; nonché dalla formazione politica Alleanza popolare ecologista nel cui logo l’ape è raffigurata, con due sole ali. Sempre nel 2009 è nato il partito politico API Alleanza per l’Italia, che è stato ufficialmente sciolto nel 2016, e nel cui logo, del 2011, compaiono due api sempre con due sole ali.
Le ricorrenti diatribe e proteste che ricorrono in occasione del fermo pesca stanno dimostrando l’esistenza di una crisi del sistema nel quale vi è anche un passaggio dalla raccolta o caccia del pesce al suo allevamento o coltivazione, come in tempi passati più o meno lontani era avvenuto per i vegetali e soprattutto per altri animali con contrasti anche aspri e non ancora terminati tra cacciatori e agricoltori dei quali è segno il primo biblico delitto dell’agricoltore Caino che uccide l’allevatore Abele. Un passaggio dalla raccolta all’allevamento del pesce trova una migliore comprensione considerando lo studio di Brian Fagan (Fagan B. - Fishing: how the sea fed civilization - Yale University Press 2017) su come la pesca, non come sport ma come sostentamento, è stata un elemento indispensabile nella crescita della civiltà fornendo cibo in modo sostenibile per consentire alle città, alle nazioni e agli imperi di crescere.
Ronald Reagan disse che causavano l'inquinamento atmosferico (è vero,
non è una fake news, controllate). I ricercatori affermano che
raffrescano l’aria, limitano l’inquinamento e forniscono tutta una serie
di benefici sul nostro benessere. Gli agenti immobiliari dicono che
aumentano i valori abitativi. Alcune persone li temono per le loro
dimensioni, altre li “odiano” perché sporcano, danneggiano le
pavimentazioni, ecc. Non c’è dubbio che esistano opinioni divergenti
sugli alberi!
Se considerato da sole, c'è una base di verità per
ciascuna di queste affermazioni. Purtroppo, anche in quella di Reagan,
ma in altri articoli abbiamo già spiegato che è una piccola verità che
va contestualizzata.
Molti alberi emettono gas organici volatili
nell'atmosfera. Spesso sentiamo l'odore dei terpeni emessi dai pini e
anche da altre conifere, ma anche da molte delle più comuni latifoglie.
Ecco
perché il presidente Reagan ha incolpato gli alberi per l'inquinamento
atmosferico. Questo composti organici volatili di origine biogenica
(BVOCs) sono dei precursori della formazione di ozono nella bassa
troposfera. L'ozono è uno dei principali componenti dell'inquinamento
atmosferico che colpisce l'uomo, ma i gas organici degli alberi non
vengono convertiti direttamente in ozono. La reazione è catalizzata
dagli ossidi di azoto le cui sorgenti sono concentrate soprattutto nelle
aree industrializzate e densamente popolate dove la presenza di
agglomerati urbani e di fabbriche incide fortemente sullo stato di
inquinamento dell’aria. La fonte di maggior emissione è rappresentata
dal traffico veicolare, in particolar modo nei centri urbani, mentre
nelle periferie risulta dominante la produzione industriale, in
particolare quella delle centrali energetiche a combustione fossile; di
una certa entità sono anche i contributi dati dagli impianti di
riscaldamento.
Quindi la colpa è nostra…come sempre. Mentre emettono
gas organici volatili, gli alberi assorbono una varietà di inquinanti
atmosferici, inclusi l'ozono e gli ossidi di azoto, riducendone le
concentrazioni nell’aria che respiriamo. Nell'atmosfera, gli ossidi
nitrici vengono convertiti in acido nitrico, che gli alberi assorbono
attraverso i loro pori o stomi. L'ozono nell'aria sarebbe dunque più
alto se non fosse per l'assorbimento di ossidi nitrici da parte degli
alberi. È la quantità di ossido nitrico che determina i livelli di ozono
in molte regioni, non la quantità di BVOCs che le piante hanno sempre
prodotto naturalmente, ma che vengono prodotti in maggior quantità in
situazioni di stress ambientali. E chi è il colpevole maggiore delle
situazioni di stress. Ancora una volta è spesso l’uomo a mettere gli
alberi in condizioni di stress e, quindi, ad aumentare la produzione di
composti organici volatili.
Dopo un cammino che è stato lungo e incerto, giunge ad una conclusione,
non sappiamo quanto definitiva, il percorso legislativo delle norme che
riguardano la concessione al Governo di “particolari poteri di veto in
caso di acquisto di partecipazioni societarie o di aziende o rami di
aziende, oppure per impedire l’adozione di determinate delibere
societarie, atti e operazioni da parte di soggetti stranieri” la
definizione è ripresa dall’articolo di N.Lucifero a cui si rinvia (http://www.georgofili.info/contenuti/risultato/15026).
Ciò
è avvenuto con il decreto legge 23/2020 poi convertito in legge che
riguarda l’emanazione di norme fortemente vincolanti della libertà di
impresa nel caso di investimenti esteri in condizioni che richiamino
esigenze superiori di “sicurezza e di ordine pubblico” e la strategicità
di specifici settori o comparti economici. Fra le novità del d.l 23 vi è
l’inserimento fra i fattori determinanti previsti dal Reg. 2019/452
articolo 4, par. 1), lettera c) anche la “sicurezza
dell’approvvigionamento di fattori produttivi critici, tra cui l’energia
e le materie prime nonché la sicurezza alimentare”.
Quest’ultima
intesa nel senso di “food security” ha assunto con l’epidemia
un’importanza rilevante ed ha riportato, fra i temi in discussione per
un futuro più consapevole, la gestione degli approvvigionamenti
alimentari. Tutto ciò ha fornito lo spunto per completare il quadro
normativo avviato nel lontano 1994 delle misure eccezionali da
introdurre nell’agroalimentare in casi gravissimi.
L’opinione
pubblica italiana ha sempre mostrato un’elevata sensibilità alle
questioni alimentari, ma la questione non è semplice come si potrebbe
credere e non può essere affrontata superficialmente. Già in passato ed
ancora di recente, quasi a “furor di popolo”, si tentò di intervenire
sull’agroalimentare introducendo poteri speciali mutuati dai comparti in
cui questi erano già in vigore, con risultati sostanzialmente nulli.
Giovanni Paolo Martelli è stato lo Scienziato che ha dedicato la sua vita di studioso ai virus delle piante, un gentiluomo e un grande Maestro. Tra i fondatori della scuola barese di patologia vegetale era conosciuto e stimato in Italia e all’estero. Ha dedicato la sua vita di studioso alla salute delle piante, un tema molto sentito dall’opinione pubblica, fonte di alimenti per la sopravvivenza dell’umanità. Il Professore, stimato anche dai virologi che si interessano della salute umana, ha lavorato in silenzio per decenni con risultati straordinari. Con l’inizio di questo anno ci ha lasciati ,in un momento in cui un nuovo terribile invisibile virus diveniva una grave sciagura per l’intera umanità, purtroppo senza un suo cospicuo contributo per sconfiggerlo.
Davvero bella iniziativa quella della Società Italiana di Scienza del
Suolo di realizzare un libro, curato dai colleghi Paola Adamo, Gian
Franco Capra, Andrea Vacca e Gilmo Vianello e pubblicato dalla Casa
Editrice Edizioni Dell’Orso, in cui sono raccolti, regione per regione, i
proverbi legati più direttamente al suolo nei rispettivi dialetti.
Il
nostro Paese ha avuto da sempre una forte vocazione agricola e, pur
nella sua evoluzione, ha sempre tenuto viva la tradizione e coltivato la
sua storia. In questa ottica si trovano quindi miriadi di proverbi e
modi di dire risalenti anche a tempi lontanissimi e che riguardano
l’agricoltura in generale, da quelli legati agli andamenti
meteorologici, alle colture e ai raccolti.
L’Union of European Academies for Sciences applied to Agriculture, Food
and Nature (UEAA) ha predisposto una lettera aperta sul tema “COVID-19
and Agriculture for Food and Nutrition Security” indirizzata alle
Nazioni Unite, al G-20 e ai Governi Nazionali. La lettera mette in
evidenza che mentre la pandemia di COVID19 sta rappresentando una grave
crisi di salute pubblica mondiale, anche i sistemi agro-alimentari di
tutto il mondo sono fortemente colpiti.
Anthèlme Brillat Savarin nella IX meditazione della Fisiologia del Gusto o Meditazione di Gastronomia Trascendentale
(1825) afferma che la scoperta di un manicaretto nuovo fa per la
felicità del genere umano più che la scoperta di una stella. Stelle e
manicaretti sono un'opposizione ampiamente superata, perché oggi a
fisica, sia pure di branche diverse, permette di individuare nei cieli
buchi neri e nuove stelle e al tempo stesso la "fisica della materia
soffice" consente di scoprire in cucina il segreto degli spaghetti al
dente. Sempre questo secondo tipo di fisica sta dimostrando che nella
pasta la forma è sostanza, perché in taluni piatti i bucatini non danno
gli stessi risultati degli spaghettoni o spaghetti, per quale ragione i
maccheroni rigati non sono omologabili a quelli lisci e, infine, per
quale motivo vi sono tanti formati di pasta.
La materia soffice (soft matter)
è un vasto insieme di materiali molto diversi, con proprietà intermedie
tra lo stato solido e liquido e che si presentano come fluidi caotici e
viscosi o come solidi disordinati e deformabili. Questa materia dai
comportamenti difficili da prevedere e che comprende gran parte degli
alimenti è stata studiata da diverse scienze tra le quali la chimica e
oggi anche dalla fisica della materia soffice (soft matter food physics)
della quale Pierre-Gilles de Gennes, Premio Nobel per la fisica (1991) è
considerato padre. La fisica della materia soffice sta ora aprendo
nuovi orizzonti interpretativi e applicativi sui comportamenti della
pasta fresca e secca nelle loro differenti tipologie e forme, come
dimostrano molte pubblicazioni, tra le quali quelle di Thomas A. Vilgis
(Vilgis T. A. - Soft matter food physics — The physics of food and cooking
- Rep. Prog. Phys. 78, 5 november 2015) e di Prabin Lamichhane e
collaboratori (Prabin Lamichhane, Alan L. Kelly, Jeremiah J. Sheehan - Symposium review: Structure-function relationships in cheese - J. Dairy Sci. 101:2692–2709, 2018).
Gli
italiani sono quasi ossessionati dalla cottura della pasta secca di
grano duro con dopo la cottura deve essere “al dente” e cioè morbida ma
non collosa all’esterno mantenendo un centro più duro. Questo risultato è
stato oggetto di una quasi infinita serie di prove, discussioni,
dispute e interpretazioni. Di recente la pasta al dente è stata oggetto
di ricerche da parte della fisica della materia soffice studiando
separatamente le modificazioni fisiche dell’amido e del glutine,
costituenti la pasta secca, sotto l’azione della temperatura in ambiente
acquoso, consentendo la costruzione di equazioni e di modelli
interpretativi che permettono un controllo sistematico dei fenomeni
connessi alla produzione e cottura della pasta secca che assicuri il
desiderato carattere di essere al dente e non scotta.
Una comunicazione di qualche giorno fa ha annunciato che la Biblioteca
dei Georgofili compare nel Catalogo Mondiale (WorldCat). Una bella
notizia che rende lieti gli utenti del Mondo.
Desideriamo tuttavia in
questa sede rintracciare le radici di questo evento che datano ormai da
quasi trenta anni, quando la Biblioteca dell’Accademia per la prima
volta nella sua storia compare nel Mondo.
E’ necessario un breve
excursus storico, poiché come sappiamo dalla storia degli eventi non
possiamo prescindere senza tema di commettere sviste ed errori.
Ecco
dunque alcuni dati: dal 1991 la Biblioteca dell’Accademia dei Georgofili
si era dotata di un SW per la catalogazione del suo patrimonio
librario. Erano gli anni in cui le biblioteche più piccole stentavano ad
avvicinarsi all’universo SBN (Servizio Bibliotecario Nazionale) e la
scelta ricadeva necessariamente su software di grande prestigio e di
robusta struttura, ma restava lontana la possibilità di far parte di una
rete bibliotecaria che avrebbe conferito visibilità al patrimonio
librario e documentario.
Questo non fu il caso però della Biblioteca dell’Accademia dei Georgofili.
Il
27 maggio 1993 parte della sede accademica fu distrutta dall’atto
dinamitardo di stampo mafioso: perirono cinque persone e molti furono i
feriti. Il patrimonio archivistico e bibliografico finì in buona parte
sotto il cumulo delle macerie da cui fu estratto dai vigili del fuoco
nei giorni immediatamente successivi al tragico evento e trasportato in
altri locali (Salone Magliabechiano presso la Galleria degli Uffizi) dai
numerosi volontari accorsi - fra cui molti bibliotecari e archivisti
degli istituti fiorentini - e da questi ricollocati nelle diverse
sezioni che componevano la biblioteca e l’archivio dell’Accademia.
Fu
recuperato anche l’ultimo salvataggio del DB della biblioteca su floppy
disk che miracolosamente era rimasto indenne e perfettamente leggibile,
nonostante che il tavolo di lavoro e il PC su di esso sistemato fossero
andati completamente distrutti. Il lavoro avviato solo da poco tempo
non era andato pertanto perduto e fu possibile recuperarlo.
Il
Presidente Franco Scaramuzzi con la tenacia, competenza ed energia che
lo hanno sempre contraddistinto, unitamente a Carla Guiducci Bonanni
allora direttore della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, vollero
che ogni fase del lavoro venisse documentata affinché ne restasse
testimonianza e memoria.
Fra pochi anni ricorrerà il 30° anniversario
della strage dei Georgofili e grazie proprio alla documentazione
conservata, sarà facile ripercorrere il cammino di quei giorni, di quei
mesi densi di attività e di progetti. Chi scrive era presente e la
memoria personale si fonde con gli attestati voluti tramandare affinché
nulla si perdesse. La storia come abbiamo avuto modo di ripetere in più
di un’occasione ha spessore e grave errore sarebbe quello di trarne
affermazioni che non avessero fondamento nei fatti e nelle fonti
trasmesseci.
È una delle aree geografiche con le più alte aspettative di vita al
mondo e mostra statistiche sanitarie al top per una molteplicità di
patologie. Eppure la provincia di Treviso, patria del Prosecco, è una
delle più battagliate del Belpaese a causa degli agrofarmaci utilizzati
in viticoltura. Se da un lato il successo delle bollicine trevigiane ha
portato crescita economica e reputazionale, dall'altro ha infatti
inasprito le tensioni fra cittadinanza e viticoltori, accusati questi
ultimi di avvelenare il territorio.
Non tutti i virus sono nostri cattivi nemici come il Coronavirus
tristemente famoso, responsabile della Covid-19, che chissà quando ci
permetterà di tornare alla nostra vita di tutti i giorni. Ci sono anche
dei virus che non se la prendono con gli animali, ma solamente con
batteri specifici. Sono i virus batteriofagi. Se i batteri bersaglio dei
batteriofagi sono patogeni per noi e per i nostri animali, come ad
esempio i Clostridi o i Campylobacter, i batteriofagi ce ne liberano a
tutto nostro vantaggio.
Come ho già scritto in una nota pubblicata su questa rubrica nel maggio 2019 (http://www.georgofili.info/contenuti/risultato/12385),
il problema dell’inquinamento ambientale legato alla coltura della vite
è molto sentito in Europa, e la ricerca è ancora oggi prevalentemente
orientata a ridurre l’uso dei fitofarmaci attraverso la creazione di
nuove varietà, ottenute da incroci tra la vite europea e varie specie di
vite non europee, dotate di resistenza alle malattie fungine.
Questa
linea di indagine, perseguita da varie Istituzioni sperimentali, ha
portato nel 2015 all’iscrizione nel nostro registro varietale di 10
nuovi vitigni ibridi da vino bianchi (B.) e neri (N.), ottenuti in
Italia dall’Università di Udine con la collaborazione dell’Istituto di
Genomica Applicata e dei Vivai Cooperativi Rauscedo. Tali vitigni hanno
avuto origine da incroci tra viti americane ed asiatiche, a loro volta
incrociati con varietà di origine francese, ed è noto che mentre a tre
di essi i Costitutori hanno attribuito nomi completamente nuovi
(Fleurtai, B., Soreli, B. e Julius, N.), agli altri sono stati assegnati
i nomi del genitore europeo, integrato da un aggettivo di fantasia
(Cabernet Eidos, N., Cabernet Volos, N., Merlot Kanthus, N., Merlot
Khorus, N., Sauvignon Kretos, B., Sauvignon Nepis, B. e Sauvignon Rytos,
B.).I vitigni dell’Università di Udine stanno avendo una buona
diffusione nelle regioni in cui sono ammessi alla coltura
(Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige, Veneto e Lombardia), dove
le loro qualità si stanno rivelando di ottimo livello anche sotto il
profilo della gestione sanitaria, che richiede solo 2-3 trattamenti
annui per la difesa anticrittogamica contro i 12-15 necessari per le
varietà di Vitis vinifera.
Premesso quanto sopra, è evidente
che in generale i vitigni ibridi di ultima generazione, prodotti in
Italia o in altri Paesi, possono essere un mezzo importante per rendere
più sostenibile la viticoltura, ma per alcuni di essi non si può
dimenticare il problema legato alla denominazione, poiché utilizzare un
vitigno derivato da ibridazione interspecifica che abbia il nome del
genitore “noto” può illudere i viticoltori che la varietà “resistente”
sia identica a quella “originale”.
Il problema è molto presente in
Francia perché, oltre a quelli italiani, molti ibridi prodotti nel
Centro-Nord Europa (Svizzera, Austria, Germania ed Ungheria) hanno
utilizzato nomi che richiamano i vitigni francesi usati nell’incrocio e
tali nomi, oltre a creare equivoci, “disturbano” l’immagine
“tradizionale” della viticoltura d’oltralpe.
Gli inglesi parlerebbero di boring, ma prossimo a diventare annoying,
con riferimento al tema della connessione Covid 19, disastri ecologici
e, questo non deve mai mancare, agricoltura intensiva. Comunque, bene ha
fatto “Georgofili Info” a riprendere l’articolo da Repubblica dell’11
maggio (http://www.georgofili.info/contenuti/la-deforestazione-aumenta-il-rischio-di-nuove-pandemie/15023);
esso infatti, mi consente di esprimere, con la necessaria fermezza, una
serie di puntualizzazioni su questo malvezzo di riferire ogni disgrazia
umana alla deforestazione e all’agricoltura (specie se intensiva).
In
primo luogo, i rischi da virus “mantenuti in vita” da animali selvatici
sono reali, ma hanno ben poco in comune con la deforestazione, semmai
col fatto che sempre più vengono facilitati gli scambi con i mercati umidi (specie
in Cina e, guarda caso da lì è venuto il SARS-CoV-2, non dal Brasile) e
con i fenomeni turistici più o meno estremi nelle aree naturali, cui –
ovviamente – si aggiunge la facilità di diffusione legata alla
globalizzazione (come constatiamo ogni giorno in agricoltura con le
forme aliene). Per favore, si legga al riguardo “Predicting wildlife
reservoirs and global vulnerability to zoonotic Flaviviruses” di P.
Pandit et al. (2018) su Nature Communications.
In
secondo luogo, pur senza negare un ruolo agli squilibri ambientali, ci
si deve render conto che le pandemie non si evitano “bloccando nelle
foreste i virus”; anche perché le popolazioni locali fanno “man bassa”
di quanto le foreste offrono: quante scimmie ed “altro” affumicati sui
banchetti del mercato di Kabinda (RD Congo), dove vado spesso, e quanti
turisti arrivano in simili località. Piuttosto ascoltiamo gli esperti e
non i presunti tali; essi dicono che vi è la necessità di controlli
sanitari per l’identificazione precoce di nuovi patogeni potenzialmente
zoonosici nelle popolazioni di animali selvatici, al fine di prevedere
interventi tempestivi (Jones et al, 2008, Global trends in emerging infectious diseases, Nature);
concetto confermato con parole analoghe da UNEP Frontiers 2016 Report
Emerging Issues of Environmental Concern nel capitolo delle zoonosi.
Topi, pipistrelli, serpenti, insetti e altri artropodi sono gli animali che, più degli altri, suscitano in molti un’irrazionale e persistente paura e repulsione. Singolare è quella nei confronti del Colubro leopardiano, Zamenis situla, ritenuto il più bel serpente d’Italia per la sua elegante livrea; il rettile che afferisce alla famiglia Colubridae, nella Magna Grecia, veniva considerato sacro ad Asclepio dio della medicina, delle guarigioni e dei serpenti, ed era venerato, nei santuari dedicati al dio.
Numerosa è la bibliografia sulla pasta, un alimento insostituibile dell’intera popolazione italiana, un’identità collettiva, uno stereotipo accettato con naturalezza da una comunità nazionale, un cibo che ha travalicato i confini del nostro paese. Non molte sono le ricerche storiche e sociologiche ben documentate e approfondite su questo alimento e oggi questa lacuna è colmata dal bel libro Il Paese dei Maccheroni. Storia sociale della pasta (Donzelli Editore, Roma, 2019) di Alberto De Bernardi Professore Ordinario di Storia Contemporanea dell’Università di Bologna e dal quale si possono trarre molte considerazioni.