A crisi di governo conclamata, la noia, l’indifferenza, la delusione, a
volte la rabbia, sentimenti con cui gli italiani guardano ormai alle
vicende della politica nazionale, circondano anche l’ennesimo toto-nomi
per la poltrona di ministro dell’Agricoltura dopo le dimissioni
volontarie della ministra Teresa Bellanova che hanno aperto la strada
all’uscita di scena del governo Conte bis.
Il ministero di via XX settembre, glorioso perché su quella poltrona
prese posto anche Cavour, è ormai come un grand hotel, il suo motto è
“chi va e chi viene”, ma soprattutto “chi va” perché in poco più di
settant’anni di storia repubblicana si sono alternati quaranta
ministri, uno ogni venti mesi.
Teresa Bellanova non ha fatto
eccezione: ha abbassato la media, è durata 16 mesi. Per la sua
successione sta circolando una ridda di nomi, alcuni presentabili, altri
molto meno.
Certamente nella prima categoria più che presentabile è Simona Caselli,
ex assessore dell’Emilia Romagna, oggi presidente Areflh, con ottimi
rapporti a Bruxelles, conoscenza dei dossier comunitari, e capacità di
lavoro e risoluzione-problemi dimostrate sul campo. Il suo problema è
che è fuori dai giochi correntizi del PD e che a Roma il suo partito
non la appoggia come dovrebbe. Una volta la competenza era una qualità
apprezzata nel vecchio Pci-Pds, adesso sembra quasi un problema. Per
quello che conta, noi come Corriere Ortofrutticolo abbiamo aderito alla
campagna social #simonacaselliministra e ci saremo sempre. Tra i
presentabili ci sono anche Susanna Cenni , parlamentare Pd e
vicepresidente Comagri alla Camera e Riccardo Nencini , leader del
partito socialista, politico di lungo corso. Intendo per ‘presentabili’
persone normali , con qualche esperienza politico amministrativa alle
spalle, non animati da pregiudizi anti-europeisti, non portatori di
fantasiose teorie pseudo-scientifiche. Sollevano inquietudine invece i
nomi di altri aspiranti alla poltrona di via XX settembre, come il
battitore libero Di Battista, o i senatori De Bonis, Ciampolillo e
Sandra Leonardo (alias signora Mastella), arruolati in extremis nella
pattuglia dei “volonterosi –costruttori-responsabili”. C’è poi da
considerare che al ministero ci sta un sottosegretario , Giuseppe
l’Abbate dei 5Stelle, che il suo movimento “spinge” dopo aver
garantito l’appoggio della Farnesina (quindi Di Maio) alla candidatura
di Maurizio Martina alla Fao.
Dante Alighieri, del quale si celebrano i settecento anni dalla morte,
tenendo a battesimo la lingua italiana non può dimenticare il cibo e non
manca di citare una ricetta dando anche la possibilità di rintracciarne
una seconda alla quale allude.
In particolare nella “Commedia” il cibo,
come tutti gli aspetti della vita, ha un significativo rilievo
linguistico concreto e simbolico con toni e registri diversi, facendo
anche ricorso a costruzioni ardite che, nella loro varietà, qualifica la
lingua di Dante.
È ormai noto che le aree verdi hanno un ruolo fondamentale nella
riduzione dell’incidenza delle cosiddette patologie “urbane” in
particolar modo su quelle che interessano la sfera psichica. Ma in che
modo l'esposizione e l’interazione con la natura le può ridurre?
Esistono due teorie consolidate su come la natura influenzi il cervello,
entrambe basate sull’assunto che la natura ha un effetto riparatore
sulla funzione cognitiva ed emotiva. Non sono il “vuoto” o la quiete a
essere efficaci, ma è la natura nella sua gloria disordinata, selvaggia,
rumorosa, diversificata, che ha il maggiore impatto nel riportare una
mente stressata a uno stato calmo e vigile.
Apprendo da un breve articolo pubblicato su “All about Feed” a firma
Chris McCullough, che la European Food Safety Authority (EFSA) ha
finalmente autorizzato l’introduzione sulle nostre tavole delle larve
del coleottero Tenebrio molitor, sia essiccate che in farina,
definendolo alimento “sicuro”, “safe” nella versione originale in
inglese. L’articolo è corredato da una fotografia delle larve,
tutt’altro che invitante, almeno dal mio punto di vista. La notizia è
apparsa anche sulla stampa nazionale e riportata dalla nostra
“Georgofili Info”, Newsletter del 20 gennaio scorso (http://www.georgofili.info/contenuti/si-apre-lera-degli-insetti-nel-piatto-lefsa-d-il-via-libera/15402).
Nell’articolo
di McCullough l’introduzione dell’alimento, inconsueto almeno per noi
europei, viene considerata “un’importante pietra miliare in tutto il
settore dell’alimentazione”.
La presa di posizione dell’EFSA segue la
proposta di AGRONUTRIS, una compagnia bio-tech francese specializzata
nell’allevamento di insetti e nella loro diffusione come alimento. Per
il momento si tratta solo di un’autorizzazione, ma l’auspicio dell’EFSA è
che “l’autorizzazione costituisca il primo gradino della scala che
porterà all’approvazione ufficiale della Commissione Europea per la
vendita di insetti come snacks o altri tipi di alimenti”. Secondo
Antoine Hubert, titolare della ditta YNSECT SAS, l’iniziativa subirà
l’effetto palla di neve, che si ingrandisce andando avanti. Aumenterà il
suo potenziale produttivo e di capacità di attrazione di investimenti.
I giovani adulti di numerose specie di lepidotteri Sfingidi, abbandonano
le zone in cui hanno completato lo sviluppo e migrano verso aree dove
hanno maggiori possibilità di trovare piante ospiti sulle quali
ovideporre. La migrazione è una complessa sindrome fisiologica e
comportamentale, finalizzata alla dispersione adattativa unidirezionale.
Ben note sono le migrazioni degli adulti della “lugubre” Sfinge testa
di morto, Acherontia atropos che, dall’Africa raggiungono il Nord
Europa e vengono spesso ritrovati, morti e mummificati con la propoli,
all’interno degli alveari, nei quali si erano introdotti per alimentarsi
del miele. Non meno interessanti sono le migrazioni degli adulti di
altri Sfingidi; quelli della polifaga e polivoltina Hippotion celerio,
di origine asiatica, sono ottimi volatori e spesso raggiungono e si
insediano, più o meno stabilmente, in Nord Africa e nell’Europa
meridionale e Centrale. In Italia è stata segnalata in tutte le regioni.
“Sono stato un salame, quella persona è un salame, avere due fette di
salame in tasca, fare il salame per non pagare dazio, salame in barca” e
molte altre frasi, un tempo frequenti oggi forse più rare,
attribuiscono al salame un senso di persona stupida, uno stolto o uno
che fa lo stupido e danno quindi un significato spregiativo a un cibo
che è invece buono, apprezzato e desiderabile. Tutto deriva da un
cambiamento di uso di un temine che fino al XVIII secolo e oltre
identifica il pesce salato e quindi il salame o salamen è il baccalà che identifica ancora oggi una persona inespressiva da qui il detto di “essere un baccalà”. La parola salume deriva dal latino tardo antico salumen per
indicare l’impiego del sale per conservare gli alimenti. Inizialmente e
nel basso Medioevo, almeno per quanto ne sappiamo, il termine salamen
indica i più diffusi alimenti conservati con il sale, i pesci e in
particolare quello che ora è chiamato o baccalà o anche erroneamente
stoccafisso. Non solo, ma il pesce salato, fino al Quattrocento, è
venduto nelle botteghe dei Lardaroli, insieme alla carne e ai salumi.
Oltre la metà della popolazione del mondiale vive in aree urbane e ormai
la qualità dei suoli urbani e la gestione delle loro funzioni
ecosistemiche è riconosciuta di primaria importanza dalla scienza del
suolo (Calzolari et al., 2020). Molta parte delle aree urbanizzate più
densamente popolate e coltivate è posta nelle aree costiere, spesso in
prossimità dei delta fluviali. Basti pensare ad Alessandria d’Egitto nel
delta del Nilo, New Orleans nel delta del Mississippi, Calcutta nel
delta del Gange, Bangkok nel delta del Chao Phraya o Shanghai, nella
regione del delta dello Yangtze. Con terreni fertili e un facile accesso
alla costa, i delta sono punti critici della produzione alimentare. Il
delta del Mekong in Vietnam da solo fornisce quasi il 20% del riso
mondiale (Dunn e Darby, 2019). Queste aree sono tra le più dinamiche del
mondo e assistono ad un tumultuoso incremento demografico e di
sfruttamento del suolo. Ma molti dei delta del mondo stanno ora
affrontando una crisi esistenziale. I delta stessi stanno affondando
mentre il livello relativo del mare sta aumentando molto velocemente.
I
delta sono costruiti dai sedimenti che vengono trasportati a valle dai
fiumi e alla fine si depositano dove il fiume incontra il mare. Quando
questi sedimenti si compattano sotto il loro peso, i delta affondano
naturalmente. Dove lasciato indisturbato, l'apporto di nuovi sedimenti
fluviali può compensare il cedimento e aiutare a mantenere la superficie
del delta sopra il livello del mare. Ma la realtà è che assistiamo ad
una subsidenza accellerata in molte delle aree deltizie. I risultati di
uno studio condotto dall'Università di Padova e dagli Istituti per la
protezione idrogeologica (Cnr-Irpi) e di geoscienze e georisorse
(Cnr-Igg) del Consiglio nazionale delle ricerche evidenziano che la
subsidenza è un fenomeno globale che può causare impatti ambientali,
sociali ed economici rilevanti. Le potenziali aree di subsidenza
coinvolgono 1,2 miliardi di persone e il 21% delle principali città del
mondo, con l'86% della popolazione esposta che vive in Asia
(Herrera-García et al., 2021). Una subsidenza accelerata si sta
verificando in diverse regioni del mondo, tra cui Iran, Messico e
Indonesia dove, a Jakarta, l'impatto è così grave che il governo sta
progettando di spostare la capitale nell'isola del Borneo.
Alla fine di un anno, spesso si tende per lo più a guardare avanti, con
richieste, auguri e speranze in un futuro migliore, seguendo
inconsapevolmente una sorta di rito tradizionale e scaramantico. E non
c’è dubbio che il 2020 non appena concluso ci abbia offerto un ottimo
motivo, stavolta razionalmente consapevole, per proseguire tale
tradizione. Quando lo sguardo dovesse volgersi indietro, il 2020 è stato
e sempre rimarrà nei vissuti della maggior parte delle persone come
l’anno della pandemia COVID-19, causata dall’ormai conosciutissimo
coronavirus SARS-CoV-2.
Anche a causa di questo evento pandemico, ma
non solo, pochi tra i non addetti ai lavori hanno avuto l’opportunità
di sapere che il 2020 era stato proclamato “Anno internazionale della
salute delle piante” dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Solo
pochissimi eventi tra quelli previsti ed organizzati hanno avuto
regolare svolgimento, la maggior parte è stata condotta in remoto così
come posticipata al 2021 od addirittura al 2022. Il 2020 doveva essere
l’occasione per sensibilizzare a livello globale governi e singoli
cittadini sul ruolo fondamentale che le piante da sempre giocano sui
nostri destini, che va oltre l’indispensabile elemento del fornire cibo
ed altre importanti materie prime, e che può essere anche motore di un
modello innovativo e sostenibile di sviluppo economico. Ovvero il 2020
era l’occasione per la presa di coscienza a livello globale sul
contributo che ognuno, anche come singoli individui, dovrebbe dare per
preservare e garantire la salute delle piante e sul perché. Ma forse
l’occasione non è persa. Anzi, riguardando con sguardo lucido gli eventi
che hanno condotto alla pandemia COVID-19, i meccanismi biologici e le
interazioni tra i suoi vari “attori”, dal virus agli ospiti ed i suoi
serbatoi, per arrivare alle condizioni ambientali in senso lato nelle
quali si è sviluppata, è addirittura possibile che possa avere reso
governi e società civile più ricettivi a pochi semplici concetti e
relazioni che sono comuni a tutte le epidemie, indipendentemente
dall’ospite, sia questo umano, animale o vegetale. Non vi è dubbio che
“prevenzione” sia tra questi, così come del fatto che la sfida imposta
dal prevenire la diffusione di malattie infettive e lo scoppio di
epidemie sia sempre più ardua. I cambiamenti globali ai quali abbiamo
contribuito e che da qualche tempo stiamo vivendo, non solo quello
climatico ma anche la globalizzazione dei commerci e l’estrema rapidità
di movimento di umani e merci a livello mondiale, promuovono e
favoriscono l’arrivo, lo stabilirsi e la ricomparsa di patogeni
altrimenti non presenti in certe aree o che si credevano sconfitti. E
questi sono i primi elementi essenziali ed ideali per l’innesco di
un’epidemia, anche in ambito vegetale.
“Il metano ti dà una mano” era lo slogan pubblicitario di qualche tempo
fa, che ci invitava a consumare il metano come fonte energetica, in
quanto il meno inquinante fra i combustibili fossili e non fossili. Ma
c’è chi, oggi, punta l’indice contro il metano se prodotto dall’apparato
digerente degli animali erbivori a partire dalla componente alimentare
fibrosa o prodotto dalle fermentazioni vegetali nelle acque delle
coltivazioni del riso e rilasciato in atmosfera. Onestamente, il contributo alla diminuzione della concentrazione di gas
serra in atmosfera che può venire dalla regolamentazione delle attività
agricole appare modesto rispetto a quanto si possa ottenere ponendo un
freno all’uso di combustibili fossili nelle centrali elettriche, nella
climatizzazione degli ambienti e nei trasporti terrestri ed aerei.
Il d.lgs. 3 aprile 2018, n. 34 (testo unico in materia di foreste e
filiere forestali, TUFF) costituisce la legge quadro di indirizzo e
coordinamento in materia di gestione del bosco, le cui finalità sono
volte a: “migliorare il potenziale protettivo e produttivo delle risorse
forestali del Paese e lo sviluppo delle filiere locali a esso
collegate, valorizzando il ruolo fondamentale della selvicoltura e
ponendo l’interesse pubblico come limite all’interesse privato”.
Dal 23 giugno 2016, il giorno del referendum sull’uscita della Gran
Bretagna (UK) dall’Ue, al 31 dicembre 2020 sono trascorsi quattro anni e
mezzo. Tanto è stato necessario perché si potesse giungere ad un
accordo sulle regole che governeranno d’ora in poi i rapporti fra le
Parti.
La separazione è avvenuta in due tempi: a fine 2019, con la
firma di un Trattato internazionale che definisce le modalità
dell’uscita dell’UK dall’Ue e, a fine 2020, con un Accordo commerciale e
di cooperazione entrato in vigore il 1° gennaio 2021 in via
provvisoria, in attesa delle necessarie ratifiche. L’Accordo regola
tutti gli aspetti concreti della separazione ed è costituito da un
volume di oltre 1200 pagine.
Per arrivare alla conclusione le Parti
hanno compiuto un defatigante lavoro che, ancora ai primi di dicembre,
sembrava sul punto di naufragare per alcune “divergenze
significative”che sembravano insanabili. I punti aperti erano tre: le
condizioni per una competizione leale negli scambi fra le Parti, le
modalità per dirimere contrasti che sorgessero fra di esse e le regole
per i diritti di pesca. Come in ogni trattativa, fino all’ultimo il
risultato è rimasto in sospeso e ha richiesto passaggi clamorosi come i
decisivi contatti diretti fra il premier inglese Boris Johnson e la
Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. L’Accordo è
stato raggiunto con una volata finale alla vigilia di Natale: il
Parlamento inglese l’ha approvato il 27 dicembre, quello europeo il 29 e
il Consiglio dei Ministri Ue il 31.
Nonostante i sussulti finali, le
questioni in discussione ai primi di dicembre lasciavano intendere che
il traguardo fosse in vista. Considerando che l’interscambio totale fra
UK e Ue vale circa 660 miliardi di euro all’anno e i diritti di pesca
in acque inglesi 650 milioni, si comprende come non potesse essere un
ostacolo insormontabile.
Il genome editing, che potremmo tradurre, in ambito agrario, con
tecnologia per l’evoluzione assistita (TEA) è una tecnica rivoluzionaria
che permette di agire a livello del DNA facendogli esprimere delle
nuove funzioni ritenute positive per l’uomo, per un animale, per una
pianta, per un microorganismo. Nel regno vegetale questa tecnica ha
permesso di ottenere piante di interesse agrario, che resistono a
malattie, siccità, ecc., ma questa nuova biotecnologia non è ammessa
ovunque. Nell’UE per esempio il genome editing è assimilato (vedi
decisione della Corte di Giustizia europea del 25 luglio 2018) a quelle
tecniche con le quali si ottengono gli organismi geneticamente
modificati (OGM), che sono di fatto proibiti alla coltivazione. Da un
punto di vista scientifico l’ equiparazione tra genome editing e OGM
non è corretta; gli organismi pubblici, nazionali ed europei però
stanno cambiando idea e probabilmente sarà possibile anche in Europa
poter sperimentare in campo, e poi coltivare, piante (la vite per
esempio) che siano state rese più resistenti a vari fattori di stress
biotico e abiotico: questo nuovo individuo, nel caso della vite, sarà
considerato (probabilmente) un clone di quel vitigno, per cui la
piattaforma ampelografica di una certa denominazione non cambierà;
questo intervento infatti simula quanto la natura fa normalmente in
pieno campo da millenni e che viene valorizzato mediante la selezione
clonale. Il cambio di visione della Commissione europea (da ostile a
positiva) è riscontrabile anche dal fatto che il genome editing è stato
inserito nella strategia “From Farm to Fork” come strumento per
realizzare gli obiettivi di sostenibilità tracciati dal Green Deal. Le
prospettive sono quindi positive, ma per renderle concrete e utili i
paradigmi scientifici da soli non bastano; bisogna infatti che queste
nuove tecnologie si sviluppino all’interno di una “governance”
condivisa (a livello internazionale) non solo dalla comunità
scientifica, ma anche dalla società, perché solo così l’innovazione
porterà vantaggi a tutti gli attori delle varie filiere agroalimentari,
dai produttori ai consumatori.
In alcune località delle pendici orientali dell’Etna, le favorevoli
condizioni climatiche, riducendo la mortalità invernale delle uova,
hanno creato i presupposti per le attuali pullulazioni del pernicioso
afide Cinara cedri, che forma dense colonie a manicotto sui rami di 1-5 cm delle pinacee Cedrus atlantica, C. deodora e C. libani. La presenza dell’afide è denunziata dall’abbondante melata,
che in parte cade al suolo, sulla quale si insedia la fumaggine; la
melata attrae numerose specie di formiche che proteggono l’afide dai
predatori.
Il detto “scoprire l’acqua calda” indica qualcosa di scontato e
indirettamente sottintende che un’altra scoperta, quella del fuoco, sia
stata più importante per l’umanità, ma tutto questo è messo in dubbio
dalle ricerche di Ainara Sistiaga e collaboratori secondo la quale gli
ominidi che hanno preceduto la nostra specie, circa un milione e
settecentomila anni fa, avrebbero potuto utilizzare le acque calde di
sorgenti termali per modificare gli alimenti, quindi cucinare (Sistiaga
A., Husain F., Uribelarrea D., Martín-Perea D. M. et alii - Microbial biomarkers reveal a hydrothermally active landscape at Olduvai Gorge at the dawn of the Acheulean,
1.7 Ma – PNAS, October 6, 2020, 117 (40) 24720-24728). In base a queste
ricerche è oggi messa in dubbio l’idea che la cucina sia iniziata
quando l’uomo impara a cuocere la carne e i vegetali sul fuoco e la
conoscenza e l’uso dell’acqua calda geotermica in cucina avrebbe quindi
preceduto il fuoco nell’evoluzione umana. Ancora oggi una cucina geotermica
è tradizionale in Islanda dove queste acque calde sono molto diffuse,
anche i Maori della Nuova Zelanda da tempo immemorabile utilizzano le
acque di sorgenti geotermiche per cucinare la carne e nelle Azzorre vi è
uno stufato di cozido riscaldato con acque vulcaniche. Ovviamente non è
possibile stabilire come questo sia avvenuto e ad opera di chi, ma non è
da escludere che la prima cottura di un cibo in un’acqua calda termale
sia stato eseguito da una giovane femmina di ominide. Un’ipotesi
fantascientifica? Non tanto dopo le scoperte che all’inizio degli anni
cinquanta sono state fatte sulle scimmie dell’isola di Koshima.
Coloro che sostengono che il costo delle azioni per contrastare gli
effetti del cambiamento climatico è troppo elevato probabilmente non
conoscono o non vogliono conoscere il reale bilancio economico delle
operazioni. Guardano al costo presente e non guardano all’enorme
guadagno futuro. Un rapporto recente dell'Organizzazione Mondiale della
Sanità afferma che "l'onere sulla salute delle fonti energetiche
inquinanti è ormai così alto che il passaggio a scelte più pulite e più
sostenibili per l'approvvigionamento energetico, dei trasporti e sistemi
alimentari è efficace e sostenibile di per sé stesso."
Non dobbiamo
dunque scegliere tra il presente e il futuro. I giusti investimenti
nell'azione per il clima possono migliorare la salute pubblica, creare
posti di lavoro e migliorare la qualità della vita nelle nostre città
oggi. Ma per rendere reali questi benefici, dovremo pensare e agire in
modo diverso.
In primo luogo, per ottenere il massimo beneficio dagli
investimenti sul clima, le risorse e l'autorità decisionale devono
fluire verso le aree e le persone che sono maggiormente a rischio
climatico. Queste comunità "di prima linea", che sono state spesso
escluse dalle precedenti realizzazioni di infrastrutture, meritano una
prima e ultima parola nel plasmare il loro futuro. E al fine di
raggiungere gli obiettivi climatici, virtualmente ogni casa, quartiere e
azienda dovrà essere aggiornato e connesso alla nuova infrastruttura. I
leader locali responsabilizzati saranno fondamentali per conseguire
tale obiettivo.
Ogni anno a Natale si ripropone il consueto dibattito sull’impatto
ambientale dell’albero di Natale naturale o artificiale e su quale sia
la scelta più responsabile in termini ambientali e sociali. Tale
dibattito vede argomentazioni razionali sia da un lato che dall’altro.
Di seguito si elencano alcune argomentazioni favorevoli all’albero di Natale naturale:
• Non è prelevato in foresta, ma viene coltivato in terreni montani
marginali che in caso contrario sarebbero semplicemente abbandonati.
L’acquisto di un albero di Natale naturale non ha dunque nessun impatto
sulle dinamiche delle foreste.
• E’ una coltura che prevede pochi
interventi in campo, poche concimazioni, pochi trattamenti. E’ dunque
una coltivazione molto semplice che usa poca energia e che ha basso
impatto sull’ambiente.
• Viene coltivato in zone relativamente vicine alle zone di commercializzazione.
• La coltivazione viene praticata, spesso assieme ad altre colture come
patate e mele, da piccole aziende che sono un patrimonio importante per
l’economia delle zone montane. Queste coltivazioni forniscono
un’importante fonte di reddito in zone con continua tendenza allo
spopolamento.
• L’albero naturale, come tutti gli esseri viventi,
è composto in gran parte da carbonio. Tale carbonio deriva dalla
fissazione dell’anidride carbonica atmosferica attraverso la fotosintesi
clorofilliana e per questo si chiama biogenico. Il carbonio biogenico, è
considerato neutrale nell’ambito delle emissioni di carbonio perché
proveniente dall’atmosfera e non da altri serbatoi (ad esempio il
sottosuolo come nel caso dei prodotti petroliferi).
Alcune argomentazioni sfavorevoli all’albero di Natale naturale sono:
• Essendo un essere vivente è complesso tenerlo in vita per
riutilizzarlo, soprattutto in un contesto urbano con clima relativamente
caldo.
L’albero di Natale artificiale invece ha un profilo
completamente diverso che comunque presenta le seguenti argomentazioni a
favore:
• E’ estremamente facile da riutilizzare e può essere conservato anche per molti anni.
A queste argomentazioni favorevoli si oppongono tuttavia alcune argomentazioni sfavorevoli.
• E prevalentemente fatto in acciaio e PVC (o altre materie plastiche)
che derivano da processi estrattivi e lavorazioni industriali con
elevato impatto sull’ambiente (materie prime non rinnovabili).
• Viene fabbricato in contesti industriali esteri e poi trasportato presso la rete di distribuzione e vendita.
Al
fine di valutare tutti questi aspetti in maniera scientifica e poter
dunque paragonare gli impatti ambientali dell’uno o dell’altro, presso
l’Università di Firenze è in corso una ricerca di analisi del ciclo di
vita dell’albero naturale e artificiale.
Un recente rapporto dell’EMA (European Medicines Agency) informa di un
significativo declino nella vendita di antibiotici per uso veterinario
in tutta Europa, negli ultimi dieci anni. A questo proposito, Ivo Claassen, direttore della Divisione Farmaci per
uso veterinario dell’EMA, osserva che le linee guida europee e nazionali
delle campagne che promuovono l’uso prudente di antibiotici negli
animali stanno avendo effetti positivi e rappresentano la strada giusta
per combattere la resistenza microbica acquisita agli antibiotici.
Lo scorso anno scrissi questo articolo che oggi rivedo completamente alla luce di quanto è accaduto nel 2020.
Gli
ultimi anni sono stati e sono tuttora pieni di notizie allarmanti sul
clima. Già nel 2018 il rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate
Change (IPCC), ci aveva detto che abbiamo una decina di anni per
dimezzare le emissioni di carbonio ed evitare cambiamenti climatici
catastrofici. Nonostante gli allarmi lanciati a più riprese, le
emissioni di carbonio sono di nuovo nella direzione sbagliata, dopo
alcuni anni di livellamento. Neanche la crisi globale determinata dal
COVID-19 ha, se non invertito, almeno rallentato la tendenza.
Anche nel vasto campo della pubblicistica concernente gli aspetti più
diversi dell'attività agricola si annoverano autori di vario talento e
impegno. Facendo attenzione alle varie iniziative editoriali si
riscontrano differenze di stile, di scrupolosità, di rigore
tecnico-scientifico, di attenzione alla forma divulgativa, di
sensibilità agli aspetti storici o, viceversa, di esclusiva proiezione
verso il futuro, tanto per citare alcune prerogative apprezzabili. Sono
disponibili per la nostra lettura molti validi libri; è comunque raro
reperire un testo che abbia saputo rispondere a gran parte delle
esigenze sopra elencate.
Un libro che riassume, a mio parere, le diverse caratteristiche ricordate e altre, non menzionate, ma analogamente rilevanti, è "La Canapa. Miglioramento genetico, sostenibilità, utilizzi, normativa di riferimento" curato, per i tipi di Edagricole, da parte di Paolo Ranalli (v. Georgofili Info, http://www.georgofili.info/contenuti/la-canapa-miglioramento-genetico-sostenibilit-utilizzi-normativa-di-riferimento/15342).
Ranalli,
oltre a scrivere 4 importanti articoli dei 15 che compongono il testo, è
stato anche l'ideatore e l'organizzatore del medesimo, lasciando che
vari collaboratori si assumessero l'onere di descrivere le parti di loro
competenza. Viene offerto, in tal modo, un volume completo
sull'argomento.