Napoleone Bonaparte (1769 – 1821), del quale il 5 maggio 2021 si celebra
i bicentenario della morte celebrata anche da Alessandro Manzoni con Il Cinque maggio, dal celebre inizio Ei fu…
studiato dagli studenti di un tempo, è noto per le sue gesta militari e
per i suoi interventi politici che influenzano gli stili di vita e la
gastronomia, anche se da parte sua, nel periodo nel quale è console
(1804) ama ripetere: Se volete mangiar bene, pranzate con il
secondo Console, se volete mangiare molto, pranzate con il terzo
Console, se volete mangiare in fretta, pranzate con me. Napoleone
non è un buongustaio, ma un commensale sbrigativo, rapido e disattento
che dedica al cibo non più di quindici o venti minuti, preferisce piatti
semplici, non gradisce i lunghi e complessi pranzi alla francese.
Molte autorevoli istituzioni e società scientifiche internazionali e
nazionali, tra cui l’Associazione Italiana delle Società Scientifiche
Agrarie (AISSA), indicano nell’ intensificazione sostenibile una
possibile risposta alle crescenti necessità agroalimentari di una
popolazione mondiale in aumento e all’esigenza di diminuire l’impatto
ambientale delle produzioni agricole e forestali. L’intensificazione
sostenibile ha l’obiettivo di incrementare le produzioni riducendo gli
impatti ambientali dei processi coinvolti, al fine di elevare il livello
di sostenibilità dell’agricoltura ed aiutare da un lato la
sostenibilità economica delle imprese e dall’altro la salvaguardia
dell’ambiente.
Le innovazioni che vengono proposte nei diversi
settori produttivi sono molteplici ed hanno tutte bisogno di
confrontarsi con degli indicatori di sostenibilità semplici e
significativi.
Per quanto riguarda gli indicatori pedologici, la FAO
ha recentemente pubblicato un protocollo di riferimento per il
monitoraggio di alcune qualità del suolo sensibili ai cambiamenti di
gestione (http://www.fao.org/fileadmin/user_upload//GSP/SSM/SSM_Protocol_EN_006.pdf).
Il documento, realizzato con il contributo di molti esperti anche
italiani, prosegue l’impegno della Global Soil Partnership per favorire
la conservazione del suolo e si pone in continuità con le “Linee guida
volontarie sulla gestione sostenibile del suolo”, anch’esse pubblicate
dalla FAO (http://www.fao.org/3/i6874it/I6874IT.pdf).
Il
protocollo costituisce uno strumento pratico e applicativo per valutare
i reali effetti sul suolo degli interventi attuati in campo agricolo
per implementare tecniche di intensificazione sostenibile, come il
miglioramento dei sistemi produttivi, l'innovazione e l’implementazione
di nuove tecnologie, il ripristino degli ecosistemi e il sequestro del
carbonio. In concreto, il protocollo fornisce indicatori chiave e una
serie di strumenti per valutare le funzioni del suolo in base alle sue
proprietà fisiche, chimiche e biologiche. Le variazioni dei valori degli
indicatori dovrebbero consentire un primo giudizio sull’efficacia delle
pratiche introdotte.
Stiamo attraversando un periodo in cui le prospettive si confondono e la
stessa vita quotidiana propone riflessioni su questioni che sembravano
accantonate. Commentando un incontro organizzato dalla Società Agraria
di Lombardia sul tema “Quale agricoltura dopo il coronavirus?” sottolineavo il ruolo che quattro concetti tutti caratterizzati dall’iniziare appunto per “i” –ovvero “impresa”, “innovazione”, “intensificazione sostenibile” ed “informazione”-
avrebbero avuto (o dovuto avere) per assicurare una sollecita ripresa.
Anche più di recente, presentando la ristampa anastatica dello storico
volume “Quaranta quintali di latte per anno e per vacca” le
stesse considerazioni si sono presentate con una aggiunta. Ovvero che vi
è un pericolo da cui dobbiamo guardarci, se vogliamo davvero
riconquistare la normalità, le prospettive di sviluppo e le stesse
libertà fondamentali, rappresentato da un altro concetto che inizia per
“i”: l’ideologia, che coi suoi pregiudizi, con le sue affermazioni
apodittiche, coi suoi “voli pindarici” e con le sue elucubrazioni spesso
avulse dalla realtà e contrarie al buonsenso rischia di determinare
guasti anche peggiori e più duraturi di quelli procurati dalle
avversità.
Il pericolo rappresentato dalle derive ideologiche,
antiscientifiche, tecnofobiche e persino “pauperistiche” incombe da
tempo sul futuro e sull’esistenza stessa della nostra agricoltura. La
delicatissima fase politica che stiamo attraversando, con la
concomitanza di numerosi processi decisionali (dalla definizione della
Politica Agricola Comunitaria per i prossimi anni, alla sua declinazione
a livello nazionale con il PSN, passando per le applicazioni normative
derivanti da discusse e discutibili indicazioni “strategiche”, come
quelle contenute nella comunicazione “Farm to Fork”) rendono
particolarmente insidioso il rischio che l’ideologia prevalga e si
imponga laddove servirebbero serietà, razionalità, competenza e
pragmatismo.
Le dinamiche che caratterizzano il quadro di politica
agraria italiana (al quale la parziale “rinazionalizzazione” delle
politiche europee delega importanti momenti decisionali) portano alla
nostra attenzione le vicende legate alla formazione del nuovo governo,
tra cui si segnalano l’istituzione di un non meglio definito “ministero
per la transizione ecologica” e l’assegnazione al sen. Patuanelli della
poltrona di titolare del MIPAAF.
In una tomba egiziana di circa quattromila anni fa vi è un’immagine che
gli egittologi interpretano come la pasta sia prodotta impastando la
farina con i piedi. Circa millecinquecento anni dopo gli Egiziani “lavorano la pasta con i piedi, l’argilla con le mani” afferma
lo storico greco Erodoto (484 a. C. – 420 circa a. C.) nelle sue Storie
(II, 36) che raccolgono digressioni su costumi dei popoli molto
interessanti da un punto di vista antropologico e tra queste quella
sull’Egitto a lui contemporaneo che per estensione e quantità di
dettagli costituisce quasi un libro a parte.
La consuetudine egiziana di lavorare la pasta di farina con i piedi è
molto antica e presente nell’Egitto del Medio Regno (2055 a. C. – 1790
a. C.) come dimostra una delle immagini che decorano la tomba di
Antefoker visir durante il regno del re Amenemhat I e del suo successore
Sesostri I della XII dinastia, che organizza una spedizione verso il
Paese di Punt e che ha un concreto ruolo nelle campagne militari di
riconquista della Nubia (Davies N., Gardiner A. H. – The Tomb of Antefoker – Egypt Exploration Society, London, G. Allen and Unwi, 1929).
Sull’onda del cosiddetto “green new deal” si moltiplicano le iniziative
per piantare alberi nelle nostre città, contornate da grande seguito
mediatico.
Sia chiaro, il verde è importante, specie se arboreo, e
contribuisce certamente alla cattura delle polveri sottili e al
raffrescamento durante i periodi più caldi, oltre ad apportare indubbi
benefici di tipo psicologico e ricreativo.
Ma non è altrettanto evidente che sia sufficiente la messa a dimora di un albero per rendere piacevole un luogo.
Una delle più gravi minacce che il mondo del vino sta subendo, a livello
internazionale, è il potere crescente della lobby anti-alcol, che non
distingue tra il vino e le altre bevande alcoliche e che considera
il vino solo come fonte di alcol e quindi dannoso per la salute umana,
indipendentemente dalla dose. Anche l’Organizzazione Mondiale della
Sanità (OMS) ha da tempo in agenda il discorso relativo all’alcol che
assieme al tabacco è nella lista dei composti associati alle malattie
non trasmissibili e che indica anche alcune strategie da adottare per
prevenire quelle malattie, come ad esempio l’aumento della
tassazione, restrizioni alla vendita, divieto di pubblicità. Ci sono
però altre voci, positive per il vino, che provengono sia dal mondo
scientifico che dalla società, come ad esempio quella dell’associazione
Wine in Moderation che lancia un messaggio molto semplice: l’abuso di
alcol è dannoso per la salute umana, ma un consumo moderato e
consapevole di vino (per una persona sana) è positivo sia per il corpo
che per la mente. Anche l’Unione Europea ha nel mirino il vino, oggetto
di attenzione per quanto riguarda l’indicazione degli ingredienti in
etichetta, prodromo, secondo alcuni (ex il CEEV – Comité Européen des
Enterprises Vins) di possibili azioni ostili come gli health-warnings,
similmente a quelli a carico delle sigarette. Il già citato CEEV cerca
di reagire a questi attacchi, ma per arginare il problema è necessario
che si crei un ambiente, un modo di pensare favorevole al consumo
consapevole di vino, che questo cioè diventi conventional wisdom;
bisogna riuscire a dimostrare cioè che un mondo senza vino (come
vorrebbero taluni) sarebbe peggiore di un mondo col vino. Penso che ci
siano due strategie principali per raggiungere quell’obiettivo: la
prima è enfatizzare il ruolo culturale del vino, visto che condivide la
storia di una parte dell’umanità da millenni e che è fortemente
radicato nel vissuto di molte nazioni. Il vino è un prodotto
affascinante, non solo per l’aspetto edonistico del sorseggiarne un
calice, ma anche per gli aspetti immateriali e le emozioni che suscita
in chi lo degusta; è ricco di significati a volte contraddittori tra
loro, come scienza ed arte, storia e leggenda, sacro e profano. Gli
aspetti salutistici sono importanti, ma da considerarsi come effetti
collaterali positivi e non come motivo principale per il suo consumo.
Chi può avere dunque il coraggio di combattere un prodotto culturale?
La seconda è di connotare il vino come campione della sostenibilità, e
qui c’è ancora molto da fare, ma è uno stimolo per accelerare questo
percorso virtuoso (della sostenibilità).
Il numero 27 (5) – 2020 della rivista Global Change Biology
(Wiley) pubblica un "opinion paper" firmato da Lorenzo Genesio
(IBE-CNR), Roberto Bassi (Univ.Verona) e Franco Miglietta (Accademia dei
Georgofili e IBE-CNR) dal titolo “Plants with less chlorophyll: A
global change perspective”.
L'articolo discute di un tema nuovo ma
che è già molto discusso in ambito accademico: nuove piante a basso
contenuto di clorofilla (pale-green) possono diventare uno strumento per
coniugare produzioni agricole e azioni di mitigazione del cambiamento
climatico. Il ragionamento è paradossalmente semplice anche se non del
tutto intuitivo. Si gioca su due fronti: le piante-pallide riflettono di
più la luce solare e possono, se sono ben costruite, contribuire ad
aumentare le rese colturali.
Ma andiamo con ordine.
Superfici più riflettenti per ridurre il riscaldamento globale
Tutti
sappiamo che l'energia primaria di cui dispone il nostro pianeta arriva
con la luce del sole. Ma non è altrettanto chiaro a tutti che la
temperatura media alla superficie della terra dipende da un complesso
bilancio fra la quota di energia che viene riflessa dal nostro pianeta e
quella che, una volta assorbita, viene riemessa sotto forma di calore.
Calore che poi resta in parte “intrappolato” dai cosiddetti gas ad
effetto serra nell’atmosfera. Per capire questo “bilancio energetico”
basta rifarsi alla nostra esperienza diretta: quando indossiamo abiti
scuri sotto il sole estivo soffriamo molto più il caldo di quando invece
indossiamo abiti più chiari. Ciò che i nostri occhi percepiscono come
“colore scuro” altro non è che il risultato di un maggior assorbimento
della luce da parte dei pigmenti che colorano l'abito che indossiamo. Il
colore chiaro si ottiene invece quando molta luce è riflessa. E così
come fa un abito scuro le piante con molta clorofilla assorbono molta
energia luminosa, ne convertono solo una piccola frazione in zuccheri
attraverso la fotosintesi e riemettono il resto come calore. Le piante a
basso contenuto di clorofilla (che abbiamo già sopranominato “pallide”)
riflettono invece una frazione più elevata di radiazione solare, ne
assorbono meno e di conseguenza emettono meno calore.
E da qui prende
le mosse l’idea discussa nell’Opinion paper: se coltivassimo specie più
“riflettenti” potremmo contrastare, pur solo in parte, l’effetto
globale di riscaldamento dovuto all’aumento dell’effetto serra.
Il 26 gennaio 2021 si è tenuto l'evento online intitolato "Le resistenze
agli erbicidi nelle risaie" in cui è stato presentato il progetto
Epiresistenze. L'incontro ha permesso di far luce su questo nuovo
meccanismo di resistenza e sulla sua importanza per l'efficace gestione
delle malerbe nei campi di riso.
Se l’obiettivo da raggiungere è la sostenibilità delle produzioni
animali, dobbiamo puntare su ingredienti alimentari innovativi, sulla
digitalizzazione, su nuove tecniche di preparazione degli alimenti e
tecnologie di alimentazione, che contribuiscano a ridurne l’impatto
sull’ambiente.
L’umanità non è nuova ad emergenze sanitarie come quella da coronavirus
in corso. Eppure, ne avvertiamo tutta l’eccezionalità. Ha stravolto il
nostro modo di vivere. Ci ha costretti a cambiare le nostre abitudini,
imponendoci comportamenti e modalità di interazione sociale che
rappresentano una vera e propria svolta culturale dai profondi
significati antropologici e dalle immense ricadute psicologiche ed
economiche. Eccezionale è sicuramente lo sforzo collettivo di tante
comunità scientifiche che a livello globale stanno cooperando per
sconfiggere la malattia.
Una malattia generata da un virus
dell’ampia famiglia dei coronavirus, il SARS-COV2, scoperto alla fine
del 2019 e così definito in quanto simile al già noto SARS-COV (severe
acute respiratory syndrome coronavirus). L’infezione da SARS-COV2 è
stata, dunque, denominata dalla World Health Organization ‘COVID-19’
dall’inglese COronaVIrus Disease 2019.
Grandi speranze sono
riposte nel vaccino che ci si augura possa garantire un’immunità di
massa. Non tutti, purtroppo, potranno beneficiarne, come i soggetti già
infetti o allergici, gli immuno-depressi o, ancora, le donne in
gravidanza e attualmente i ragazzi al di sotto dei 16 anni per mancanza
di studi sperimentali. Inoltre, il virus può mutare e mutare in maniera
tale da compromettere l’efficacia del vaccino stesso. Ne consegue che la
ricerca farmacologica finalizzata a mettere a punto delle terapie
antivirali rimane una priorità. La necessità di avere farmaci
prontamente disponibili ha infuso nuova linfa vitale al drug repurposing
(riposizionamento dei farmaci), una strategia che consiste
nell’indentificare farmaci già approvati e commercializzati da usare per
nuovi scopi terapeutici, evitando in tal modo i lunghi stadi necessari
per lo sviluppo di un nuovo agente terapeutico. Alla luce di tali
considerazioni e in virtù di una consolidata tendenza verso i rimedi
naturali, le sostanze naturali biologicamente attive sono subito emerse
come un ricco arsenale a cui ispirarsi per il trattamento della
COVID-19.
L’analisi della Coldiretti fatta sulla base dei dati Inail ha
evidenziato che, su base annua, gli infortuni sul lavoro in agricoltura
denunciati nel 2020 (26.287), sono diminuiti del 19,6% rispetto al 2019
(32.692). Si tratta cioè di una riduzione di ben 6.405 infortuni mai
registrata in maniera così rilevante negli anni passati. Infatti, negli
ultimi dieci anni, le variazioni massime registrate sono state
dell’ordine del 3,5%. Significativo e in controtendenza rispetto agli
altri comparti è stato il calo degli infortuni mortali che, su base
annua, si è ridotto di 38 unità passando da 151 a 113 infortuni
(riduzione del 25%). Anche in questo caso una riduzione mai registrata
in modo così rilevante.
I risultati di questa analisi sono di buon
auspicio in quanto segnalano un calo infortunistico nettamente superiore
rispetto al trend degli ultimi anni. Tuttavia, su circa un milione di
occupati nel settore agricolo, 26.287 denunce di infortunio e 113
denunce di infortuni mortali, a cui vanno aggiunte circa 12.000 denunce
di malattie professionali, sono dati ancora troppo elevati. Inoltre il
risultato di un solo anno non consente di considerare l’entità di questa
riduzione come una tendenza destinata a mantenersi nel futuro. Le
ragioni del calo infortunistico infatti possono essere diverse: può
avere influito una maggiore prevenzione, come pure un miglioramento
delle pratiche colturali e un ammodernamento delle attrezzature, ma
certamente non va dimenticato che l’attività produttiva del 2020 è stata
pesantemente condizionata dal Covid-19, pur tenendo presente che le
denunce di infortunio da Covid-19 registrate dall’Inail nel 2020 non
hanno superato lo 0,3% dei contagi.
L’esplorazione di questa diversità può fornire strumenti genetici per lo
sviluppo sostenibile dell'agricoltura mediterranea, che deve
confrontarsi con sfide difficili a causa dei cambiamenti climatici.
Un diretto uso alimentare di insetti e anche di loro preparazioni
(farine ecc.) non è facilmente accettato dalla nostra cultura
occidentale ma prevedibile è una nuova zootecnia degli insetti da usare in
alimentazione animale, che si affianca a quella tradizionale della
bachicoltura e dell’apicultura. Non dimenticando che gli insetti sono ciò che mangiano, prima di usarli
in alimentazione di animali che producono carne, latte e uova anche loro
bisogna essere sicuri che siano allevati e alimentati con matrici non a
rischio.
L’acqua è, come noto, elemento fondamentale per la vita dell’uomo ed ha permesso i processi di coltivazione e allevamento.
Un
tema, peraltro, importante è quello dell’accessibilità a tale risorsa.
Accessibilità (e cioè facoltà di accedere, avvicinarsi e disporre di
tale risorsa) che può essere analizzato sotto diversi aspetti.
Innanzitutto l’accesso economico,
e cioè la possibilità di approvvigionarsi della risorsa acqua in
termini sostenibili da parte delle popolazioni, evitando anche gli
sprechi dovuti alle perdite nelle condotte di distribuzione.
Vi è poi l’accessibilità politica e sociale,
legata alle difficoltà di accesso dovute alle guerre o alle tensioni
tra stati (si pensi alla Turchia, Siria ed Iraq per i bacini del Tigri e
dell’Eufrate), alle diseguaglianze sociali e ai problemi delle reti di
approvvigionamento e smaltimento.
Importante è poi l’accessibilità fisica che si incrocia con l’accessibilità emozionale:
pensiamo al fascino che riveste per i bambini l’elemento acqua e
l’impulso che provano le persone di avvicinarsi a tale risorsa lungo i
fiumi e gli specchi d’acqua; tale esigenza di rapporto stretto con la
risorsa acqua ha stimolato e favorito tutti i processi di rivalutazione e
rigenerazione dei cosiddetti “waterfront” in tutto il mondo.
L’accessibilità cerimoniale è poi testimoniata dalla presenza
dell’elemento acqua in tutte le rappresentazioni scenografiche
dell’antichità.
Di grande attualità appare l’accessibilità trasportistica, legata all’utilizzo delle vie d’acqua anche in termini ludici e diportistici.
L’accessibilità sanitaria
sicura è poi tema fondamentale per le popolazioni, accesso sicuro che
rimane problematico in molti paesi. Non si dimentichi, poi, il tema
dell’accesso fisico sicuro all’elemento, che se è per noi europei tema
scontato, così non è per molte popolazioni, dove l’accesso all’acqua può
essere pericoloso per la presenza di rettili (i contadini del Myanmar
devono guardarsi dai serpenti velenosi nelle zone umide) o insidie di
tipo biologico (parassiti degli ambienti lacustri).
I vitigni da vino “resistenti” di ultima generazione, ottenuti da
incroci tra viti europee e viti americane ed asiatiche, sono un grande
successo della moderna ricerca genetica, e nel periodo 2019-2020 sono
state prodotte in Italia circa 2,5 milioni di barbatelle innestate con
tali vitigni (dati Mipaaf e Crea-VE). Nelle regioni in cui sono ammesse
alla coltura (Friuli Venezia Giulia, Veneto, Lombardia, Province
autonome di Trento e Bolzano, Emilia-Romagna, Abruzzo), le barbatelle
innestate nell’ultima campagna vivaistica potrebbero teoricamente dare
origine ad oltre 600 ettari di vigneto, che potrebbero aggiungersi ai
circa 250 ettari che si stima siano attualmente impiantati con le
varietà resistenti.
Nonostante questi lusinghieri risultati, è chiaro
che i nuovi vigneti rappresentano ancora una quota irrisoria della
superficie italiana investita ad uva da vino, che ammonta a circa
650.000 ettari (dati ISTAT, 2020). E’ però evidente che il settore sta
entrando in una nuova era, che si configura come la fase iniziale di una
“viticoltura resistente”, che si innesta su quella che ancora oggi può
definirsi “viticoltura post-fillosserica”.
In realtà, infatti, più
di venti accessioni di uve da vino con caratteri di resistenza sono
state iscritte al nostro registro varietale a partire dagli anni 2000, e
la maggior parte di esse deriva dall’incrocio tra vitigni francesi di
importanza internazionale (Cabernet, Merlot, Pinot, Sauvignon, ecc.) e
varietà ibride di genealogia complessa ed eterogenea (Kozma, Merzling,
Bianca, ecc.). Le nuove accessioni sono state ottenute da varie
istituzioni scientifiche in Italia, in Germania, in Ungheria e in altri
paesi del centro-nord Europa e la loro iscrizione al registro varietale
italiano si accorda perfettamente con l’accresciuta sensibilità
dell’opinione pubblica, che oggi considera la viticoltura come una delle
attività agricole a più alto impatto ambientale.
L’inserimento dei
vitigni resistenti nel settore viti-enologico italiano è infatti
sicuramente un fatto positivo, ma si presta comunque ad effettuare
alcune considerazioni, che riguardano le modalità e i tempi della
diffusione delle diverse varietà e la loro possibilità di coesistenza
con l’assetto conservatore della viticoltura tradizionale e con quello
della viticoltura del futuro.