La recente letteratura scientifica e tecnico-commerciale internazionale ci informa che stanno aumentando le iniziative per ridurre l’impatto ambientale degli allevamenti di bovine da latte sulla concentrazione dei gas serra, metano in particolare, in atmosfera. Il contributo del settore lattiero-caseario al rilascio globale dei gas serra viene quantificato intorno al 2.2% del totale globale di origine antropica ed intorno all’ 1.7% quello dovuto ai soli paesi cosiddetti “emergenti”.
In risposta alla consultazione pubblica sulla nuova normativa europea New Genetic Techniques e cioè sulla legislazione per le piante prodotte con alcune nuove tecniche genomiche, l’UNASA (Unione Nazionale delle Accademie per le Scienze Applicate allo Sviluppo dell’Agricoltura, alla Sicurezza Alimentare ed alla Tutela Ambientale), ha chiesto al professor Michele Morgante di esprimere il proprio parere a nome dell’Associazione. E’ possibile conoscere il testo del prof. Morgante, trasmesso dall’UNASA il 21 ottobre, cliccando sul link: http://www.unasa.net/notizie/.
I punti essenziali del testo possono essere così riassunti. Anzitutto il richiamo alla necessità di andare verso una intensificazione sostenibile dell’agricoltura per fare fronte all’aumento dei fabbisogni alimentari, quantitativi e qualitativi, di una popolazione mondiale in continua crescita. Obiettivo che per essere raggiunto non può prescindere dall’utilizzo delle tecnologie genetiche più avanzate, in grado di rinnovare il patrimonio varietale, in modo da fare fronte a nuove condizioni colturali e ad affrontare i cambiamenti dell’ambiente di coltivazione e i nuovi parassiti che possono minacciare le piante. Affinché i prodotti della ricerca possano trovare applicazione nel sistema produttivo, è però necessario che vi sia anche una legislazione che consenta all’innovazione di arrivare sul mercato senza inutili vincoli e restrizioni.
Purtroppo la Corte di Giustizia Europea il 24 luglio 2018 ha deciso, sulla base della regolamentazione adottata 20 anni fa sugli OGM, ed ignorando il parere di numerose Accademie e Società scientifiche, che i prodotti del genome editing sono da considerarsi a tutti gli effetti come OGM. Ne deriva che le piante derivate dalle nuove tecnologie genetiche, e i loro prodotti, prima di ottenere il rilascio in campo e per il consumo alimentare, devono superare lunghi tempi burocratici con costi che, per ciascun nuovo evento di modificazione, sono dell’ordine dei 30 – 50 milioni di euro. In questo modo, fra l’altro, oltre limitarne la diffusione, si favoriscono le grandi aziende sementiere e si fa un torto alle piccole e medie non in grado di sostenere costi così elevati, soprattutto per le specie di maggiore interesse commerciale. E’ quindi necessario riscrivere la direttiva sugli OGM 2001/18/EC. Revisione che prenda atto, come sostenuto dalla comunità scientifica, che le mutazioni che si possono ottenere con il genome editing sono identiche a quelle ottenibili spontaneamente e per mutagenesi indotta e quindi, di fatto, indistinguibili e non tracciabili.
Professore Ferrini, proprio in questi giorni la COP26 ha trovato 20 miliardi da destinare alla riforestazione, è un bene secondo lei?
Certamente sì perché finalmente si affronta un problema che fino a pochi anni fa era completamente ignorato. Vorrei tuttavia ribadire con forza che non si deve pensare che piantando alberi si possa continuare a inquinare. Dobbiamo innanzi tutto ridurre le nostre emissioni e non pensare che gli alberi, da soli, risolvano i problemi del pianeta.
E questa mia affermazione si basa su semplici dati di fatto e conteggi direi "elementari".
Ci può spiegare meglio?
Secondo quanto riportato dal sito "One trillion trees", gli alberi piantati sono alcune decine di milioni (a fronte dei 15,3 miliardi abbattuti annualmente). Supponendo anche che ne piantassimo 100 milioni a settimana per arrivare a mille miliardi ci vorrebbero poco più di 192 anni. La grande sfida imposta dalla crisi climatica non può attendere tanto.
Inoltre, gli alberi, come tutti gli esseri viventi, possono morire: se consideriamo una percentuale di sopravvivenza del 50%, che in alcuni casi è anche ottimistica, gli anni per avere 1000 miliardi di alberi in più diventano 384.
Il problema è anche un altro: quanta superficie terrestre servirebbe quindi per 1000 miliardi di alberi adulti?
Se, solo per avere un ordine di grandezza, prendiamo un albero comune come un tiglio, il cui raggio della chioma raggiunge facilmente i 5 m a maturità. Con un raggio di 5 m lo spazio indicativamente occupato dalla chioma è di circa 78 m2. Per mantenere la chioma verde e fotosinteticamente attiva per tutta la sua profondità, e non solo per i 3 o 4 m della sua sommità, bisogna lasciare almeno 1 m in più rispetto al raggio effettivo che la pianta raggiungerà da adulta; pertanto, l'area che serve ad una pianta del genere è di circa 113 m2 (circa 85-90 piante per ettaro).
Possiamo piantare anche 1.000 alberi per ettaro, ma se vorremo mantenere al massimo il potenziale delle piante che costituiranno il soprassuolo definitivo, saranno necessari diradamenti e, in alcune decine di anni, si arriverà comunque a 85-90. Qualora ne mantenessimo comunque di più non eseguendo diradamenti, la capacità di fissazione permanente della CO2 per ettaro sarà inferiore. Se consideriamo una cifra tonda di 100 alberi per ettaro e si moltiplica la superficie necessaria a ogni pianta per il numero di alberi si arriva a un fabbisogno di 100 milioni di chilometri (non ettari!) quadrati. Se si considera che l'Italia ha una superficie di 301.304 chilometri quadrati, se ne ricava che per 1.000 miliardi di alberi fotosinteticamente al meglio delle loro potenzialità, servono indicativamente oltre 330 Italie, oppure, se preferite oltre 10 Canada (cioè poco più del 70%delle terre emerse).
In questo particolare momento storico, i Distretti del Cibo sono
chiamati a contribuire alla fase post-pandemica per sostenere la ripresa
delle filiere agricole, laddove l’utilizzo dei fondi disponibili fa
fronte alla responsabilità storica di utilizzarli nel modo più efficace.
Inoltre sono soggetti di governance dei territori rurali che possono
concorrere e all’attuazione concreta degli obiettivi di sostenibilità
ambientale, economica e sociale quali soggetti che implementano le
politiche di settore.
Opportunità irripetibili, responsabilità storica, obiettivi alti: i distretti hanno un ruolo tutto nuovo da giocare.
Il
fenomeno distrettuale, avviato 25 anni fa, proprio in questi ultimi
anni ha visto il moltiplicarsi di esperienze in quasi tutte le Regioni e
Province Autonome, mentre l’ultima ricerca approfondita, condotta su
scala nazionale risale ormai a 10 anni fa.
L’Accademia dei Georgofili
- come già all’inizio degli Anni 2000 - ha intenzione di avviare una
nuova stagione di studi, approfondimenti e dibattiti tra Accademici,
Istituzioni e Operatori Economici sui Distretti del Cibo, che sono una
delle forme più articolate e complete di organizzazione territoriale
della produzione e valorizzazione dei prodotti agricoli e alimentari e
dei territori su cui operano.
Attraverso il proprio “Centro di Studi
sull’Organizzazione Economica dell’Agricoltura e sullo Sviluppo Rurale -
GAIA”, l’Accademia ha costituito un Osservatorio Nazionale sui
Distretti del Cibo. Lo scopo dell’Osservatorio è di compiere studi
sistematici per far emergere le potenzialità e le prospettive che il
Distretto del Cibo, quale strumento di progettazione integrata
territoriale, può avere in relazione agli orientamenti delle politiche
per la prossima programmazione della PAC e del Piano Nazionale di
Ripresa e di Resilienza. È già stata avviata una prima indagine in
collaborazione con la Direzione PQAI del MIPAAF e con la Regione Toscana
sugli strumenti in atto.
La Maremmana viene allevata principalmente in condizioni estensive grazie ad una estrema rusticità e capacità di adattamento ad ambienti marginali. In virtù di queste caratteristiche, è stato condotto uno studio per identificare le regioni genomiche potenzialmente coinvolte nella diversità fenotipica osservata tra i bovini Maremmani e le altre razze italiane di derivazione podolica.
Ci siamo mai chiesti come fanno ad arrivare sulla nostra tavola mele grandi e succose, degne delle favole che amavamo tanto da bambini?
Per ottenere una produzione di qualità dagli alberi da frutto, non si può prescindere dalla pratica del diradamento che consiste nel rimuovere dalla pianta i frutticini in eccesso, promuovendo lo sviluppo dei frutti residui che possono quindi raggiungere migliori pezzature, colorazione e contenuto zuccherino.
Gli effetti migliorativi sulla produzione sono tanto più evidenti, quanto più si interviene precocemente con la regolazione del carico frutti, per cui un diradamento, effettuato in piena fioritura, permetterà di ottenere frutti dalle pezzature maggiori rispetto ad un diradamento effettuato in post - allegagione.
L'allegagione è quindi quella variabile che permette di trasformare un'informazione sul numero di fiori per pianta, in una informazione sul probabile numero di frutticini; per cui, in uno stesso frutteto, a parità di condizioni di allegagione, le zone con una maggiore fioritura saranno quelle che richiederanno una maggiore intensità di diradamento.
Grazie al diradamento, è possibile, non solo produrre frutti con pezzatura e maturazione ottimale per massimizzare i ricavi unitari; ma anche evitare di stressare le piante con cariche eccessive di frutti e contrastare l'insorgere di disordini fisiologici, in modo particolare l'alternanza di produzione.
Negli oltre 40 anni di indagini sulle gradazioni della Processionaria nelle pinete etnee, condotte con il supporto dell’Azienda Regionale Foreste Demaniali e del Parco dell’Etna, sono state effettuate parallele osservazioni sui Lepidotteri infeudati su altre essenze forestali presenti sulle pendici del vulcano. Delle oltre 100 specie di defogliatori riscontrate, 5 afferiscono alla famiglia Lymantriidae; di esse la Spilnozia o Falena bianco argentata, Leucoma salicis, L., è presente sui Pioppi che vegetano intorno a quota 2.000 m s.l.m. dove, periodicamente, va incontro a gradazioni della durata di circa 3 anni, intervallate da lunghi e irregolari periodi di latenza.
Lunedì della scorsa settimana, 18/10/2021, il Prof. Franco Famiani
dell’Università di Perugia ha svolto nell’ambito di un ciclo di webinar
organizzati dall’Accademia Nazionale dell’Olivo e dell’Olio, un
bellissimo seminario sulla: “Raccolta delle olive: epoca e
meccanizzazione”. La trattazione, iniziata alle 17 e seguita con vivo
interesse fino alle 19 da oltre 130 persone, si è articolata su quattro
principali tematiche: “Scelta dell’epoca”, “Sistemi di raccolta”,
“Effetti dei diversi sistemi sulla qualità dell’olio”, “Considerazioni
economiche”.
Puntualizzato che i parametri (metodi e processi) di
raccolta hanno effetti di primaria importanza sulle caratteristiche
quali-quantitative dell’olio, sulla produzione dell’anno successivo e
sui costi di produzione, molto spazio è stato opportunamente dedicato
alla scelta dell’epoca di prelievo delle drupe dalla chioma, operazione
che nella maggior parte delle aree olivicole del centro Italia viene
oggi svolta principalmente nei mesi di ottobre-novembre, con forte
anticipo rispetto ai decenni passati.
Da entomologo la mia riflessione è andata sul fronte della mosca delle olive, Bactrocera oleae (Rossi,
1790) (Diptera Tephritidae), verso i cui attacchi autunnali l’epoca di
raccolta ha sempre detto e continua a dire “la sua”.
Che la
produzione olivicola possa essere in parte sottratta all’evoluzione
dell’infestazione del dittero, pare fosse una nozione acquisita fin in
epoca romana: consapevolezza questa che circa due secoli or sono risulta
abbia portato Napoleone e i Borboni regnanti delle “Due Sicilie” a
mettere mano a provvedimenti legislativi per spingere gli olivicoltori
di alcune aree olivicole della Liguria e del Meridione ad anticipare a
inizio autunno l’epoca di raccolta delle olive nelle annate di scarica,
che come è noto sono solitamente caratterizzate da ben più elevati tassi
di infestazione [Anna Foà, Una mosca che divora milioni (la Mosca
olearia). - Milano, 1907, stralcio delle pag. 205-218 dal Secolo XX, con
illustrazioni].
Quattro erano i gusti (dolce, salato, amaro e acido) ai quali si è aggiunto il quinto gusto dell’umami e ora s’incomincia a parlare del gusto di grasso e di fritto e certamente non ultimo sarebbe anche il gusto di affumicato. Senza discutere se all’aroma di affumicato in tutte le sue variazioni corrisponda un gusto, è indubbio che gli alimenti affumicati da necessità si sono trasformati in una tendenza edonistica che sta interessando ogni tipo di alimento, divenendo oggetto di attenzione da parte dell’industria alimentare. Attualmente sapori affumicati stanno avendo un incremento e negli USA interessano anche nuovi settori come quelli dei dessert (+150%) e perfino dei cocktail (+27%). Affumicare inoltre non è più soltanto un procedimento industriale o un privilegio per pochi e si stanno diffondendo tecnologie che vanno dai kit e dagli affumicatori a caldo agli infusori a freddo con vendite in continuo aumento.
La ripresa vegeto-riproduttiva della pianta si realizza, spesso, prima che l’apparato radicale sia capace di assorbire adeguate quantità di nutrienti dal suolo. In tali situazioni le prime fasi di crescita vegeto-riproduttiva sono sostenute dalla “rimobilizzazione” degli elementi minerali accumulati la stagione precedente negli organi perenni (radici, tronco, rami).
La fonte di azoto utile per lo sviluppo e la crescita degli organi nelle piante perenni (come la vite) proviene da due processi: a) assorbimento radicale; b) mobilitazione delle riserve di azoto localizzate nelle strutture perenni (radici e tronco).
Questi due processi possono avvenire contemporaneamente o essere disaccoppiati nel tempo, come avviene nella prima parte del ciclo. La vite, come tutte le piante legnose, è una pianta molto dipendente delle sue riserve di azoto (e carbonio), che svolgono un ruolo cruciale per la crescita all'inizio del ciclo (Tromp, 1983; Loescher et al., 1990).
Il contributo (in %) di ogni compartimento (radici/tronco) alle riserve varia a seconda degli autori: da 40/60 per Wermelinger (1991), 65/35 per Schreiner et al. (2006), vicino a 80/20 Bates et al. (2002).
Sebbene si utilizzino proteine, le riserve di azoto sono preferibilmente costituite da amminoacidi, che sono la forma più comune e più economica di stoccaggio (basso C/N). L'arginina è predominante, rappresentando fino al 60% della quantità di azoto totale.
Le sostanze carboniose vengono accumulate sotto forma di amido (il 90% dello stoccaggio dell'amido è nelle radici), che viene immagazzinato principalmente a livello dei raggi parenchimali delle cellule delle radici e rappresenta 1/3 della massa secca delle radici (Zapata e al., 2004).
La crescita dell’apparato radicale riprende molto lentamente al germogliamento, man mano che il carbonio organicato dalle nuove foglie arriva a livello delle radici.
Il picco di crescita delle radici, generalmente, segue quello del picco di crescita dei germogli di 2 o 3 settimane.
L'assorbimento di azoto (e di altri elementi minerali) è un processo attivo che richiede energia neoformata, non proveniente dalle riserve. Fino al 25% dell'energia prodotta dalla fotosintesi può essere utilizzata per la funzione di assorbimento. La capacità delle radici di assorbire l'azoto è, quindi, dipendente dalla traslocazione dei carboidrati neoformati verso l’apparato radicale. La ripresa dell'assorbimento di azoto (e degli altri elementi minerali) si situa generalmente intorno allo stadio “3-5 foglie distese”. Un piano di fertilizzazione deve cercare di rendere disponibile l'azoto per la vite in questa fase. Apporti molto precoci non consentono alle radici di assorbire l’azoto poiché non ci sono foglie neoformate e, quindi, non c'è fotosintesi per la produzione di zuccheri, fonte principale di energia per l'assorbimento.
Dal punto di vista operativo i migliori momenti per l’applicazione dell’azoto sono quelli fra la fioritura e l’invaiatura o quelli subito dopo la raccolta (fatti precocemente). Prima del germogliamento, infatti, non c’è assorbimento di azoto degno di nota nelle parti legnose della vite. Subito dopo l’apertura delle gemme c’è un assorbimento interessante che raggiunge il massimo circa 4 settimane dopo la fioritura, quando vengono assorbiti 1,5-1,6 kg di azoto/ettaro al giorno. L’azoto applicato tra la schiusura delle gemme e la fioritura viene utilizzato prevalentemente per l’accrescimento vegetativo. Un altro picco di assorbimento si verifica subito dopo la raccolta, con circa 1 kg/ettaro/giorno, anche se interventi effettuati in questo periodo riescono ad assicurare solo il 12% delle richieste primaverili. Le radici continuano ad accumulare azoto fino alla caduta delle foglie.
L’Apocinacea Gomphocarpus physocarpus di incerta origine americana, asiatica o africana, per la bellezza dei suoi fiori e per i caratteristici frutti pelosi simili a palloncini verdi, è stata introdotta a scopo ornamentale in molti paesi europei, compresa l’Italia. Più nota come Asclepis physocarpa (da Asclepius, dio greco della medicina, e da physa (vescica) e carpòs (frutto) è conosciuta come Pianta palloncino, Palle pelose o Palle del vescovo.
Il diòspiro o diòspero, cachi o kaki (Diospyros kaki L., 1782) è un albero da frutto originario dell'Asia orientale, una delle più antiche piante da frutta coltivate dall'uomo, conosciuto in Cina da più di 2000 anni e il cui nome scientifico diospero proviene dall'unione delle parole greche Diòs e pyròs (grano del dio o Zeus) e dal termine giapponese del frutto pronunciato kaki. La prima descrizione botanica del cachi è pubblicata nel 1780 e il frutto arriva in America e in Europa alla metà dell'Ottocento, in Italia nel 1880 e nel 1888 Giuseppe Verdi scrive una lettera nella quale ringrazia chi gliene ha fatto dono.
Raggiungere il traguardo del “carbon neutral farming” entro il 2025 da parte degli allevamenti di bovine da latte si può. È la conclusione dei lavori della ventiduesima conferenza on line della International Farm Comparison Network (IFCN), che si è tenuta il 9 giugno 2021 ed ha visto telecollegati oltre mille esperti di 81 Paesi.
Secondo le ultime rilevazioni, la concentrazione di anidride carbonica in atmosfera è la più elevata degli ultimi 650 mila anni, con la conseguenza che abbiamo registrato, fra l’altro, le diciannove annate più calde dal 2000.
Fra i molti settori produttivi responsabili della produzione di gas serra di origine antropica ci sono anche gli allevamenti animali, fra cui quello delle vacche da latte. Gli esperti indicano nel 2.2% delle emissioni globali dei gas serra la responsabilità attribuibile all’allevamento delle bovine da latte. Di questo 2.2%, l’ 1.7% si deve ai Paesi cosiddetti emergenti. D’altra parte, è assolutamente improponibile limitare la produttività del settore lattiero-caseario che gioca un ruolo di vitale importanza nella produzione di proteine alimentari di elevata qualità per sostenere i fabbisogni nutritivi di miliardi di abitanti di questo pianeta, divenuto ormai troppo piccolo.
Se verranno rispettate le linee guida indicate dagli esperti intervenuti, entro il 2050 le emissioni di gas serra per kg di latte prodotto potranno essere abbattute del 28%. Ne consegue che, a fronte di un aumento della domanda di latte del 50%, l’incremento della concentrazione di gas serra sarà di circa l’8% nei prossimi 30 anni.
Per un futuro sostenibile è essenziale trovare nuovi modi di produrre e consumare cibo che rispetti i limiti ecologici del nostro pianeta. Un approccio circolare di gestione dei sottoprodotti agricoli che trasformi il letame, le colture e i rifiuti alimentari, così come le acque reflue urbane, in fertilizzanti organici e biogas risulta una strategia interessante, e attualmente largamente diffusa, in ottica di aumento della sostenibilità dei sistemi agricoli. Questo tipo di approccio risponde alle linee guida espresse dalla Commissione Europea all’interno della strategia “Farm to fork”. Lo sviluppo di strategie di sviluppo sostenibile atte alla valorizzazione dei residui agroindustriali in ottica di economia circolare sono in linea anche con gli Obbiettivi di Sviluppo Sostenibile contenuti nell’agenda 2030 delle Nazioni Unite.
Attualmente, all’interno degli impianti di biogas oltre all’energia si produce un sottoprodotto, il digestato, ricco di acqua, macro e micro nutrienti, che può essere valorizzato come fertilizzante organico liquido.
Tuttavia, il digestato presenta alcuni inconvenienti che possono comprometterne o limitarne l’utilizzo. In primo luogo, l’elevato contenuto di acqua, che si aggira attorno al 90% del peso totale, può rendere dispendioso l’impiego in terreni troppo lontani dall’impianto. Comunemente viene indicata una distanza limite di 20 km dal centro aziendale al di fuori della quale l’utilizzo del digestato prodotto non risulta economicamente sostenibile. Inoltre, un uso massiccio e prolungato nel tempo può favorire fenomeni negativi come l’inquinamento dei suoli e l’eutrofizzazione delle acque. Infine, soprattutto per quanto riguarda i digestati prodotti da residui solidi urbani o fanghi urbani, la presenza di antibiotici, contaminanti, metalli pesanti e plastiche, possono renderlo del tutto inutilizzabile in campo e renderlo piuttosto un rifiuto speciale da dover smaltire.
Per i grandi impianti esistono già tecnologie atte alla depurazione e al processamento del digestato per ridurne il volume, recuperare i nutrienti. Tuttavia, ad oggi ma mancano le attrezzature dedicate agli impianti di piccola scala che incontrano numerosi ostacoli nel processo di valorizzazione.
Un approccio innovativo che ha l’obiettivo di supportare i piccoli impianti di biogas attraverso una tecnologia mobile ed intelligente vede l’uso di un veicolo con rimorchio capace di raggiungere diversi impianti e processare direttamente in loco il digestato prodotto dall’impianto. Il modulo è capace di convertire un'ampia gamma di digestati in fertilizzanti organici di elevata qualità e ammendanti. Dopo una raffinazione dalle componenti grossolane come sabbia o componenti di maggiori dimensioni, il digestato viene triturato e pastorizzato per una prima eliminazione dei patogeni. In seguito si ha una rimozione degli eventuali residui di antibiotici e di contaminanti prima di procedere alla separazione della frazione solida da quella liquida. Come risultato, si avrà la produzione di fertilizzanti liquidi concentrati e ammendanti solidi essiccati o pellettati, a seconda delle necessità aziendali. Il veicolo sarà quasi totalmente autonomo da un punto di vista energetico grazie al recupero quasi totale dell’energia termica prodotta durante le fasi di raffinazione del digestato e al recupero del biogas residuo prodotto durante questa fase di raffinazione. Inoltre, gli elevati volumi d’acqua recuperati dal processo di raffinazione saranno resi nuovamente disponibili all’interno dell’impianto, in un’ottica di riutilizzo delle risorse.
Oggi riteniamo un’eresia gastronomica la pasta scotta e la esigiamo “al dente” e soprattutto che arrivi in tavola calda e fumante, bollando d’infamia un ristorante che cuoce la pasta la mattina, o peggio il giorno prima, scaldandola rapidissimamente a microonde, anche se può vantare il salutismo dell’Amido Resistente.
Chi ha ragione? La gastronomia o il salutismo dell’Amido Resistente che pare sempre più di moda?
Lo sviluppo delle piante, in tutte le sue varie fasi (crescita, fioritura, fruttificazione, formazione e caduta delle foglie), è regolato dall’integrazione di stimoli esogeni (luce, temperatura, disponibilità idrica) ed endogeni. Tra questi ultimi, rivestono particolare importanza gli ormoni vegetali.
Gli ormoni vegetali, in analogia con quelli animali, possono essere definiti come: “Sostanze naturali che intervengono, a basse concentrazioni, sui processi fisiologici dell’organismo”.
Possono essere divisi in due gruppi:
- Promotori (divisione cellulare e distensione, differenziazione a fiore, ecc.): auxine, gibberelline, citochinine.
- Inibitori o antagonisti dei promotori: acido abscissico ed etilene
Ai cinque gruppi di ormoni “classici”, gibberelline (GGAA), acido abscissico (ABA), citochinine (CK), auxine (IAA) ed etilene, si aggiungono ormoni di natura proteica, recentemente scoperti, e sostanze in grado di regolare la crescita, come brassinosteroidi (BR), poliammine (PA), giasmonati (JA), acido salicilico (SA), strigolattoni (SL).
Altre sostanze possono avere attività di “molecole segnale” (“agenti di segnalazione”): glutammato, glucosio, saccarosio, trealosio 6-fosfato, composti della famiglia degli apocarotenoidi, ROS (es. perossido di idrogeno), RON (es. ossido nitrico), ATP extracellulare, ecc.
Lo sviluppo della chioma e della radice è interdipendente e coordinato. Da una parte esiste un “flusso di messaggi” elaborati a livello della chioma che, muovendosi in direzione basipeta, raggiunge l’apparato radicale; dall’altro un flusso di messaggi elaborati dalla radice che, muovendosi in direzione acropeta, raggiunge la chioma. L’auxina può essere un componente importante del flusso proveniente dalla chioma, mentre le citochinine, sintetizzate a livello dell’apparato radicale, possono rappresentare una componente del flusso elaborato dalla radice.
Il movimento delle citochinine verso le parti superiori della pianta stimola la formazione di rami e foglie; i nuovi tessuti producono auxine che vengono trasportate nella parte inferiore dove si combinano con le citochinine per stimolare la produzione di nuove radici. Sebbene, virtualmente, tutti i tessuti vegetali siano capaci di produrre basse concentrazioni di auxine, i siti primari di sintesi sono i meristemi apicali dei germogli e le giovani foglie.
Mai come ora i richiami alla sostenibilità in agricoltura hanno varcato i confini del mondo scientifico per attrarre l’attenzione della pubblica opinione e soprattutto dei decisori politico-amministrativi. Ad esempio, l’Unione Europea con la sua politica agricola comune (PAC) adotta un approccio combinato e ambizioso alla sostenibilità; basandosi, infatti, sulle conoscenze scientifiche, sull’assoluta necessità di prevenire la degradazione ambientale e sulle innovazioni disponibili la PAC allinea l'agricoltura al Green Deal europeo, che mira a creare un futuro inclusivo, competitivo e rispettoso dell'ambiente per l'Europea. La sostenibilità in agricoltura non comprende solo la salvaguardia dell’ambiente ma poggia proprio su tre pilastri fondamentali e cioè la sostenibilità ambientale, appunto, ma anche la sostenibilità sociale e la sostenibilità economica. Vivendo e viaggiando nelle realtà rurali delle nostre zone agricole si può constatare che non sempre è facile conciliare questi tre aspetti.
A fronte di situazioni virtuose in cui si può constatare l’introduzione di tecnologie innovative basate anche sulla programmazione digitale, come, ad esempio, i nuovi sistemi di irrigazione, l’adozione di lavorazioni alternative a quelle convenzionali, gli inerbimenti nei vigneti e frutteti, ecc., si possono riscontrare anche esempi negativi che fanno riflettere sulle difficoltà di realizzare gli obiettivi della sostenibilità o quanto meno di conciliare, appunto, i tre aspetti di cui sopra.
A titolo di esempio si riporta qui una documentazione fotografica che può sembrare banale o addirittura casuale ma che, purtroppo, in vaste aree agricole, magari anche fragili, non lo è.
Queste foto (in apertura e sotto l’articolo) rappresentano una strada vicinale o interpoderale che, ad un certo punto, devia in mezzo al campo, fra due filari di olivi di un oliveto. Questa deviazione è dovuta al fatto che la strada originale si è dissestata e non più adeguata al passaggio delle macchine agricole; necessiterebbe di lavori di manutenzione ma la manutenzione costa sia in termini di tempo, sia di denaro, fattori essenziali e troppo spesso limitanti nell’attività agricola, e allora si ritiene più conveniente passare in mezzo al campo costituendo di fatto un’altra strada, aggiungendo, magari inconsapevolmente, danno su danno perché si compatta pesantemente il terreno togliendo al suolo, fra l’altro, una delle sue funzioni principali che è quella di lasciar infiltrare l’acqua. In questa situazione, alla luce dei violenti nubifragi, che sempre più spesso avvengono per effetto dei cambiamenti climatici in atto, l’acqua non si infiltra ma scorre lungo il terreno compattato innescando nuovi processi erosivi.