In tutto il mondo e fasce d'età la carenza di vitamina D è un grave problema di salute pubblica, anche nei paesi con bassa latitudine dove si pensava che le radiazioni solari ultraviolette fossero sufficienti per prevenire questa carenza e nei paesi industrializzati dove da anni si pratica la fortificazione con vitamina D di alcuni alimenti. Secondo alcune stime odiernamente circa il 40% della popolazione europea, il 26% di quella americana e il 20% di quella orientale è in carenza di vitamina D con gravi conseguenze sanitarie. La vitamina D ha due principali forme, la D2 ergocalciferolo prodotta dalle piante e la D3 colecalciferolo dai che i mammiferi e tra questi l’uomo.
Nell’uomo la vitamina D è in gran parte sintetizzata (circa 80%) per azione dei raggi ultravioletti del sole (colecalciferolo) e in una quota minore (ergocalciferolo) è assunta con alcuni alimenti (pesci grassi e in piccola quantità latte e derivati, uova, fegato e talune verdure). Inoltre nelle persone anziane sono ridotte la sintesi della vitamina nella pelle e l’utilizzo della provitamina D degli alimenti. Sorprendente è anche la carenza di vitamina D più diffusa fra i Paesi del bacino del Mediterraneo rispetto ai Paesi del Nord Europa, situazione denominata “paradosso scandinavo”, e che sembra essere dovuta a uno stile di vita al chiuso (le radiazioni ultraviolette non penetrano il vetro) e all’ampio uso di protezioni dalle radiazioni solari (vestiti, abbronzanti solari ad alta protezione) per il timore di dall’invecchiamento della pelle e di tumori, soprattutto melanomi. Da qui gli studi di produrre alimenti con aggiunta di vitamina D (fortificazione) disciplinati dal Regolamento (CE) 1925/2006 e tra questi vi sono bevande alla soia, latte vaccino, succo d’arancia, cereali e farina d’avena, con divieto di aggiunta ai prodotti alimentari non trasformati, frutta, verdura, carne, pollame, pesce e bevande alcoliche. Da qui sono nati gli studi ingegneria genetica per far produrre la vitamina D ai vegetali e in particolare al pomodoro.
Già da tempo si sapeva che le foglie di pomodoro contengono la 25-idrossivitamina D3 in forma libera (Prema T. P., Raghuramulu N. - Vitamin D3 and its metabolites in the tomato plant – Phytochemistry, 42 (3), 617 – 620, 1996. Lucinda J. Black, Robyn M. Lucas, Jill L. Sherriff, Lars Olof Björn, Janet F. Bornman - In Pursuit of Vitamin D in Plants – Nutrients, 13, 9 (2), 136, 2017) e ora con l’editing genetico del gene che codifica l’enzima 7-deidrocolesterolo reduttasi si sono prodotti pomodori che contengono il precursore della vitamina D. Coltivati in ambiente illuminato con luce ultravioletta il pomodoro converte provitamina D3 in vitamina D attiva, con la prospettiva di un ortaggio in grado di fornire direttamente vitamina D anche ai vegetariani e vegani, perché il consumo di un paio di questi pomodori freschi al giorno potrebbe soddisfare in buona parte il fabbisogno vitaminico raccomandato di vitamina D (Erik Stokstad - Engineered tomatoes get a healthy dose of vitamin D – Science, 27, 376 (6596), 907, 2022. Jie Li, Scarano A., Mora Gonzalez N, D'Orso F. et alii - Biofortified tomatoes provide a new route to vitamin D sufficiency - Nat Plants, 8 (6), 611-616, 2022).
In Italia il consumo annuo di pomodori pro capite è di circa cinquanta chilogrammi (quindici chilogrammi freschi da insalata e trentacinque chilogrammi trasformati in pomodori pelati in scatola, concentrati, polpe, salse e sughi pronti). La vitamina D è relativamente stabile al calore e durante la cottura fino a 180° gradi perde solamente il 20% del suo quantitativo iniziale. Circa centotrentasei grammi giornalieri di pomodori contenenti vitamina D, freschi o trasformati, sono una quantità significativa per contribuite in modo significativo il fabbisogno della vitamina. Per ottenere questo è però necessario che la modifica genetica sia introdotta nei pomodori da industria e da consumo diretto mantenendo le loro caratteristiche tecnologiche e organolettiche, che sia autorizzata dalle autorità e accettata infine dai consumatori che, allo stato attuale, sono per niente o poco disposti verso alimenti geneticamente modificati.