Sedici anni dopo la messa al bando degli antibiotici in alimentazione animale in Europa, l’argomento continua ad essere globalmente attuale. L’uso troppo “disinvolto” di queste sostanze come promotori di crescita ha causato il deleterio fenomeno della resistenza microbica agli antibiotici (AMR), con la conseguenza che molti microrganismi patogeni, anche per l’uomo, sono divenuti resistenti alle terapie antimicrobiche.
Nel marzo del 1922 San Donà di Piave ospitò un congresso che rappresentò l’inizio di una ampia riflessione sul ruolo della bonifica in Italia. Nel giro di alcuni anni la legislazione italiana si evolse arrivando all’adozione del Regio Decreto n. 215 del 13 febbraio 1933, noto come “legge Serpieri” che introduceva nell’ordinamento italiano il concetto di bonifica integrale e dava un ruolo fondamentale per i Consorzi di bonifica.
L’obiettivo della sicurezza alimentare, necessaria per la salute dell’uomo grazie a diete corrette per quantità e qualità, implica la presenza di alimenti di origine animale (AOA), ma non può prescindere dall’impatto ambientale di questi ultimi; di qui l’approccio One Health che integra le esigenze di salute del pianeta, con quella degli animali (e piante), entrambe importanti per garantire la salute degli uomini. Tuttavia, per evitare false interpretazioni, è anzitutto necessario correggere talune informazioni assai diffuse e non sempre del tutto corrette.
Tra le drupacee, il ciliegio è la specie che da più lungo tempo gode di un positivo trend di crescita in tutti i continenti. Le principali ragioni di un tale successo sono due: la diffusione delle cultivar autofertili, più costantemente produttive delle vecchie cultivar autoincompatibili e i nuovi portinnesti nanizzanti che hanno consentito una sensibile riduzione dei costi di produzione. Molte sono le istituzioni e i privati impegnati nell’ attività di miglioramento genetico sia delle varietà che dei portinnesti, ma il maggior merito di questa rivoluzione colturale va a due istituzioni: la Stazione Sperimentale di Summerland in British Columbia (Canada) per le cultivar autofertili e l’Università Justus Liebig di Giessen in Germania per i portinnesti. Il primo programma è legato a Karlis O. Lapins, il secondo a Werner Gruppe e Hanna Schmidt.
La storia di Lapins è piuttosto singolare e merita di essere raccontata: è nato in Lettonia nel 1909 dove ha studiato agricoltura presso la locale Università; durante la seconda guerra mondiale ha vissuto 4 anni come rifugiato in Germania e alla fine della guerra emigrò in Canada dove ha lavorato come operaio agricolo presso la Stazione Sperimentale di Summerland e poi come tecnico presso l’Associazione Frutticoltori della British Columbia. Ha infine conseguito il Master Degree presso l’Università di Vancouver e, nel 1953, è stato assunto dalla Stazione Sperimentale di Summerland come breeder, dedicandosi, in particolare, al miglioramento genetico del ciliegio dolce. Al tempo tutte le varietà di ciliegio coltivate erano autoincompatibili che, per fruttificare, hanno necessità di impollinazione incrociata e, pertanto, la consociazione di due o tre cultivar interfertili. Presso il John Innes Institute di Norwich (UK), all’inizio degli anni ’50, dall’incrocio Emperor Francis x polline irraggiato di Napoleon era stata ottenuta la selezione autofertile JI2420, di nessun valore colturale ma portatrice del carattere prezioso dell’autofertilità. Lapins ne intuì il grande valore per il suo programma di breeding e, nel 1956, la incrociò con Lambert introducendo, nel 1968, la prima cultivar commerciale autofertile cui diede il nome di Stella.
Il programma di Summerland è stato per molti anni il più importante a livello mondiale e ha dato cultivar di grande valore come Celeste, Samba, Cristalina, Sunburst, Sweetheart, Skeena, Canada Giant, Lapins e tante altre, diffuse nei cinque continenti e ben note ai cerasicoltori italiani. La cv Lapins, dall’incrocio Van x Stella e selezionata da Lapins prima del pensionamento, ma introdotta come cultivar successivamente, gli è stata dedicata su proposta unanime dei cerasicoltori canadesi, riconoscenti per il contributo dato dal dr. Lapins all’economia agricola del territorio. Il merito di Lapins va, comunque, ben aldilà delle cultivar da lui costituite; le sue varietà, Stella in primo luogo, sono le progenitrici di tutti gli attuali programmi di miglioramento genetico nel mondo. Tra questi, si distingue quello dell’Università di Bologna, nella persona di Silviero Sansavini con la collaborazione di Stefano Lugli, che già alla fine degli anni ’80 aveva iniziato una collaborazione con Summerland avviando un proprio programma di miglioramento genetico per la costituzione di varietà autofertili, selezionate per le condizioni ambientali e commerciali del nostro Paese. Le prime cultivar autofertili di Bologna della serie Star (Blaze Star, Early Star, Lala Star) sono state introdotte nel 1997; successivamente è stata introdotta la serie Sweet (Sweet Early, Sweet Aryana, Sweet Dave, Sweet Gabriel, ...). Le cv di Sansavini e Lugli sono oggi coltivate in tutto il mondo e sono un vanto della ricerca italiana.
Professore Ferrini, Firenze è stata recentemente selezionata dalla Ue per l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2030, Lei invece con il suo dipartimento universitario collabora al progetto Prato Forest City, per la forestazione urbano della città, ed ha più volte sostenuto nei suoi libri e in molti articoli il bisogno del verde in città: come pensa che sia possibile attuare questa “rivoluzione verde”?
Occorre partire dalla constatazione che le nostre città, pur essendo i motori della crescita economica, propulsori di idee e centri nevralgici di creatività e di innovazione tecnologica, sono purtroppo spesso caotiche, inquinate, rumorose e fonte di stress. C’è bisogno di riprendere un contatto con la natura che purtroppo il gigantismo delle realtà metropolitane ha fatto perdere, in Italia e anche all’estero.
C’è necessità di trovare aree verdi che consentano una rigenerazione a livello psico-fisico. Il verde aiuta ad accrescere non solo il benessere ambientale, ma anche quello sociale. Per questo esprimo la necessità di un’autentica rivoluzione verde. Essa deve partire dall’incremento della copertura arborea delle nostre città che, purtroppo, attualmente è molto al di sotto del “minimo sindacale” non solo in molte grandi città ma anche, soprattutto, nelle realtà medie e piccole – anche per la loro conformazione storica - dove la cementificazione e il consumo di suolo hanno allontanato il cosiddetto territorio aperto, dove è presente l’elemento naturale.
Dobbiamo creare città più verdi, ambienti concreti dove è possibile vivere bene. Quindi occorre partire dalla misurazione della copertura arborea, comprendere dove sono più sensibili le carenze di aree verdi, di alberi e da lì intervenire per creare le condizioni su misura dal punto di vista ambientale.
La data del 9 maggio, passaggio evocativo in cui la Russia ricorda con accentuata enfasi la fine della “Grande guerra patriottica” che per tutti è la seconda guerra mondiale, è superata. Ma il conflitto fra Russia e Ucraina prosegue il suo drammatico corso senza lasciar intravedere soluzioni possibili a una guerra in gran parte inedita e imprevedibile sviluppata su tre fronti: quello militare convenzionale con il suo corredo di morte e distruzione, quello economico fatto di sanzioni e ritorsioni, quello mediatico costituito da una serie infinita di notizie, vere o costruite ad arte. Queste hanno l’intento di agire spregiudicatamente tramite i mezzi di informazione sulle popolazioni coinvolte e sull’opinione pubblica mondiale. Rispetto ai conflitti del Novecento ed a quelli minori di questo secolo il peso del “fronte” convenzionale, pur determinante, è inferiore a quello degli altri due più che in passato. La temuta soglia dell’estensione della guerra guerreggiata al mondo intero non è stata oltrepassata, anche se incombe sul contesto.
La scelta dei Paesi Occidentali di sostenere con lo strumento delle sanzioni economiche l’Ucraina ha assunto un rilievo che è ancora da valutare. Il ricorso ad esso non è una novità ed ha precedenti storici noti avendo colpito, ad esempio, anche l’Italia negli anni ’30 del Novecento. Di recente è divenuto tipico delle guerre commerciali, come nell’ultimo decennio dopo la fase dello sviluppo della globalizzazione e della multilateralità delle trattative e delle regole che ne scaturivano. Nel contesto Gatt/Wto l’imposizione di sanzioni si accompagna a quella di ritorsioni ed entrambe sono sottoposte, o dovrebbero esserlo, a procedura di composizione del conflitto ed alla riduzione/eliminazione delle misure adottate.
L’uso attuale a fini bellici apre una pagina nuova ancora tutta da scrivere, ma con ricadute estremamente serie, anche se talvolta paradossali, come nel caso delle materie prime energetiche in cui, pur combattendo aspramente, le parti continuano a scambiare merci e a corrispondere pagamenti.
Gli echi degli orrori della guerra ci rattristano, ci preoccupano notevolmente e ci fanno pensare e riflettere. Oltre ad essere coinvolto emotivamente come tutti, avverto anche un senso di frustrazione nella veste di un vecchio ricercatore che si è sempre occupato di agricoltura, o meglio di valorizzazione della risorsa suolo al fine di essere utilizzato secondo la sua vocazionalità per ottenere prodotti e, quindi, cibo di ottima qualità. All’improvviso si è scoperto una nuova emergenza e cioè che non abbiamo
più materie prime per la nostra alimentazione, come il grano perché, a
causa della guerra, ci manca quello importato da Russia e Ucraina. Ci
sarebbe anche da riflettere su tutte quelle pubblicità che ci inondavano
sui mas media circa le qualità di pasta e pane prodotti con grani e
farine al 100% italiane; ci sarebbero gli estremi per stabilire se si
trattava di pubblicità ingannevole? Ma tanto nel bel Paese non paga
nessuno!
Il CL.USTER N.AZIONALE A.GRIFOOD ha elaborato e presentato a Parma il 5 maggio scorso durante lo svolgimento di CIBUS, il position paper per la Crescita Economica e Sostenibile del settore Agroalimentare italiano basato su ricerca e innovazione, inquadrando quattro trend tecnologici progettuali, su cui si sono raccolte manifestazioni di interesse di grande imprese, PMI e associazioni agricole e industriali.
Lunedì 4 aprile 2022, è stata pubblicata l’ultima parte del “VI Rapporto di valutazione dell’IPCC” (il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico). Il verdetto è drammatico: se la civiltà umana non modifica radicalmente il rapporto con la natura, di qui alla fine del secolo, il riscaldamento globale potrebbe arrivare a sfondare quota 3 gradi al di sopra dei livelli pre-industriali, aprendo scenari catastrofici. In altre parole, il futuro è già qui: occorre pensare la fine. Cosa significa? Significa, innanzitutto, riconoscere che eventi, un tempo remoti e poco probabili, sono ora un orizzonte vicino e definito; sappiamo cosa ci riserva un futuro ormai alle porte. Le avvisaglie sono già incontrovertibili: intere zone del mondo flagellate da siccità e desertificazione senza precedenti, estinzione di massa negli oceani (l’aumento della temperatura, la diminuzione dell’ossigeno e l’inquinamento da plastica stanno già provocando danni a vongole, gamberetti, alle barriere coralline ed a numerosi pesci), molte popolazioni che vivono in condizioni di grave siccità idrica, fenomeni meteorologici sempre più erratici e imprevedibili, 700 milioni di persone che rischiano entro i prossimi cinque anni di dover abbandonare i luoghi in cui vivono (profughi climatici).
Il paradosso dell’agricoltura
L’agricoltura contribuisce al cambiamento climatico ma, a sua volta, ne subisce gli effetti; essa deve quindi affrontare una doppia sfida: ridurre le emissioni di gas che alterano il clima (mitigazione) e, contemporaneamente, adattarsi alle nuove condizioni climatiche (resilienza).
Per ridurre l’impatto sull’ambiente è necessario un radicale cambiamento dei modelli di agricoltura fin qui perseguiti: oggi, produrre significa impiegare meno suolo, meno presidi chimici, minori emissioni di CO2 nell’aria, ottenere alimenti salubri ricercati da un consumatore sempre più attento.
Produrre cibo salvaguardando al contempo l’ambiente
L’agricoltura, perciò, al pari di altre attività, deve contribuire alla riduzione del livello complessivo delle emissioni e può farlo sia in modo diretto, che indiretto. Nel primo caso, utilizzando con criteri più razionali i mezzi tecnici (combustibili, lubrificanti, concimi, fertilizzanti, fitofarmaci), nel secondo caso, sfruttando le prerogative delle piante verdi di sottrarre CO2 dall’atmosfera e trasformarla, mediante fotosintesi, in biomasse vegetali, che vengono trasferite (totalmente o in parte) al terreno (“sequestro” del carbonio). Perciò, la riduzione del global warming operata dall’agricoltura si attua anche attraverso rimboschimento, ripristino delle terre degradate, aumento dell’accumulo di carbonio nel suolo, riciclo e valorizzazione dei rifiuti per la produzione di energie rinnovabili; ovvero, attraverso modelli colturali sostenibili in grado di valorizzare le interazioni biologiche tra tutte le componenti degli agro-ecosistemi e ridurre gli sprechi, secondo i principi dell’economia circolare (compostaggio dei rifiuti organici, trattamento controllato delle acque di scarico, riciclo dei rifiuti).
L’accrescimento radicale è condizionato dalla disponibilità di carboidrati e dalla produzione di bioregolatori endogeni provenienti dalla porzione epigea. Un’eccessiva crescita della parte aerea, rispetto all’apparato radicale, genera un aumento di auxine, le quali vengono trasferite per via floematica alle radici dove indurranno una risposta, attraverso un maggior sviluppo delle radici, per compensare le esigenze vegetative della pianta. All’opposto, un eccessivo sviluppo dell’apparato radicale, rispetto alla parte aerea, provoca un aumento di citochinine che verranno trasferite per via xilematica alla parte aerea, determinando così un maggiore sviluppo vegetativo e una crescita delle gemme laterali, che consentiranno di “smaltire” l’eccesso delle risorse assorbite per via radicale.
Superata ed in buona parte abbandonata la fase delle tecniche chimiche, oggi sono le tecniche fisiche che hanno maggiore successo, anche per la loro sicurezza e versatilità e tra queste ultime le tecniche pressorie, positive (iperpressioni) e negative (vuoto più o meno spinto), stanno avendo un gran successo. In una rassegna sulle nuove frontiere dell’Europa, la prestigiosa rivista Time (ottobre 2006, pag. 56 – 57) ha dedicato ampio spazio alla cosiddetta “cucina del vuoto” o, meglio, “cucina a basse pressioni” o “cucina delle ipopressioni” e su questa cucina esiste ora una buona bibliografia anche con ricette.
Nella sfida ai cambiamenti climatici emergono le potenzialità di specie minori, sottoutilizzate rispetto ad altre, ma particolarmente interessanti per caratteristiche di rusticità, resistenza alla siccità e quindi capaci di valorizzare le aree meridionali dell’Italia. In che senso il carrubo fa parte di queste piante?
Il carrubo rappresenta un fruttifero minore che sta facendo registrare negli ultimi anni un rinnovato interesse per l’utilizzo dei prodotti derivati dal seme nell’industria agroalimentare. Inoltre riscuote crescente interesse per le caratteristiche di resistenza e adattamento a condizioni pedoclimatiche marginali. La specie, sebbene sia una leguminosa, non è in grado di fissare l’azoto atmosferico come erroneamente ritenuto in passato ma manifesta livelli molto elevati di utilizzo dell’azoto grazie all’elevato tasso di fotosintesi a carico delle foglie più giovani. Anche con riferimento all’utilizzo dell’acqua, il carrubo si caratterizza per una fisiologia contrassegnata da meccanismi di adattamento agli stress idrici sia attraverso la riduzione delle richieste evapotraspirative che per le caratteristiche dell’apparato radicale. Questo, anche a causa della propagazione per seme, tipica della specie, è in grado di esplorare il suolo in profondità e, pertanto, di ricercare acqua anche in strati meno superficiali.
Professore Pulina, innanzitutto congratulazioni per la sua recente nomina tra i 1000 Top Animal Scientist del mondo. E' un importante riconoscimento che conferisce autorevolezza al suo lavoro e in particolare all'Associazione Carni Sostenibili, di cui è Presidente, che ha tra gli obiettivi primari quello di fornire informazioni attendibili ed equilibrate su salute, alimentazione e sostenibilità.
Grazie, ma non sono solo. Per fortuna una folta pattuglia di scienziati dei settori zootecnico e veterinario è stata inclusa in questa graduatoria (25 in totale) e ben 63 animal scientist sono stati inclusi nel top 2% del ranking compilato dal database dell'Esevier pubblicato nell'ottobre 2021. Molti di questi Colleghi sono Georgofili, a conferma della qualità scientifica degli Accademici.
Come riporta il sito di Carini Sostenibili (https://www.carnisostenibili.it/), secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio permanente Censis-Ital Communications sulle Agenzie di comunicazione, in Italia circa 14 milioni gli italiani usano Facebook come fonte di informazione e 4,5 milioni si informano esclusivamente sui social network. Ma non solo, secondo lo Science Post, il 70% degli utenti che leggono notizie online si limita al titolo.
Stando così le cose, il rischio di cadere vittime di bufale e fake news sul consumo di carne diventa sempre più concreto. Quali sono le più comuni? A suo giudizio i consumatori italiani sono così sprovveduti?
Le fake news più comuni riguardano la sostenibilità ambientale delle produzione della carne (una vacca inquina più di un auto, i bovini sono la principale fonte di impatto ambientale, ecc...) e la salubrità dei prodotti carnei (la carne rossa provoca il cancro, consumare carne porta all'obesità, ecc..), informazioni non solo infondate, ma pericolose per la salute pubblica e per lo stato nutrizionale delle persone appartenenti soprattutto alle fasce estreme (bambini, adolescenti e anziani) e deboli (soggetti fragili e convalescenti) della popolazione. I consumatori italiani per fortuna "si bevono poco" questa battaglia martellante, portata avanti sfortunatamente non solo dai social, ma anche dai legacy media (soprattutto quotidiani) per i quali veganesimo e antispecismo sono temi "cool". La stragrande maggioranza degli italiani consuma carne in maniera responsabile e la considera parte integrante della dieta mediterranea, per fortuna.
Una popolazione in crescita, un miglioramento del tenore di vita, una continua tendenza verso i beni usa e getta, un'industria dell'abbigliamento che produce collezioni ispirate all'alta moda messe in vendita a prezzi contenuti e rinnovate in tempi brevissimi sta provocando un esaurimento delle materie prime non rinnovabili e problemi nella produzione di fibre naturali. La produzione globale annua di fibre nel 2017 è stata di oltre 105 milioni di tonnellate delle quali poliestere e cotone costituiscono il 76% del totale con una produzione di circa 3,3 miliardi di tonnellate di CO2 e il rilascio incontrollato di microfibre che rappresentando oltre un terzo di tutta la plastica che raggiunge l'Oceano, con effetti pervasivi in tutti gli ecosistemi e potenzialmente più dannosi per i processi biogeochimici, le specie viventi e la salute umana rispetto ad altri rifiuti di plastica.
Il Blog del 13 aprile scorso dell’International Food Policy Research Institute (IFPRI) riporta un interessante pezzo che non avremmo voluto leggere, a cominciare dal titolo: “Di male in peggio, come le restrizioni all’export alimentare conseguenti alla guerra Russia-Ucraina stanno esacerbando l’insicurezza alimentare globale”, a firma dei ricercatori Joseph Glauber, David Laborde e Abdullah Mamun.
Secondo gli Autori, la prima conseguenza delle restrizioni all’esportazione di alimenti è l’aumento del loro prezzo, cosa che mette in difficoltà in prima istanza i Paesi importatori. In secondo luogo, la tendenza alle restrizioni tende ad essere “contagiosa”, nel senso che anche altri Paesi esportatori possono seguire e stanno seguendo l’esempio.
Professore Ferrante, si sta sempre più diffondendo sia in Italia che a livello globale l'agricoltura fuori suolo, ovvero idroponica, aeroponica e acquaponica. Ci può spiegare le differenze tra queste tre tipologie e quali sono a suo avviso i motivi di questa tendenza?
I sistemi di coltivazione fuori suolo o idroponici sono spesso utilizzati come sinonimi dove le piante hanno le radici all’interno di substrati colturali o di soluzioni nutritive o sospese in aria. Nelle coltivazioni fuori suolo le piante non hanno le radici nel terreno ma in substrati organici o inorganici come ad esempio torba o perlite. Questi substrati hanno solo la funzione di sostegno delle piante, mentre la nutrizione viene effettuata mediante fertirrigazione, ossia l’acqua è un vettore per la distribuzione degli elementi nutritivi mediante sistemi di microirrigazione. Le coltivazioni idroponiche derivano dalla parola idroponica di origine greca: "hidro” acqua e “ponos”, che significa lavoro, ossia il lavoro dell’acqua per la coltivazione delle piante. Le piante hanno le radici immerse nella soluzione nutritiva ed esempi di questi sistemi di coltivazione sono il floating system e Nutrient Film Technique (NFT). L’aeroponica è sempre un sistema idroponico dove le piante hanno le radici sospese nell’aria e l’apporto di nutrienti e di acqua avviene mediante una soluzione nutritiva che viene nebulizzata attraverso ugelli direttamente sulle radici.
L’acquaponica è una combinazione di un sistema idroponico e di un sistema per l’allevamento dei pesci. I due sistemi sono integrati e l’acqua dell’allevamento dei pesci con i suoi residui organici e nutrienti viene filtrata e inviata in un sistema idroponico per la nutrizione delle piante.
I sistemi idroponici si stanno diffondendo soprattutto per la produzione di ortaggi con la possibilità di aumentare l’efficienza d’uso dell’acqua e dei nutrienti. Nei contesti urbani per l’assenza del terreno agrario diventano la sola opzione possibile, così come le coltivazioni indoor o in vertical farm.
Dottor Pozzi, Lei, insieme al Prof. Orazio La Marca, è coordinatore del Progetto Do.Na.To per la creazione di una filiera toscana del legno di douglasia. Ci può innanzi tutto spiegare la tipologia di questo abete e il motivo di questo interesse per la sua coltivazione in Toscana?
La Douglasia (Pseudotsuga menziesii var. menziesii Mirb.Franco) è una conifera originaria della parte occidentale del continente nord americano, con areale che si distende seguendo l’asse delle Montagne Rocciose dalla Columbia Britannica al Nuovo Messico. Fa parte delle cosiddette conifere giganti del Nord America, un gruppo di specie capaci di raggiungere dimensioni imponenti e formare boschi con elevatissime provvigioni legnose. Questa specie fu introdotta in Europa nella seconda metà del 1800 come curiosità botanica e poi, una volta esperite con successo le verifiche di acclimatazione, tenuto conto delle condizioni di sovrasfruttamento dei boschi italiani, si pensò che l’introduzione di una specie altamente produttiva potesse migliorare il nostro patrimonio boschivo. Negli anni ’20 del secolo scorso, dopo uno studio approfondito delle condizioni pedoclimatiche dell’area di indigenato della Douglasia ad opera del Prof. Aldo Pavari, furono impiantate 86 parcelle a scopo sperimentale, distribuite in quasi tutta l’Italia, con prevalenza in zone dell’Appennino centrale che manifestavano buone affinità climatiche con le aree di indigenato della specie. I primi impianti su vasta scala ebbero inizio nel primo dopoguerra soprattutto nell’Appennino settentrionale e poi in quello centrale e meridionale (Bernetti e de Philippis (1990). I rimboschimenti interessarono per lo più i terreni di collina e bassa montagna, replicando anche nel nostro continente le straordinarie capacità produttive e l’adattabilità a vari tipi di ambienti. La douglasia forma attualmente i soprassuoli forestali più produttivi d’Italia e d’Europa, con produzioni che a 50 anni raggiungono i 900-1.000 mc/ha; in alcune particelle sperimentali a Vallombrosa si sono misurati, proprio nell’ambito delle indagini condotte dal progetto Do.Na.To., 1.600 mc/ha a 90 anni, tanto da considerarli verosimilmente tra i soprassuoli forestali europei con la più alta provvigione legnosa. Sempre a Vallombrosa c’è la pianta più alta d’Europa, una douglasia che nel 2017 aveva superato il metro di diametro e oltrepassava i 62 metri di altezza. La Toscana è la regione italiana in cui la douglasia è più presente, caratterizzando circa 7.000 ettari di soprassuoli, fra boschi puri e misti con altre specie. Molti dei soprassuoli di conifere presenti lungo il crinale appenninico sono costituiti da douglasia che oramai è entrata a far parte del paesaggio consolidato di ampi territori, quali il Casentino, il Pratomagno o l’alto Mugello. L’interesse per questa specie è nato da una serie di considerazioni legate alla sua straordinaria produttività associata alla elevata qualità tecnologica del legname (accoppiata questa alquanto insolita), resistenza alla siccità, facilità con cui può rinnovarsi naturalmente, la minor esposizione ai danni da brucamento rispetto a molte specie di interesse forestale, la buona resistenza a importanti fitopatie, la notevole plasticità ad ambienti pedologici alquanto diversificati, l’aspetto paesaggistico gradevole che richiama quello delle abetine presenti nel nostro Appennino e, non ultima, la straordinaria efficienza come carbon sinker, sia per la rapidità di stoccaggio (velocità di crescita) che per la durata del legname ritraibile (legno destinabile in larga misura ad usi di lunga durata). Tutto questo ne fa un importante, e probabilmente irrinunciabile, alleato per lo sviluppo della selvicoltura appenninica.
Uno degli effetti immediatamente percepibili della tropicalizzazione del clima è l’acclimatazione nel Bacino mediterraneo di Aleirodi di origine tropicale, verificatesi, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso. Non ultima in ordine di tempo è l’introduzione di Aleurocanthus spiniferus (Quaintance) che, dal 2008 è rimasto a lungo confinato in alcune zone della Puglia e, solo dopo un lustro ha iniziato a diffondersi nelle zone limitrofe a quelle in cui erano stati rilevati i primi focolai. Nel 2018 è stato riscontrato in agrumeti della Basilicata, e in aree urbane, principalmente su piante ornamentali della Campania, dell’Emilia-Romagna e del Lazio.
Nel dicembre del 2020 la Mosca bianca spinosa è stata riscontrata su agrumi in Sicilia dove si trova la più estesa superfice agrumicola italiana.
Due contrastanti idee da tempo pervadono il comune sentire su gli effetti degli antibiotici. Molte persone sono convinte che l'assunzione di un antibiotico anche in assenza di un’infezione provoca spossatezza, ma sono altrettanto convinte che negli allevamenti intensivi gli animali erano ingrassati con gli antibiotici. Antibiotici, oltre che uccidere microrganismi pericolosi, sono causa di spossatezza o di forza? Tolgono l’appetito e fanno dimagrire o fanno ingrassare? Solo opinioni o verità?
Gli Arabi tornano in Sicilia? Almeno come investimento, pare proprio di sì. Infatti il gruppo Oranfrizer, uno dei grandi player italiani degli agrumi, già a ottobre 2020 passato sotto il controllo della multinazionale Unifrutti delle famiglie De Nadai e Mondin, adesso assieme alla sua controllante è finito sotto il controllo di ADQ, società di investimento e holding con sede ad Abu Dhabi, fondata nel 2018, con un ampio portfolio finanziario di grandi imprese.
I suoi investimenti abbracciano settori chiave dell’economia diversificata degli Emirati Arabi Uniti, tra cui energia e servizi pubblici, cibo e agricoltura, sanità e scienze della vita, mobilità e logistica. “Come partner strategico del governo di Abu Dhabi – dice una nota stampa ufficiale – ADQ è impegnata ad accelerare la trasformazione degli Emirati in un’economia globalmente competitiva e fondata sulla conoscenza”.
Unifrutti parla di un “nuovo capitolo” per una nuova fase di crescita del gruppo. Per ADQ Gil Adotevi, direttore esecutivo per i settori “Food and Agriculture”, commenta: “Stiamo sviluppando il nostro portfolio di prodotti alimentari e agricoli con l’obiettivo di generare forti rendimenti finanziari, rafforzando al contempo la resilienza alimentare negli Emirati Arabi Uniti”. Insomma un grande investimento finanziario che lascerà il management di Unifrutti (e quello di Oranfrizer) liberi di continuare a fare il loro mestiere: crescere sui mercati internazionali, presidiare il segmento delle produzioni di qualità, dei processi e dei prodotti, l’attenzione alla sostenibilità, e quindi realizzare buoni guadagni per gli azionisti.
Nel recente webinar su Ortofrutta e Finanza organizzato dal nostro giornale (Corriere Ortofrutticolo – ndr) abbiamo parlato proprio di questo, dei capitali che i fondi di private equity investono nelle aziende non per fare beneficenza, ma per trarre profitti e magari rivendere le quote dopo che si sono valorizzate. Il tema c’è tutto e abbiamo visto lontano affrontandolo per primi. La partecipazione al webinar di primarie imprese del settore ha confermato l’interesse. I capitali che guardano anche al settore dell’ortofrutta sono ossigeno per la crescita, a maggior ragione in questo momento di squilibrio mondiale. L’ortofrutta è considerata un settore ‘resiliente’, in linea con le esigenze di benessere della moderna alimentazione, ed è e resta un settore globale, un business planetario, come sta dimostrando il ritorno degli operatori a Fruit Logistica.
L’ingresso dell’investitore del Golfo Persico, supportato (non avversato) dal management e dal board di Unifrutti, dovrebbe consentire all’azienda di avviare un ulteriore sviluppo internazionale. Lo stesso (penso) si possa dire per Oranfrizer. Quando nell’ottobre 2020 Oranfrizer entrò in Unifrutti il ceo Sebastiano Alba dichiarò: “Per crescere all’estero ed ovviamente in Italia potenzieremo l’intera filiera della produzione. Il nostro lavoro, avviato circa 60 anni fa, per valorizzare gli agrumi della Sicilia ed altri frutti coltivati in zone vocate della nostra Isola, continua”. Più chiaro di così.
Dottor Croce, Lei è direttore dell’associazione Chimica Verde Bionet, capofila del progetto Cobraf (Coprodotti da bioraffinerie), basato sui prodotti derivabili da 4 colture oleaginose: camelina, canapa, cartamo e lino. Ci spieghi meglio in che cosa consiste il progetto e chi altro ne fa parte.
Il progetto Cobraf ha avuto per obiettivo prioritario l’avvio di un modello di bioeconomia regionale sulla base dei prodotti derivabili a cascata delle 4 colture oleaginose che lei ha menzionato.
Tutte specie coltivate da millenni in Europa, ma in realtà innovative per gli attuali ordinamenti colturali toscani, e italiani, e per i loro molteplici impieghi. I 19 partner del Gruppo Operativo COBRAF - aziende agricole, imprese industriali di vari settori (oli e grassi, edilizia, accessori per camper, tessile, alimentare, farmaceutica), enti di ricerca e associazioni – nell’arco del progetto hanno sviluppato e testato vari prodotti e processi innovativi, verificando la sostenibilità ambientale ed economica delle filiere dal campo al prodotto finito.
La scelta delle quattro colture è dettata dal fatto che hanno tutte elevate proprietà nutrizionali e salutisti-che, a partire dagli acidi grassi polinsaturi contenuti nei semi e molti altri metaboliti presenti nei semi ma anche nelle infiorescenze, come vitamine, proteine, polifenoli, terpeni, glucosilati, cannabinoidi, ecc. Nutraceutica, farmaceutica e cosmesi rappresentano infatti alcuni degli impieghi a più alto valore aggiunto per le aziende agricole.
Ma oltre a queste destinazioni si possono ottenere molti altri prodotti, come ad esempio adesivanti per legno o dalle paglie di canapa e lino materiali da costruzione, materiali compositi per il settore automotive, tessuti tecnici e così via. E, dato fondamentale, tutti questi impieghi in alternativa ai materiali tradizionali consentono un notevole risparmio di emissioni e di consumi energetici.
Non è raro che proprio negli allevamenti rurali e familiari ben tenuti e
senza alcun apparente motivo le galline depongano uova che in modo più o
meno evidente puzzano di pesce. Questo grave difetto è comparso anche
negli allevamenti industriali nel secolo scorso, ma non più oggi, quando
si è scoperta l’origine e che non era, come alcuni avevano creduto, la
presenza di farine di pesce nell’alimentazione delle galline. La
scoperta dell’origine di questo grave difetto che rende non usabili le
uova che puzzano di pesce è avvenuta solo con la conoscenza di due
diversi componenti: l’alimentazione e la genetica delle galline, e il
concomitante studio di persone che puzzano di pesce.
La Pizza Napoletana Verace è uno dei prodotti italiani più apprezzati in tutto il mondo.
Il
Regolamento della Commissione Europea n. 97/2010 ha iscritto la
denominazione Pizza Napoletana nell’albo delle specialità tradizionali
garantite (STG). Inoltre, nel 2017 l’Organizzazione delle Nazioni Unite
per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO) ha iscritto l’arte
del pizzaiolo napoletano nella Lista Rappresentativa del Patrimonio
Culturale Immateriale dell’Umanità.
In Italia operano attualmente circa 127.000 aziende con attività di pizzeria che impiegano circa 100.000 dipendenti, che raddoppiano nei fine settimana. A fronte di un consumo giornaliero intorno a 8 milioni di pizze, il fatturato del settore ammonta a 15 miliardi di euro/anno. La produzione di pizza artigianale in ristoranti, pizzerie, bar o gastronomie copre circa l’80% delle vendite di pizza, mentre il restante 20% è coperto dalla pizza surgelata. Circa otto italiani su dieci scelgono la pizza margherita, marinara o capricciosa.
Una review pubblicata nel marzo 2021 (Menossi M, Cisneros M.,. Alvarez
V.A., Claudia Casalongué C. Current and emerging biodegradable mulch
films based on polysaccharide bio-composites. A review. Agronomy for Sustainable Development (2021)
41: 53) ha messo in evidenza limiti e vantaggi della possibile
sostituzione dei tradizionali teli pacciamanti con una nuova generazione
di pacciamature ottenuta da polisaccaridi. La pacciamatura ha iniziato a
diffondersi già alla fine della prima metà del secolo scorso con la
plastica: già allora gli agricoltori avevano percepito a proprio
vantaggio le capacità di isolamento, stabilità meccanica e ad alte
temperature, resistenza a corrosione e degrado, allontanamento di alcuni
patogeni, processamento semplice e poco costoso. Al di là delle
considerazioni ecologiche-estetiche legate alla “agricoltura della
plastica”, occorre rimarcare come le pacciamature abbiano un ruolo
importante sulla conservazione dell’acqua, la riduzione delle malerbe,
il riscaldamento del terreno ed anticipo del raccolto, qualità del
raccolto, ed abbiano quindi anche attualmente un significato importante
sulla sostenbilità ed efficienza dal punto di vista della gestione delle
risorse.
La rimozione dei film dai campi, così come il loro
riciclo, PE incluso, sono però costosi, e si assiste quindi ad accumuli a
bordo campo, combustioni incontrollate, episodi di contaminazione in
micro e macroplastiche. Alla fine della stagione, invece, le nuove
pacciamature potranno essere incorporate direttamente nel terreno ed
essere mineralizzate senza rischi ambientali. I polimeri che le
costituiscono includono polisaccaridi come amido e cellulosa fornite da
piante, proteine, alginati estratti dalle alghe, chitosano dallo
scheletro di artropodi e crostacei, ad esempio. Tutti quanti, comunque,
sono polimeri complessi che includono molti gruppi funzionali e
strutture chimiche atte a conferire un’alta versatilità, annoverando
alcuni svantaggi dovuti a basse performance meccaniche e fragilità.
Dottor Pasti, lei conduce con fratelli e cugini, nel Basso Piave,
un’azienda agricola di 600 ettari e fa parte di una famiglia dedita
all’agricoltura da oltre tre generazioni. Dal dicembre 2001 al luglio
2017 è stato presidente dell’AMI, Associazione maiscoltori italiani.
Qual è il suo punto di vista sull'attuale congiuntura negativa per i
cereali causata dalla guerra in Ucraina, come riusciremo ad affrontarla e
in quali tempi?
La guerra in Ucraina è un tragico evento che
in Italia ha messo in luce la crisi del settore cerealicolo e maidicolo
in particolare. Questa crisi tuttavia nasce da lontano ed è frutto di
una serie di scelte fatte dal 2003 fino ad ora col Piano Strategico
Nazionale. La guerra ha impedito le importazioni dal Mar Nero e spinto
l’Ungheria, reduce da un’annata agraria poco produttiva, a mettere un
blocco temporaneo alle esportazioni; quest’ultimo ha inciso in maniera
più drammatica sulla disponibilità di mais sul mercato nazionale e ha
spinto le quotazioni sulle principali piazze italiane oltre i 400
euro/tonnellata. Alcuni hanno additato la speculazione finanziaria per
questi aumenti, ma in realtà le quotazioni a Chicago sono aumentate meno
del 20% mentre sul mercato fisico in Italia sono aumentate di oltre il
40%, a testimoniare la carenza di prodotto e la scarsità delle scorte
presenti nel nostro paese. Fortunatamente l’Ungheria ha parzialmente
sospeso il blocco delle esportazioni e i rifornimenti per la produzione
di mangimi sono ripresi. Prezzi così alti del mais hanno messo in crisi
la zootecnia ed il settore del latte in particolare, che proviene da
anni di prezzi bassi dopo la fine delle quote latte.
Allargando lo
sguardo è interessante vedere come sono cambiati i prezzi negli ultimi
40 anni al netto dell’inflazione. Scopriamo così che il mais nel 1982
valeva 28.000 lire/qle che corrispondono a 590 euro/tonnellata di oggi,
ma il latte alla stalla veniva pagato 81 centesimi al litro mentre al
consumatore costava 1.46 euro al litro, più o meno come ora. In pratica
nella catena del valore i margini si sono spostati a valle della fase di
produzione agricola.
Affrontare la crisi attuale non è banale perché
in realtà era già in atto prima della guerra e quest’impennata di
prezzi colpirà duramente i consumatori più poveri dei Paesi in via di
sviluppo del nord Africa, medio oriente e altri paesi asiatici. E’ di
questi giorni lo scoppio di manifestazioni di piazza per i rincari di
cibo e carburanti in Sri Lanka, Paese già provato dal crollo del turismo
a seguito della pandemia e dal calo della produzione agricola a seguito
della scelta del governo di imporre a tutti il metodo di produzione
biologica. Se nella stagione entrante dovesse esserci un clima
sfavorevole in uno dei principali bacini produttivi di cereali (USA,
Cina ed EU) nei prossimi mesi ci troveremo di fronte ad una mancanza di
cereali ben peggiore del periodo 2007-10 che diede poi origine alle
primavere arabe. Già oggi l’indice del prezzo del cibo elaborato dalla
FAO ha toccato un nuovo massimo storico
L’articolo intitolato “Lemna: una fonte di proteina vegetale che potrebbe cambiare il mondo dell’alimentazione animale”, a firma di Claudia Catelani Cardoso, Gabriele Fortini e Aldo Villagrossi Crotti (qui sotto scaricabile per esteso in formato PDF), offre una valutazione scientifica di due alternative proteiche: la lemna (piante acquatiche depurativa oggetto di ricerca dalla Fondazione SSICA) e gli insetti.
Da anni, si parla di “deficit proteico” nell’Unione Europea. In più riprese il Parlamento ha affrontato l’argomento, adottando risoluzioni, invitando la comunità scientifica (e quindi i produttori di innovazione) ad intraprendere azioni per sostituire la dipendenza europea dalle fonti proteiche di importazione a favore di fonti europee alternative.
In Italia la quinoa ha suscitato l’interesse di diversi imprenditori agricoli e in particolare alcune imprese agricole, con il supporto del Dipartimento di Scienze delle Produzioni Vegetali Sostenibili (DI.PRO.VE.S.) dell’Università Cattolica (U.C.S.C.) di Piacenza, hanno costituito il Gruppo Operativo "Quinovation" con il fine di effettuare uno screening delle varietà più adeguate alle condizione pedoclimatiche dell’Italia settentrionale, sia in aziende convenzionali, sia in aziende biologiche.
L’idea era quella di offrire una nuova coltura alternativa per le rotazioni, ottenere nuove informazioni sperimentali sul ciclo culturale della quinoa e sul suo potenziale di adattamento alle condizioni pedo-climatiche della regione Emilia Romagna.
Il lavoro che è stato fatto ha permesso di inserire la quinoa in un piano di rotazione pluriennale, consentendo di ridurre alcuni dei problemi generati dal continuo ricorso alla monosuccessione. Tutto questo grazie alle caratteristiche di rusticità e adattabilità che contraddistinguono la coltura.
Sul tema del nuovo regolamento Ue che apre ai vitigni ibridi anche per DOC e DOCG abbiamo sentito l'opinione scientifica del Prof. Cesare Intrieri. Adesso, la parola va a un produttore: l’accademico Lamberto Frescobaldi, presidente della Marchesi de’ Frescobaldi, imprenditore vitivinicolo alla trentesima generazione.
Dottor Frescobaldi, la sua azienda comprende 1.350 ettari di vigneto in Toscana più 41 in Friuli, una decina di fattorie e altrettante cantine e undici milioni di bottiglie di vini famosi come Masseto, Luce, Ornellaia, Mormoreto e Benefizio venduti in tutto il mondo. Come ha vissuto l’approvazione del Regolamento 2021/2117 lo scorso dicembre, che ha aperto all’utilizzo degli ibridi nella produzione di vini DOC e DOCG?
La nostra azienda in questi ultimi 30 anni ha cercato di affinare l’interazione vitigno / portinnesto / ambiente. L’obbiettivo è stato quello di esaltare le caratteristiche specifiche di quel vino nell’ambiente dove nasce. Ci siamo più focalizzati sul territorio che non sul vitigno. Gli ibridi per una fascia di prodotti e per una determinata fascia di clientela potrebbero essere interessanti in quanto questi dovrebbero avere caratteristiche organolettiche nuove e probabilmente ad alcuni gradite. Quindi ancorché non personalmente interessato per la nostra azienda, non chiuderei questa l’opportunità per chi volesse esplorare anche questo nuovo campo.
Lo scorso dicembre il Parlamento e il Consiglio Ue hanno modificato le norme relative ai prodotti vitivinicoli, aprendo all'utilizzo dei vitigni ibridi per la produzione di vini DOC e DOCG. Riprendiamo l'argomento con il Prof. Cesare Intrieri, accademico emerito, il quale ha pubblicato una nota sull'argomento lo scorso febbraio su "Georgofili INFO": La Ue apre all’utilizzo delle denominazioni di origine anche per i vitigni da incrocio tra Vitis vinifera ed altre specie del genere Vitis. Quali conseguenze per la viticoltura italiana?
Professore Intrieri, perché l'Unione Europea ha modificato questo Regolamento e quali saranno le conseguenze nella viticoltura italiana? Lei prevede che, cito, "presso i Consorzi di tutela delle Doc le discussioni su come applicare il Regolamento comunitario saranno lunghe e difficili" ...
La modifica del Regolamento UE è in linea con il principio della sostenibilità voluto dalla Pac. La nuova normativa viene incontro alle istanze delle nazioni che da sempre coltivano la vite in condizioni ambientali di maggior pressione delle malattie fungine (Austria, Germania, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia) e accoglie le richieste dei paesi che con il cambiamento climatico si sono affacciati più recentemente alla viticoltura (Lussemburgo, Belgio, Olanda, Bulgaria, Polonia, Danimarca, Svezia, Norvegia). Il nuovo Regolamento ha lo scopo di consentire un più ampio utilizzo delle varietà di viti incrociate con la Vitis vinifera, che hanno una maggiore resistenza alle malattie e richiedono meno trattamenti annuali per la difesa sanitaria.
Anche per l’Italia l’apertura della UE all’impiego degli ibridi nei vini Dop, oltre che in quelli da avola e Igt, rappresenta un fatto positivo, ma gli effetti della norma comunitaria sulla riduzione dell’uso dei fitofarmaci nelle aree Doc e Docg si manifesteranno in tempi sicuramente lunghi per vari motivi, e innanzi tutto perché il Regolamento dovrà essere recepito dalla nostra legislazione, abrogando le leggi che attualmente vietano l’uso degli ibridi nei vini Dop.
L’abrogazione di tali leggi non è obbligatoria, e quindi sarà fonte di lunghe discussioni e di forti pressioni politiche contrapposte, poiché l’Italia potrebbe legittimamente mantenere il suo atteggiamento “restrittivo” rispetto ad una strategia europea di tipo “estensivo” sui vincoli d’uso degli ibridi. Ogni Regione dovrebbe comunque anche aver già autorizzato o dovrà autorizzare alla coltura le varietà ibride iscritte al Registro nazionale, un passaggio altrettanto lungo ma giuridicamente necessario.
Ammettendo che nel giro di uno o due anni l’impiego degli ibridi nelle Dop sia accolto dalla nostra legislazione, la palla passerà nelle mani dei Consorzi di tutela, alcuni dei quali, soprattutto quelli con denominazioni legate al nome del vitigno, potrebbero avere non poche difficoltà a rinunciare alla “rigidità” delle loro piattaforme ampelografiche. I Consorzi favorevoli all’introduzione degli ibridi dovranno poi discutere sulla scelta delle varietà resistenti, un problema certamente non facile da risolvere in tempi brevi: gli ibridi da utilizzare nelle Dop dovrebbero infatti aver dimostrato di avere caratteristiche agronomiche, chimiche e organolettiche riconducibili in modo certo e oggettivo al vitigno di base del singolo disciplinare. Un ulteriore argomento di discussione all’interno dei Consorzi verterà sulla percentuale di inserimento delle varietà ibride nei disciplinari, una quantità che dovrà comunque essere limitata per non modificare la tipicità delle produzioni enologiche.
In pratica, è quindi ipotizzabile che passeranno diversi anni prima che una quota importante della superficie italiana a Dop possa accogliere nei propri disciplinari le varietà resistenti, ma se anche la loro diffusione non sarà rapida e generalizzata, questo non toglierà valore alla loro funzione primaria, poiché è universalmente condivisa l’importanza degli ibridi per rendere più ecologica la coltura della vite, specialmente in zone fortemente urbanizzate ad elevata densità di popolazione.
Siamo in tempi di cambiamenti climatici che acuiscono il problema dell’isola di calore urbano e di aumento delle concentrazioni di inquinanti, entrambi fattori aggressivi non solo per gli esseri viventi ma anche per il patrimonio storico. In questo contesto avere l’ombra degli alberi e, contemporaneamente, la loro azione nei confronti della rimozione del particolato può rappresentare una vera “luce”. È ciò che emerge da un recente lavoro svolto monitorando le alberature del lungotevere e dei giardini di Villa Farnesina che ha dimostrato come l’accumulo del particolato automobilistico sia limitato grazie alla presenza degli alberi che ne impediscono l’ingresso nelle logge e i conseguenti danni ai capolavori di Raffaello.
Professore Gucci, Lei è Presidente dell'Accademia Nazionale dell'Olivo e dell'Olio. Ci spiega chi ne fa parte e quali sono le principali attività che svolge?
L'Accademia Nazionale dell'Olivo e dell'Olio nasce nel 1960 a Spoleto per iniziativa dell’allora senatore Salari e di un gruppo di imprenditori agricoli, professori universitari, industriali e professionisti che compresero il ruolo strategico dell’olivicoltura all’interno del quadro agricolo nazionale e la necessità di costituire un sodalizio indipendente ove confrontarsi e tracciare le linee guida per lo sviluppo del comparto. Dopo oltre 60 anni dalla fondazione l’assetto sociale dell’Accademia segue la stessa impostazione iniziale, e accoglie oltre 270 membri che appartengono a diverse categorie professionali con l’obiettivo di rappresentare e coprire tante e diverse competenze. Naturalmente la gran parte degli accademici proviene da Università ed enti di ricerca particolarmente attivi nella ricerca, didattica e trasferimento tecnologico per la filiera olivicolo-olearia, ma rimane l’eterogenea composizione di esperti in grado di fornire pareri, condurre studi, proporre progetti e divulgare informazioni tecniche e scientifiche a beneficio della filiera. Gli obiettivi di maggiore interesse riguardano la promozione di studi, ricerche, seminari e convegni sui maggiori problemi concernenti l'olivo ed i suoi prodotti e sugli aspetti vitali di natura tecnico-economica, giuridica e nutrizionale e la collaborazione con associazioni di categoria e portatori di interesse per iniziative di livello nazionale ed internazionale. Per fare un esempio pratico, a partire dall’autunno del 2021 l’Accademia ha organizzato per conto di un’importante associazione nazionale di produttori olivicoli un nutrito ciclo di seminari telematici di aggiornamento tecnico, tuttora in corso.
L'olivo è parte integrante del paesaggio italiano, una vera icona soprattutto in certe regioni, ma succede talvolta che gli olivicoltori abbandonino la loro attività perché non ne traggono abbastanza reddito. Come si può ovviare a questo problema? Ci sono segnali positivi da parte della politica?
L’olivicoltura caratterizza il paesaggio delle regioni peninsulari ed insulari italiane in maniera unica. Tuttavia, la situazione attuale dell’olivicoltura non è affatto florida e purtroppo si assiste ad un diffuso e progressivo abbandono anche in zone di antica tradizione. Le cause sono tante e sono sia di natura strutturale che congiunturale. Molti oliveti, spesso tra i più attraenti dal punto di vista paesaggistico e più delicati dal punto di vista ambientale, sono ubicati in aree marginali che non consentono elevate produzioni e comportano alti costi di produzione. Si stima che circa due terzi della nostra olivicoltura sia costituita da oliveti tradizionali e che solo una piccola quota di questi abbia le caratteristiche per essere redditizia dopo opportuni interventi di miglioramento della tecnica colturale. In molti casi però le pendenze dei terreni, i vincoli posti dai terrazzamenti, la frammentazione delle superfici aziendali rendono praticamente impossibile modernizzare e rendere competitivi gli oliveti. Dobbiamo essere consapevoli che non possiamo perdere questi patrimoni culturali, trascurandoli fino all’abbandono o addirittura lasciandoli invadere dalla vegetazione spontanea e dal bosco.
Sessant’anni di pace, di crescita e prosperità economica: in questo 2022 ancora segnato dalle code di una pandemia e da una guerra alle porte di casa tra Russia e Ucraina, la Politica agricola comune resta un caposaldo. Un capitolo specifico dei Trattati di Roma che in oltre mezzo secolo ha contribuito a realizzare un’Europa unita nelle diversità. E che ancora oggi, grazie alla lungimiranza dei nostri padri costituenti, garantisce cibo a più di mezzo miliardo di cittadini. Con una novità assoluta nella sua storia: una condizionalità sociale che, in prospettiva, metterà alle corde chi non rispetterà i diritti dei lavoratori nelle aziende agricole.
Nel quadro della nuova Pac che entrerà in vigore nel 2023, infatti, l’Unione europea ha introdotto uno strumento – fortemente voluto dall’Italia con il nostro contributo al Parlamento Ue – in base al quale tutti coloro che non rispetteranno i requisiti relativi alle condizioni e di impiego dei lavoratori si vedranno decurtare, fino all’azzeramento, gli aiuti.
Il taglio per chi non rispetterà le direttive, nonché la normativa nazionale in materia di lavoro, sarà modulato tra un minimo del 15% e fino al 100%, a discrezione degli Stati membri. Le autorità coinvolte nell’attuazione di questo meccanismo, attraverso poteri di controllo e sanzionatori, saranno l’Ispettorato nazionale del lavoro, il Corpo dei vigili del fuoco, il ministero della Salute e le Regioni.
La condizionalità sociale rappresenta un ‘unicum’ di cui si parlava da anni. I sindacati di categoria la chiedevano a gran voce, posto che qualunque proposta in questo senso, al momento di avviare le trattative per le diverse riforme Pac che si sono succedute, è sempre poi finita su un binario morto.
La proposta messa sul tavolo nel 2018 dalla Commissione europea non ne presentava traccia. Mentre ora possiamo dire con soddisfazione che, su nostra indicazione al Parlamento Ue, la condizionalità sociale è diventata realtà. E che a partire dall’anno prossimo rappresenterà di fatto il terzo pilastro di questa Pac, oltre a quello ‘storico’ della tutela del reddito degli agricoltori e di una maggiore attenzione per l’ambiente, nel quadro del Green Deal indicato dalla Commissione ‘targata’ von der Leyen.