Lo scorso 20 maggio 2021, il Senato della Repubblica ha approvato quasi
all'unanimità il disegno di legge sull'agricoltura biologica, DDL 988,
con 195 voti a favore, uno contrario ed un astenuto. Il testo è quindi
tornato alla Camera per la terza lettura, avendo Palazzo Madama
introdotto modifiche a quello licenziato da Montecitorio in prima
lettura.
L'unico punto che ha diviso l'Aula del Senato è stata
l'equiparazione, prevista dal testo, dell'agricoltura biodinamica a
quella biologica. La Senatrice a vita Elena Cattaneo ha presentato due
emendamenti, poi bocciati, per espungere tale equiparazione, definendo
l'agricoltura biodinamica "una pratica esoterica e stregonesca" priva di
basi scientifiche. La Senatrice Cattaneo ha poi votato contro il DDL.
Anche la Senatrice Elena Fattori (Leu) ha espresso le stesse critiche,
astenendosi però nel voto finale. Contro l'agricoltura biodinamica si è
anche espresso il gruppo di Fratelli d’Italia, che ha comunque votato a
favore del disegno di legge, valutandone la positività nel suo insieme.
Chiusa la discussione generale sul disegno di legge, il Relatore
Senatore Mino Taricco ha fornito ulteriori precisazioni “proprio alla
luce delle dichiarazioni della Senatrice Cattaneo”, e l’esito del voto
dell’Aula è stato quello già descritto.
L’approvazione del testo
finale è stata seguita da numerose dichiarazioni ufficiali: decisamente
positive quelle rese dalle diverse organizzazioni di produttori
agricoli, fortemente critiche quelle manifestate da parte di una
moltitudine di scienziati appartenenti a varie discipline scientifiche e
aderenti a varie associazioni.
Probabilmente, le forti critiche al
DDL mosse da numerosi scienziati non sarebbero sorte se il DDL avesse
fatto riferimento esclusivo all'agricoltura biologica, senza alcuna
equiparazione con altri metodi di produzione. Invece, l'art.1 comma 3,
così recita:
"3. Ai fini della presente legge, i metodi di
produzione basati su preparati e specifici disciplinari applicati nel
rispetto delle disposizioni dei regolamenti dell'Unione europea e delle
norme nazionali in materia di agricoltura biologica sono equiparati al
metodo di agricoltura biologica. Sono a tal fine equiparati il metodo
dell'agricoltura biodinamica ed i metodi che, avendone fatta richiesta
secondo le procedure fissate dal Ministro delle politiche agricole
alimentari e forestali con apposito decreto, prevedano il rispetto delle
disposizioni di cui al primo periodo."
L'intero comma non
entusiasma per la pesante burocratizzazione della forma di agricoltura
detta "biologica" -espressione non perfetta sul piano
tecnico-scientifico, anche se ormai in uso comune-, ma si tratta di una
normativa diretta a un modo di fare agricoltura che non confligge con i
principi scientifici sui quali si basa -e si è basata- l'agricoltura
moderna.
Il caso dell'agricoltura biodinamica è assai diverso: i suoi tradizionali presupposti non appartengono al pensiero scientifico e alcuni prodotti, che ancora oggi vengono consigliati agli agricoltori desiderosi di immettere sul mercato alimenti biodinamici, sono ottenuti con procedure che contrastano con le basi scientifiche consolidate. L’agricoltura biodinamica ha le sue origini nelle teorie sviluppate da Rudolf Joseph Lorenz Steiner, un teosofo esoterista austriaco nato nel 1861, quando in Biologia era ancora imperante la teoria della “generazione spontanea”, contro cui si sono impegnati, con esperimenti dai risultati inoppugnabili, due illustri scienziati italiani quali Francesco Redi e Lazzaro Spallanzani, rimasti purtroppo inascoltati, perché alcune credenze popolari, specialmente quelle convintamente abbracciate su base fideistica, sono difficili da estirpare, anche se poste di fronte alle più solide evidenze scientifiche.
Da Georgofilo e uomo di scienza, quindi, provo un grande disagio nel dover prendere atto che un disegno di legge del nostro Parlamento, nel 2021, tratti di equiparazioni assolutamente insostenibili sul piano scientifico e che sembrano riportarci indietro di secoli.
Gli animali, noi compresi, sono continuamente bersagliati da agenti
patogeni di natura batterica, virale, protozoica. Il sistema naturale di
difesa è costituito dal sistema immunitario, che reagisce con
meccanismi molto complessi ma che, sostanzialmente, consistono nel
riconoscimento del patogeno e nella produzione di strutture di difesa,
del tipo cellule specifiche e anticorpi. Se gli attacchi dei patogeni
si attuano a livello intestinale, si altera la composizione di quella
che una volta si chiamava impropriamente “microflora intestinale” e che
oggi si indica con il termine più appropriato di “microbiota”, che
comprende batteri, archea, funghi, virus e protozoi. Con il termine,
invece, di “microbioma” si intende l’insieme del patrimonio genetico
della micropopolazione, responsabile delle interazioni fra microrganismi
e con l’intestino dell’animale ospite.
Il ferro (Fe) è un elemento essenziale per la crescita di quasi tutti i
microrganismi viventi perché agisce da catalizzatore nei processi
enzimatici, nel metabolismo dell'ossigeno, nel trasferimento di
elettroni e nelle sintesi di DNA e RNA (Aguado-Santacruz et al., 2012).
A
causa della sua bassa biodisponibilità nell’ambiente, i microrganismi
hanno sviluppato strategie di assorbimento specifiche per catturare il
metallo, che dipendono dalla sua disponibilità, dalla sua natura e dal
suo grado di ossidazione. Uno dei meccanismi utilizzato, in particolare
dai batteri, per l’assorbimento del ferro è la produzione di siderofori
(dal greco pherein e sideros, che significa "trasportare il ferro").
Dal confronto di due rilievi aerofotogrammetrici effettuati a 25 anni di
distanza (1990.-2015) in una valle dell’Appennino Ligure Piemontese
emerge che in tale breve periodo ben il 37 % della SAU è stato
abbandonato. Si tratta di un dato dirompente e preoccupante sia per
l’assetto socioeconomico della valle considerata, sia per le conseguenze
che tale abbandono comporta anche sui territori a valle.
Ma ancor
più preoccupante è il fatto che oltre il 50 % del territorio italiano si
trova in condizioni simili, o peggiori. La valle in oggetto, Val
Borbera, è logisticamente ben collocata, sulla direttrice Genova Milano e
con un casello autostradale e uno snodo ferroviario in fondo valle. Si
trova, quindi, in una situazione di vantaggio rispetto a numerose aeree
interne dell’Appennino, e delle Alpi. Ciononostante, il decremento
demografico è tragico con ovvie pesanti conseguenze su agricoltura e
ambiente, paesaggi degradati, boschi abbandonati che, inoltre, perdono
buona parte della loro funzione di carbon sink.
Un territorio
abbandonato e disordinato diventa poco appetibile sia per i residenti,
sia per i proprietari di seconde case, sia per turisti, frenando così
ogni attività economica alternativa al sistema primario e penalizzando
anche il sistema primario medesimo e, quindi, accelerando lo
spopolamento. Ma anche il sistema primario sopravvissuto, che della
frequentazione turistica potrebbe avvantaggiarsi con la vendita di
prodotti locali, soffre, perde ogni convenienza economica e le valli, i
territori marginali in genere, sono destinati a deantropizzarsi con
conseguenze nefaste.
Questi lunghi e numerosi mesi di limitazioni
indotte dal Covid, hanno fatto riscoprire le aree marginali, quantomeno
quelle più vicine ai centri urbani, ove si nota una interessante
frequentazione di ciclisti e randonneurs. Prima che riprendano le
vecchie abitudini delle vacanze esotiche, sarebbe buona cosa cercare di
stabilizzare, o meglio incrementare il fenomeno attraendolo con alcune
infrastrutture, piste ciclabili, sentieri attrezzati e segnalati, ma
soprattutto con un territorio ben curato dalle attività agroforestali e
in grado di offrire prodotti locali enogastronomici e artigianali
interessanti.
Inquinamento urbano da animali e viene subito in mente la defecazione
dei cani sui marciapiedi o il guano degli storni, ma il problema è più
ampio e complesso. Il concetto d’inquinamento urbano non è nuovo anche
se in questi ultimi decenni divenuto oggetto di particolare attenzione
in conseguenza di problemi emergenti o divenuti meglio conosciuti anche
per il perfezionamento delle metodiche di analisi che hanno individuati
nuovi tipi d’inquinamento.
Leggendo i titoli dei giornali italiani nei giorni scorsi non può essere sfuggita la notizia della volontà – in alcuni casi riportata quasi come un’imposizione – della Comunità Europea di autorizzare l’aggiunta di acqua e la dealcolazione parziale e totale dei vini. Ma le cose non stanno esattamente così.
È il momento di riflettere sugli obiettivi della “transizione
ecologica”. La cronaca politica ci ha abituati ormai ad un generale
apprezzamento delle azioni politiche sviluppate in Europa dal governo
Draghi. In particolare, il “Piano nazionale di ripresa e resilienza” per
l’ambiente – PNRR recepito a Bruxelles dal “Recovery Fund”, permetterà
all’Italia di ricevere straordinarie risorse finanziare per raggiungere
gli obiettivi fissati: abbattere del 55% le emissioni di CO2 entro il
2030 ed azzerarle entro il 2050. Un primo interrogativo lo pongono i
tempi: la realizzazione del Piano prospetta un arco trentennale di
interventi, mentre le prime severe verifiche della Commissione Europea
scatteranno nel primo quinquennio, con scadenze che saranno trimestrali!
Questo
PNRR suscita molte preoccupazioni perché, come vedremo, “trascura”
l’agricoltura e l’importanza che questa dovrebbe avere nelle
trasformazioni da mettere in atto. Il nostro sistema produttivo
agroalimentare è accusato, ingiustamente, dagli ambientalisti più
accesi, nella fattispecie il WWF, di essere la principale causa di
emissioni di CO2; ma questo non è vero, come si può dimostrare;
l’agricoltura è consapevole delle responsabilità di operare entro
parametri ecosostenibili e per questo da tempo ha imboccato la via di
una graduale “transizione ecologica” (la stessa definizione delle
competenze assegnate al neo Ministro Roberto Cingolani).
Questa
strategia dovrebbe essere ora parte fondante del Piano governativo, ma
la sua attuazione passerà attraverso interventi settoriali che si
prospettano disorganici, divergenti, in gran parte da definire e quindi
ancora suscettibili di discussione e modifiche. Infatti, i fondi
disponibili (86 miliardi di euro) potranno essere investiti solo in
energie rinnovabili, per far raggiungere al paese, nel corso di un
decennio, una potenza di 70 gigawatt, derivata essenzialmente da solare
ed eolico. Con i ritmi di crescita attuali (incremento annuo di circa
0,8 gigawatt) saremo dunque ben lontani dal centrare l’obiettivo. È ben
vero che disponiamo di una rete di pannelli fotovoltaici e solari già
ampiamente disseminati dal Nord al Sud (tetti di abitazioni, centri
industriali, coperture di superfici di suolo, caseggiati rurali, stalle,
magazzini, ecc.) che hanno finora goduto di varie forme contributive. A
questo va aggiunta l’energia verde ricavata dal biometano, pure in
espansione con significativi impianti industriali operanti in varie
regioni.
Dobbiamo chiederci se l’Italia e la nostra agricoltura
sapranno cogliere appieno l’opportunità del Piano e mettere in campo gli
asset già esistenti e le sue potenzialità, salvo altrimenti esserne
penalizzati, se non esclusi. Potremo anzitutto far valere l’enorme
contributo alla lotta all’inquinamento e al cambiamento climatico dato
dalle risorse agroforestali distribuite su oltre un terzo della
superficie del paese (fissazione della CO2 ed emissione di O2).
Il Parlamento europeo, nella sessione plenaria dello scorso 29 aprile,
ha definitivamente approvato la mozione con la quale chiede alla
Commissione Europea di predisporre una direttiva specifica per la
protezione del suolo e della sua biodiversità (660 votanti: 605 sì, 55
no, 41 astenuti). Si tratta di un passo fondamentale per raggiungere
l’obiettivo di avere una legislazione unica di riferimento per il suolo.
Già nel 2006 la Commissione europea aveva proposto un quadro giuridico
per la protezione del suolo, che fu però ritirato nel 2014 dopo otto
anni di blocco da parte di una minoranza di Stati membri in seno al
Consiglio. Questa volta le cose potrebbero andare meglio. Infatti, la
Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen ha fatto della
difesa dell’ambiente uno dei suoi caratteri distintivi, e principio
guida delle scelte di politica economica.
Il documento pubblicato sul sito https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2021-0143_IT.html
sottolinea che il suolo è un ecosistema essenziale, complesso,
multifunzionale e vitale, di importanza cruciale sotto il profilo
ambientale e socioeconomico, che svolge molte funzioni chiave e fornisce
servizi vitali per l'esistenza umana e la sopravvivenza degli
ecosistemi, tra cui la conservazione della biodiversità. I suoli inoltre
influiscono sulla bellezza dei nostri paesaggi europei, al pari delle
foreste, dei litorali e delle zone montane.
Nel documento si afferma
che un quadro giuridico europeo di protezione del suolo è necessario in
quanto le misure di protezione sul suolo attualmente in vigore sono
frammentate tra molti strumenti strategici privi di coordinamento e
spesso non vincolanti; le misure nazionali esistenti si sono rivelate di
per sé insufficienti, tanto che si assiste ad una diffusione
progressiva di varie forme di degradazione del suolo. Le stesse
politiche settoriali vigenti, ad esempio la politica agricola comune
(PAC), non contribuiscono in modo efficace alla protezione del suolo;
infatti, sebbene la maggior parte delle terre coltivate sia compresa nel
regime previsto dalla PAC, in media meno di un quarto di esse applica
effettive misure per la protezione del suolo dall'erosione. In
considerazione dell’interesse pubblico nell’incoraggiare chi utilizza i
terreni a gestire il suolo in modo sostenibile per le generazioni
future, si consiglia di prevedere ulteriori incentivi finanziari e
misure di sostegno a favore dei proprietari di terreni per proteggere il
suolo.
Excursus storico sulle false etimologie che associano il maiale alla sporcizia
L’ozono è la forma triatomica dell’ossigeno e viene prodotto
artificialmente tramite appositi generatori. È considerato uno dei più
antichi disinfettanti conosciuti. Si tratta di un gas con la
caratteristica di essere un potente ossidante e che può essere
utilizzato nella sua forma gassosa pura oppure disciolto nell’acqua. In
forma di gas, l’ozono è facilmente utilizzabile nel contesto della lotta
alla pandemia dove la ricerca di soluzioni anti-virali per gli ambienti
è fortemente consigliata. Si rendono però necessarie alcune regole
fondamentali per garantire la sicurezza degli utenti del servizio e una
piena efficacia del trattamento.
È triste parlare di “moda” in riferimento ad alimenti nobili quali il
latte dei ruminanti ed i prodotti lavorati che ne derivano, frutto di
culture millenarie, radicate nelle tradizioni un po’ di tutti i popoli
della terra. Ma, tant’è, purtroppo.
Nei Paesi più ricchi stiamo
assistendo ad un continuo declino economico dell’industria
lattiero-casearia, tanto che molti produttori, anche grandi, stanno
rischiando la bancarotta. Negli Stati Uniti, nel corso del 2020,
qualcosa come 67.000 aziende zootecniche a conduzione familiare hanno
chiuso l’attività. Tutto ciò perché nell’opinione pubblica ha fatto e
sta facendo sempre più breccia la convinzione che “vegetale” è bello,
mentre tutto ciò che ha a che fare con gli allevamenti animali è
colpevole di tutte le nefandezze del mondo, a cominciare dal
riscaldamento globale, per finire con le pandemie.
Sugli scaffali dei
supermercati possiamo ormai trovare molti prodotti etichettati con la
dicitura “latte”, di soia, di mandorle, di anacardi, di avena, di
nocciole, insieme ad altri prodotti lavorati come yogurt, formaggi,
creme, burri vegani. Fra gli altri, da segnalare, lo yogurt di soia
fermentata al gusto di limone “Sojade So Soja” in Belgio, il cappuccino
con latte di mandorle da consumare con ghiaccio (!) in Australia, la
bibita “Alpro Barista Oat Drink” a base di latte d’avena in Bulgaria, il
gelato di ceci “Sweetpea” negli Stati Uniti, il burro vegano garantito
“biologico” in Canada, il latte di avena della ditta Yeo dsi Singapore,
ed altre amenità.
Sul finire dell’anno scorso, il Parlamento Europeo
ha votato l’Emendamento 171, meglio conosciuto come “Dairy Ban”, che
vieta l’uso di etichette ingannevoli di prodotti alternativi che imitano
le etichette di latte e derivati da latte di ruminanti.
Nel 4° numero di aprile della rivista “L’Enologo”, lo stimato e caro
amico Cesare Intrieri ha esposto con squisita e puntuale precisione
quasi tutti i temi che riguardano la straordinaria opportunità che sta
vivendo la viticoltura italiana. Nell’ultima decina di anni si è visto
un crescendo di registrazioni di varietà resistenti sia straniere sia
realizzate in Italia. L’ultimo anno altre 10 varietà si sono aggiunte,
tra queste le prime di San Michele all’Adige, con incroci che non sono
figli di vitigni internazionali bensì autoctoni, tipici della regione
Trentina. Tutto ciò rappresenta la punta di un iceberg; altre iniziative
importanti stanno procedendo con un crescente interesse del mondo
produttivo e l'ottenimento di questa numerosa ed interessante quantità
di materiale innovativo, oltre che resistente, non potrà che far bene
alla viticoltura nazionale, aprendo ad opportunità fino ad oggi
impensabili. Innanzi tutto, è pian piano scemato l’ostracismo
parzialmente giustificato dai fallimenti del secolo scorso. Molti
esperti del settore, a partire dall’autorevole amico e collega che ha
stimolato questo mio scritto, hanno oramai accolto questa attività come
una grande opportunità. Mi permetto però di andare un pochino oltre,
approfittando proprio di questo avvicinamento tra diverse opinioni
oramai separate solo da dei distinguo veramente sottili, tuttavia a mio
parere determinanti per il successo o il fallimento di queste nuove
varietà. La critica che permane è soprattutto dovuta alla presenza di
DNA di specie selvatiche donatrici delle resistenze, e, soprattutto,
quanto ancora può pesare sulla qualità del prodotto. Qui però viene in
aiuto la scienza, e la tecnologia di oggi, che con la metabolomica può
identificare un rilevante numero di metaboliti determinanti la qualità
ed i profili dei nuovi vitigni resistenti. L’opportunità offerta dai
vitigni resistenti “moderni” è fortemente legata a queste nuove
competenze che molto possono aiutare nel definire la qualità, oltre che
se buona o cattiva, anche quanto simile e quanto divergente dai due
genitori di partenza.
Questa breve premessa per arrivare a chiedersi
quanto espresso nel titolo, che vuole andare oltre “all’ancor timido”
sostegno che traspare nelle parole del collega. Siamo tutti d’accordo
che nuovi vitigni resistenti costituiscano una valida alternativa, anzi
forse l’unica alternativa in certi ambienti non adatti al biologico, e
considerarli una opportunità è un passo avanti importante. Ma a mio
parere il mondo scientifico ha delle responsabilità maggiori e
soprattutto decisive in questo contesto. Due sono senz’altro i nostri
doveri di scienziati; uno è di tipo enologico, ovvero affinare le
competenze di vinificazione di questi prodotti, mentre il secondo è più
“filosofico” in un certo senso: siccome le competenze scientifiche
possono fare la differenza nel successo o nel fallimento di queste
varietà resistenti di nuova generazione, non possiamo avere un ruolo
asettico e equidistante, bensì esprimere in modo convincente e
responsabile che questa è la strada.
L’agricoltura “moderna” ha rivoluzionato non solo il modo di fare, ma
anche il pensiero quotidiano degli operatori agricoli e dei consumatori.
La gestione moderna degli agroecosistemi deve partire dalla conoscenza,
la quale non può essere sempre “delegata” ad altri, ma deve diventare
patrimonio fondamentale di agricoltori, tecnici e consumatori. Le
discipline fitopatologiche e della nutrizione vegetale dovrebbero
permettere, se applicate con corretti criteri scientifici, di migliorare
la salute delle piante coltivate senza aggravamenti delle stesse
problematiche da risolvere.
In ogni cultura alimentare vi sono cibi piccanti per i quali esistono
dei limiti, diversi per ogni persona e a loro volta influenzati dalle
abitudini alimentari, e il piacere che provocano giustifica la loro
presenza e persistenza e per questo i cibi piccanti sono importanti cibi culturali.
Il controllo dei limiti dei cibi piccanti, come anche per quelli amari,
in ogni cultura è mantenuto e regolato da tradizioni, spesso trasferite
nelle ricette delle diverse preparazioni piccanti, loro associazioni
con altri cibi e rituali d’uso, nei quali sono regolati dolore e
piacere, paura felicità e allegria.
Il 22 Aprile 2021, in occasione della Giornata Mondiale della Terra, si è
svolta una giornata di studio on line finalizzata alla raccolta di idee
e progetti per la realizzazione di “Un patto per l’Arno”, il Contratto
di Fiume che abbraccia l’intera asta fluviale del grande corso d’acqua
toscano, organizzata da Autorità di Bacino dell’Appennino
Settentrionale, ANBI e ANCI Toscana e dai Consorzi di Bonifica 2 Alto
Valdarno, 3 Medio Valdarno e 4 Basso Valdarno.
La giornata che è
stata preceduta, fra l’altro, da “Tavoli di lavoro” in cui si sono
affrontate tutte le tematiche inerenti il fiume quali: protezione
civile, manutenzione e riqualificazione partecipata dei territori
fluviali, ambiente, volontariato, ricerca, processi di governance per la
riduzione dei rischi ambientali, energie rinnovabili, acqua e
agricoltura, turismo, navigabilità, pesca, canottaggio e ciclovie,
recupero delle plastiche e tutela degli ecosistemi fluviali.
Fra
queste tematiche si è dato quindi, fra l’altro, ampio spazio al ruolo
dell’agricoltura che deve essere sempre più incisivo. È stato
sottolineato che le imprese agricole possono dare un contributo
essenziale alle politiche di tutela dell’acqua e del suo uso ed è stato
auspicato un rafforzamento della collaborazione con i Consorzi di
Bonifica.
Queste tematiche sono sempre state tenute nella massima considerazione
dall’Accademia dei Georgofili: si ricorda, infatti, che proprio nel
Dicembre scorso si è svolta una giornata di studio, in collaborazione
con ANBI, su “L’acqua da risorsa a calamità” in cui si è ampiamente
dibattuto questi temi e i cui atti sono pubblicati e consultabili sul
sito dell’Accademia (www.georgofili.it).
È
ormai noto che, con i cambiamenti climatici in atto, fra l’altro, è
cambiata molto la variabilità delle precipitazioni tanto che se da un
lato tendono a intensificarsi e a distribuirsi su un numero minore di
giorni, dall’altro sono in aumento le serie siccitose con risultati che
mostrano impatti diversi da zona a zona.
In conseguenza di ciò l’erosione del suolo, con la conseguente perdita
di qualità fisiche ed idrologiche, è destinata ad esacerbare il rischio
idrogeologico, con conseguenze per ora non adeguatamente considerate
dalla legislazione italiana ed europea.
1.- L’art.13 del TFUE (Trattato sul funzionamento dell'Unione europea): animali esseri senzienti
Il tema del benessere animale
negli ultimi anni ha trovato spazio crescente nelle riflessioni su temi
e questioni, che in varia misura si collocano all’interno del diritto
agrario e del diritto alimentare.
La disposizione legislativa alla
quale si fa comunemente riferimento è quella introdotta dal Trattato di
Lisbona e contenuta nell’art. 13 del TFUE, nell’ambito delle
“Disposizioni di Applicazione Generale”, ove solennemente si afferma: “l’Unione
e gli Stati membri tengono pienamente conto delle esigenze in materia
di benessere degli animali in quanto esseri senzienti”.
Va detto
che disposizioni legate al rispetto degli animali, intese ad evitare o
comunque ridurre sofferenze, erano presenti nella legislazione nazionale
ed europea ben prima del Trattato di Lisbona.
Quanto alla
legislazione nazionale, numerosi provvedimenti sin dai primi decenni del
‘900 hanno introdotto regole in tema di caccia, vivisezione,
macellazione, che compongono un risalente disegno legislativo, inteso ad
“evitare all’animale, anche quando questi debba essere sacrificato per
un ragionevole motivo, inutili crudeltà e ingiustificate sofferenze” (come ha sottolineato di recente la Corte di Cassazione).
Quanto
alla legislazione europea, già dagli anni ’70 alcune direttive hanno
vietato la macellazione senza previo stordimento, ed hanno introdotto
misure di protezione degli uccelli selvatici, degli animali da
allevamento e di quelli utilizzati a fini scientifici e sperimentali.
Un elemento comune caratterizza questo complesso di risalenti disposizioni, nazionali ed europee: il benessere animale non era individuato come fine in sé, oggetto di autonoma considerazione, ma come oggetto regolato in ragione di altre finalità (dalla realizzazione del mercato interno, alla tutela della concorrenza e dell’ambiente, alla PAC).
Lo stesso Regolamento (CE) n. 178/2002, conosciuto come General Food Law, menziona sia il benessere dei cittadini che il benessere animale,
ma si occupa del secondo soltanto in funzione della tutela della vita e
salute umana, con una formula che assegna alla salute e al benessere
animale rilievo solo eventuale. Ne risulta una prospettiva incentrata
sui soli interessi umani, che appare ancor più singolare ove si
consideri che il Reg. (CE) n. 178/2002 costituisce la risposta organica e
di sistema ad una crisi, quella della BSE del 1996-97, che ha
certamente cagionato perdite di vite umane, ma che ancor prima ha
colpito in modo terribile la salute ed il benessere dei bovini.
Il
Trattato di Lisbona, con l’introduzione del richiamato art. 13 del TFUE,
ha modificato questo risalente paradigma, segnando con ciò una prima
tappa di un percorso, complesso, controverso, e non concluso, che sta
conoscendo significativi elementi di novità con il contributo di una
pluralità di law makers, giudici e legislatori.
Quando il pane era di produzione familiare, quello di ogni casa aveva il
suo aroma e sapore particolare che non dipendeva tanto dalla farina,
quanto dal lievito usato, per cui giustamente era denominato lievito
madre e di madri ve ne erano tante quante erano le case, in ognuna delle
quali questo lievito si tramandava di panificazione in panificazione,
di anno in anno e talvolta anche di generazione in generazione.
Le linee guida della European Animal Feed Organisation (FEFAC) del 2015,
relative all’acquisto e importazione di soia sostenibile stanno per
essere riviste ed aggiornate, a dimostrazione dell’importanza attribuita
alla deforestazione illegale, soprattutto in Amazzonia, ritenuta una
causa importante del fenomeno del riscaldamento globale.
Nella
precedente versione delle linee guida (Soy Sourcing Guidelines, SSG) era
stata messa al bando solo la soia prodotta su terreni deforestati
illegalmente. Con le nuove linee guida sembra di capire che non sarà
consentito acquistare soia prodotta su qualsiasi terreno deforestato,
anche legalmente, o su altri ex ecosistemi naturali come le savane o le
paludi, cioè su terreni “convertiti”. Si potrà trattare solo la
cosiddetta “conversion-free soy”.
Il parlamento europeo sta lavorando
alla preparazione di una legge che regolamenti la deforestazione, in
modo tale da adeguarsi alle regole di acquisto e importazione di soia
conversion-free. Uno studio del 2013 ha indicato che l’Europa importa
circa il 10% di prodotti legati in qualche modo al fenomeno della
deforestazione. Motivo di perplessità e di preoccupazione è il fatto che
si confida sulla “diligenza” e l’onestà delle compagnie che trattano la
soia, le quali dovrebbero identificare i prodotti non permessi e
prevenirne la circolazione sui mercati europei, pena sanzioni, anche
pesanti.
Tuttavia, molti sono scettici riguardo all’auspicio che
tutti coloro che operano nel mercato della soia rispettino le regole. Il
segnale dato dalla FEFAC è forte, ma l’impatto sul mercato a livello
internazionale è ancora molto modesto. Ricordiamoci che la Cina è e
rimarrà il più forte importatore di soia del mondo, mentre l’Europa pesa
solo per circa il 10%.
Più di cento anni fa Patrick Geddes, biologo, sociologo e urbanista
scozzese, affermò che “La città non è un luogo nello spazio ma un dramma
del tempo” (Cities in evolution, 1915). Ai nostri giorni il suo
ammonimento sembra purtroppo caduto nel vuoto tanto che dalle megalopoli
siamo passati addirittura alla costruzione di mega regioni o super
città, e ora molti si chiedono se, dopo la pandemia da coronavirus, la
qualità di vita nelle città non subirà un ulteriore peggioramento.
Alcuni
però, in controtendenza, sostengono che gli agglomerati urbani
offriranno migliori condizioni, una volta che tutto questo
stravolgimento delle nostre esistenze sarà finito. Per esempio alcuni
Stati, come l’Irlanda, stanno cercando di incentivare lo smart working
anche per rivitalizzare i piccoli centri distanti dalle grandi città
allo scopo di decongestionarle e limitare gli spostamenti che,
ricordiamo, sono la maggior fonte (almeno nei centri abitati) di
emissioni di CO2. E per una volta tutti sono finalmente concordi sul
fatto che oggi abbiamo bisogno di vere città “verdi”. Era ora. Ma cosa è
una città “verde”?
La domanda, apparentemente banale, non ha in
realtà una risposta scontata: Edo Ronchi, su questa testata, definì nel
2018 la green city come “un modello di città - sperimentato e affermato a
livello europeo e internazionale - che punta sulla elevata qualità
ambientale in tutti i suoi principali aspetti, decisivi anche per la
qualità dell’aria, non come obiettivi isolati e circoscritti, ma come
parti di un ampio disegno di rigenerazione e riqualificazione urbana,
con attenzione anche alle implicazioni economiche, occupazionali e
sociali”.
Una definizione sicuramente corretta, ma io ritengo che
alcuni termini debbano essere meglio definiti: la prima considerazione
da fare è che ormai il termine “città” generalmente si riferisce a
un’area metropolitana molto ampia. Ad esempio, “Milano” rappresenta la
grande area metropolitana che circonda la città, non solo quella
compresa nei confini comunali. Lo stesso vale per altri grandi
agglomerati nelle diverse parti del mondo, come Chicago, Londra, Tokyo,
San Paolo, ecc. Un’area metropolitana è infatti costituita da una zona
centrale contenente un consistente nucleo di popolazione e dalle
comunità adiacenti che hanno un elevato grado di integrazione economica e
sociale con quel nucleo.
Concentrarsi dunque sulle “aree
metropolitane” ha oggi molto più senso perché la maggioranza delle
persone e dei posti di lavoro si trova lì (oltre il 50% a livello
mondiale, 70% in Europa), fuori dal “centro”. Definire e costruire una
metropoli “verde” diventa allora un compito molto impegnativo.
Oltre
ad avere un’aria più pulita, le città verdi devono stimolare anche
“comportamenti verdi” come, ad esempio, l’uso del trasporto pubblico, e
il loro impatto ambientale sarà relativamente basso, fino, in alcuni
casi, ad arrivare vicino allo zero.
Ma può questa definizione di
città verde tradursi in indicatori oggettivi della qualità dell’ambiente
urbano? A questo proposito esistono diversi metodi di valutazione.