A Firenze, in via del Proconsolo, una “pietra d’inciampo” in ottone da alcuni giorni ricorda una delle vittime della Shoah, la scienziata ebrea Enrica Calabresi. Due guerre hanno distrutto la sua vita. La prima, dove perse il fidanzato, Giovanni De Gasperi, speleologo, botanico ed esploratore che come lei frequentava la Specola e che morì nel 1916 (e lei gli rimase fedele a vita); la dittatura fascista, le leggi razziali e la seconda Guerra Mondiale saranno, poi, fonte di innumerevoli eventi dolorosi, sino all’esito fatale. Laureata a Firenze nel 1914 in Scienze naturali, Enrica ricoprì a lungo l’incarico di assistente nell’ateneo fiorentino. Fortemente osteggiata dal contesto politico e sociale, alla fine del 1932 fu costretta ad abbandonare la mansione (a seguito di una pesante operazione di mobbing, anche se formalmente le dimissioni erano dovute a “…motivi di salute”), per lasciare il posto a un discusso giovane collega “politicamente accreditato”. Dopo alcuni anni di insegnamento di scienze naturali in licei fiorentini (posizione ottenuta solo al prezzo dell’iscrizione al partito fascista), fu nominata professore incaricato di Entomologia agraria e direttrice del corrispondente neo-costituito istituto alla Facoltà di Agraria dell’Università di Pisa, un’impresa eccezionale per una donna (per la cronaca si tratta della prima docente di sesso femminile nella storia di Agraria a Pisa). Rimase però residente a Firenze, dove, dal 1937, insegnava anche al Regio Liceo-ginnasio Galilei: tra i suoi allievi, la futura scienziata Margherita Hack, che deve proprio alla Calabresi la sua vocazione antifascista. Vittima delle leggi razziali, Enrica viene dapprima sospesa e poi ‘dispensata’ dal servizio. Decade anche dalla libera docenza e da ogni forma di didattica, «in quanto appartenente alla razza ebraica». Rientra a Firenze e insegna nella scuola israelitica, insieme ad altri docenti espulsi dalle scuole e dalle università del Regno. Dimenticata dagli ambienti accademici, la sua storia si conclude tragicamente nel gennaio 1944: catturata dai nazifascisti nella sua abitazione, appunto in via del Proconsolo, e tradotta nel carcere di Santa Verdiana, per sottrarsi alla deportazione ad Auschwitz si suicida all’età di 53 anni, ingerendo una capsula del micidiale rodenticida fosfuro di zinco, che teneva sempre con sé. Avrebbe potuto lasciare l’Italia, per rifugiarsi in Svizzera (come i suoi familiari), ma non lo fece per non lasciare i suoi studenti; avrebbe potuto anche cercare di nascondersi, ma affermò sempre di non aver voluto mettere in pericolo la vita di qualcuno che l’avrebbe aiutata. Enrica Calabresi non fu deportata, e quindi non compare in nessuno degli elenchi delle vittime dell’Olocausto, o in un qualsiasi libro della memoria. Vittima di una triplice discriminazione subita, di genere (in quanto donna), politica (in quanto antifascista) e razziale (in quanto appartenente alla comunità israelitica e di religione ebraica), il suo nome è rimasto ignoto per decenni, ma, grazie all’opera di alcune giovani scienziate fiorentine, da qualche anno sono stati accesi i riflettori su questa figura. Così, la storia personale e scientifica di Enrica Calabresi sono state raccontate nel libro “Un nome” di Paolo Ciampi (2006), nello spettacolo teatrale “Un nome nel vento” e nel film-documentario di Ornella Grassi “Una donna. Poco più di un nome” (2019), così come in numerose iniziative a carattere scientifico. La sua biografia è descritta in dettaglio in un saggio della Prof.ssa Manuela Giovannetti, reperibile nel sito web del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali dell’Università di Pisa (https://www.agr.unipi.it/enrica-calabresi-un-nome-di-manuela-giovannetti/). Il Comune di Roma, quello di Ferrara (sua città natale) e quello di Pisa le hanno dedicato una via.