Nelle società industrializzate non manca la voglia di un ritorno a una natura spesso soltanto idealizzata e per questo vi sono proprietari che per i loro animali, rifiutando gli alimenti industriali, si rivolgono a un’alimentazione che ritengono naturale, come la dieta crudista denominata BARF (Biological Appropriate Raw Food o Bone And Raw Food). Su questo modo di nutrire cani e gatti non mancano accurate indagini scientifiche sui vantaggi, svantaggi e rischi che riguardano anche i proprietari e l’ambiente.
Originario dei territori tra il Perù ed il Messico, il pomodoro, portato in Spagna dal Messico nei primi decenni del XVI° secolo dal conquistatore Hernan Cortez, si diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo non come alimento, ma solo a scopo ornamentale, perché ritenuto un frutto tossico.
Ancora nel 1544, nel suo trattato “Herbarius”, Pietro Andrea Matthioli, lo inseriva ancora nell’elenco delle piante velenose, anche se era a conoscenza che in alcune regioni aveva cominciato ad essere utilizzato in cucina.
Nel ‘500 e nel ‘600 il “pomus aureus”, cui venivano attribuiti misteriosi poteri eccitanti ed afrodisiaci, veniva impiegato per la preparazione di pozioni magiche e filtri d’amore.
Dall'analisi genetica effettuata su 360 specie e varietà di pomodoro, è risultato che l'impronta del processo di selezione, operato dall'uomo nell’arco di circa 5 secoli è impressa nel 15,2 % del suo genoma ed ha portato a frutti molto più grandi, carnosi e sodi, ma meno resistenti a stress e malattie.
Questa solanacea facile da coltivare e dalla grande produttività è classificata giustamente tra gli alimenti nutraceutici, poiché il gran numero di studi condotti, a partire dalla seconda metà del secolo scorso e fino ai giorni nostri, ne hanno dimostrato le indubbie e numerose proprietà nutritive e salutari. Negli ultimi 15 anni l'attenzione di molti centri di ricerca si è rivolta, in particolare, ad una serie di sperimentazioni finalizzate ad aumentare il già elevato contenuto di antiossidanti fino ad ottenere frutti OGM con un contenuto del 500 % superiore a quello del pomodoro che compare comunemente sulle nostre tavole.
Il pomodoro fresco è costituito per circa il 94 % di acqua, ha un basso contenuto di macronutrienti ed è una miniera di micronutrienti. E'particolarmente ricco di vitamine e di provitamina A, di numerosi sali minerali (alcuni dei quali come lo Zn, il Cu, il Se, B, lo J, lo S) sono ben raramente reperibili in altri alimenti, di acidi organici, ma particolarmente elevata è la presenza di antiossidanti: ben 40 polifenoli e tanti carotenoidi fra i quali spicca per quantità e potere benefico il licopene.
Il licopene è presente soprattutto nella parte più esterna del mesocarpo del pomodoro e nella buccia con un valore nel prodotto fresco e coltivato all'aperto di d mg 3/Kg nei pomodori gialli a mg 50/kg nei pomodori rossi. Per le sue proprietà di ridurre il rischio di insorgenza di numerose patologie, è l'antiossidante del pomodoro su cui sono massimamente puntati gli interessi della ricerca in campo medico.
A prescindere da ciò che ci dicono i media, i quali alternano periodi in cui ci mostrano o scrivono di Greta Thunberg a tutte le ore e in tutte le salse, salvo poi ricadere nell’oblio per spostare la nostra attenzione a problemi spesso ingigantiti da interessi di parte, esistono prove inequivocabili che il clima della Terra sta cambiando a un ritmo senza precedenti e non si limita al riscaldamento del globo.
La maggioranza degli scienziati informati (nel senso che fanno ricerca su questo specifico argomento e quindi ne possono parlare con cognizione di causa), concordano sul fatto che questo veloce cambiamento è il risultato dell’aumento dei gas serra nella nostra atmosfera direttamente causato da attività umane. Nessuno nega che i cambiamenti ci siano sempre stati, ma adesso il tutto sta avvenendo con scala temporale brevissima e con effetti che potrebbero essere imprevedibili per la loro entità. Gli effetti del cambiamento climatico sono infatti geograficamente iniqui, vari e imprevedibili con conseguenze potenzialmente devastanti e non pianificate sia per la diversità vegetale globale sia, in definitiva, per la sopravvivenza stessa dell'uomo.
Sappiamo anche che le piante sono fondamentali in questo scenario in quanto importanti regolatori del clima globale e sono la chiave di volta del ciclo del carbonio. L'assorbimento di anidride carbonica (CO2), uno dei principali gas climalteranti, durante la fotosintesi, il suo sequestro temporaneo nei tessuti dei vegetali e il suo stoccaggio permanente nelle parti permanenti sono le fasi attraverso il quale il carbonio viene rimosso dall’atmosfera e messo a disposizione di animali e umani per crescita e sviluppo. Gli alberi sono particolarmente importanti a questo proposito, fungendo da grandi pozzi di assorbimento, in quanto assimilano CO2 e la immagazzinano come biomassa legnosa, ma anche favorendo lo stoccaggio del carbonio nei suoli che può essere addirittura, e spesso lo è, superiore a quello stoccato nei vegetali.
La microalga Scenedesmus almeriensis ha attirato un crescente interesse come fonte naturale di luteina ed in particolare al momento rappresenta l'unica microalga maggiormente studiata per l'estrazione di questo pigmento [1].
La luteina (β,ε-carotene-3,3'-diolo; E161b), insieme ad altri carotenoidi, agisce nelle cellule delle microalghe come un raccoglitore di energia luminosa migliorando l’efficienza della fotosintesi e prevenendone il foto-danneggiamento. La luteina mostra anche benefici effetti sulla salute dell’uomo agendo come antiossidante, come agente antinfiammatorio e, accumulandosi nella macula della retina dell'occhio, è in grado di prevenire la malattia degenerativa della macula.
La gestione dell’oliveto, sempre più antropizzata, si è mossa lungo due modelli che semplifichiamo così: quello di basso livello, supportato dai soli input naturali di azoto (per esempio la pioggia) e quello sempre più intensivo che ha avuto ed ha nell’attualità, dei limiti di sostenibilità.
In una recente ricerca che si riferisce al territorio della provincia di Lecce [1] , si sono stimati in varie epoche gli OUTPUT (produzione di olive, legna, ecc.) e gli INPUT energetici applicati all’oliveto (lavoro umano e animale, concimi, fertilizzanti, macchinari, ecc.). Il rapporto tra i due valori, tradotti previamente in unità energetica, ci fornisce un quadro relativo all’evoluzione dell’efficienza energetica nella gestione dell’oliveto.
Vincenzo Tanara (Bologna ? – Bologna dopo il 1644), di famiglia nobile con il titolo di marchese, è dapprima militare al servizio di vari Signori poi dal 1624 magistrato a Bologna è famoso per aver scritto L'economia del cittadino in villa che, dopo l'edizione veneziana del 1644, conosce altre nove edizioni. Conosciuto per la sua passione per la caccia, tipico svago rustico anche dell'ambiente cittadino, Vincenzo Tanara nella sua opera descrive un'agricoltura non destinata alla sopravvivenza dei contadini, ma l'organizzazione della vita in villa, descritta come una unità produttiva detenuta da una famiglia di rango nobiliare o alto-borghese e orientata alle produzioni che abbiano mercato. In quest’opera vi è una chiara testimonianza di quanto ai suoi tempi poco siano considerati i funghi, diversamente da quanto oggi avviene nella nostra cultura alimentare e gastronomi-ca, dimostrando di come possano variare i gusti della tavola e al tempo stesso rendere cauti nel trasferire i nostri giudizi a tempi, luoghi e soprattutto culture di-verse. Infatti se nel XVI secolo prevaleva una gastronomia micofoba, oggi siamo in piena gastronomia micofila. Le culture alimentari umane possono essere infatti distinte culture micofile e culture micofobe e, se le prime amano i funghi, le se-conde li disprezzano e li escludono dal loro orizzonte culinario.
Vincenzo Tanara documenta la micofobia del XVI secolo in modo preciso in alcuni passi del suo trattato quando dice che non si può far le nozze con i funghi, che sono ancora li fonghi con qualche presagio, perché si dice anno fongato anno tribolato, che il nome di fungo significa morte e soprattutto che i funghi sono come le meretrici, ma a questo proposito è utile riporta il testo in una sua trascrizione attualizzata. Ad ogni modo l’uomo si espone a un pericolo tirato dalla gola da questo gusto. Ognuno sa che il fungo deriva da funus cioè dal dare morte e il boleto da bonum laetum quasi che portando una morte gustosa si possa chiamare buona, tuttavia basta il vederne, che non si trova chi, ancorché quasi naufragato con quelli, non si sottoponga a un nuovo pericolo. Oltre ciò mi pare che i funghi siano come le meretrici, da tutti biasimati e da tutti seguiti. Sempre il Tanara aggiunge che dei funghi si può dire che non sono né carne né pesce e pure si mangiano nei giorni destinati al pesce, alcuni paiono carne e i tartuffoli hanno sapore di carne e che i funghi mediante la cottura trasmettono un tal sugo gustoso che o da essi stessi o assieme con altre vivande li rendono tanto desiderabili, ancorché da tutti siano conosciuti di mal nutrimento o mortali.
Non si può far le nozze con i funghi è un proverbio dell’Italia settentrionale, mentre in quella meridionale i funghi sono sostituiti dai fichi secchi, che permane anche in seguito come attestato da Lorenzo Magalotti (1637 – 1712) il quale nelle Lettere scientifiche ed erudite del conte Lorenzo Magalotti cita che ... Voi sapete che a noi altri riesce alle volte il far propriamente le nozze co’ funghi. Il proverbio si trova anche nel Nouveau dictionnaire francois-italien composé sur les diction-naires de l'Académie de France et de la Crusca, Enrichi de tous les termes propres des sciences et des arts ... Par M. l'abbé François d'Alberti de Villeneuve, dans cette première édition italienne nouvellement corrigé, amélioré, & augmenté ... – Remondini, Venezia, 1777. E una sua citazione arriva fin quasi a noi con Riccardo Bacchelli (1891 – 1985) nel suo Il Mulino sul Po.
Gli alimenti di origine vegetale, in particolare i cereali, vengono normalmente aggrediti da colonie di muffe, sia in campo che durante lo stoccaggio ed il trasporto.
Perché ciò avvenga si devono verificare condizioni di temperatura dell’aria superiori a 20°C e di umidità dell’alimento superiori al 15%. Il danno che ne deriva è importante, sia perché l’ammuffimento altera negativamente le caratteristiche organolettiche dell’alimento ma, soprattutto, perché le muffe producono metaboliti tossici, le micotossine. Con l’aumento della temperatura media del pianeta, il fenomeno si comincia a verificare anche in zone che non lo conoscevano.
I microfunghi che più comunemente attaccano le derrate alimentari appartengono ai generi Aspergillus, Penicillium e Fusarium.
Il consumo di alimenti contaminati comporta l’insorgenza di micotossicosi, anche molto gravi, negli animali che li consumano, uomo compreso. I ruminanti sono gli animali meno suscettibili, in quanto il loro abbondante ed efficiente microbiota ruminale è in grado di neutralizzare le micotossine, con la sola eccezione della aflatossina B1 che viene convertita in aflatossina M1, non meno tossica. Purtroppo, la aflatossina M1 passa facilmente nel latte, con le conseguenze che è facile immaginare.
Sappiamo che nel nostro paese i controlli sugli alimenti sono puntuali ed affidabili, tanto da tranquillizzarci. Ciò non toglie che qualcosa sfugga, coscientemente o incoscientemente, e gli animali da reddito, alimentati con alimenti contaminati, anche nel caso che non trasmettano tossine all’uomo, nella migliore delle ipotesi vedono compromesse le loro produzioni.
Se analizziamo gli studi che mettono in relazione la presenza di verde con il benessere mentale, emerge chiaro come le evidenze positive stiano aumentando parallelamente all’affinamento degli studi e al conseguente miglioramento delle conoscenze. Un lavoro pubblicato recentemente su PNAS, la prestigiosa rivista della National Academy of Sciences americana (Engemann et al., 2019), nel quale sono stati analizzati i dati sanitari di oltre 940.000 bambini nati tra il 1985 e il 2003 relativi alle connessioni fra la salute mentale e lo spazio verde che circondava le loro case, ha evidenziato che il rischio relativo di sviluppare un disturbo psichiatrico nell'adolescenza o nell'età adulta era significativamente più alto - dal 15 al 55 percento – per i bambini che vivevano in aree con limitata presenza di verde.
L’elaiogastronomia si sta affacciando al mercato della ristorazione offrendo un nuovo segmento di consumo e favorendo la nascita di professionalità nuove, tanto nella brigata di cucina quanto in quella di sala.
Vivere una esperienza elaiogastronomica richiede formazione oltre che un investimento economico, da parte del ristoratore, nella creazione della carta degli oli che necessità dell’acquisto dei migliori oli nel panorama olivicolo nazionale e internazionale.
Nel 1986 nel Regno Unito si scopre la Mucca Pazza, una mortale malattia che distrugge il cervello delle mucche e che si teme possa colpire anche l’uomo. Nell’Unione Europea, dove vige la libera circolazione delle merci e quindi anche delle carni bovine, scoppia la grande paura delle encefalopatie spongiformi che terminerà soltanto l’11 settembre 2001, quando subentrerà la grande paura del terrorismo, secondo il principio del chiodo scaccia chiodo. La Mucca Pazza spaventa perché è una malattia mortale, provocata da un agente all’epoca d’origine sconosciuta, che colpisce il cervello e per la quale vi è una ridda incontrollata di previsioni anche pessimistiche, se non catastrofiche, che arriva a profetizzare la morte di oltre un milione di europei, in una grande confusione di notizie e interpretazioni di quanto via via è accertato. Degli avvenimenti ogni paese dà una sua versione, spesso sovranista e cioè privilegiando la sovranità nazionale in con-rapposizione a una comunicazione comunitaria, quale dovrebbe essere per un problema sovranazionale come quello della Mucca Pazza. Gravi sono le conseguenze sull’economia dovute non solo per le misure messe in atto per controllare la crisi, quanto per la paura che scatena crisi di fiducia nelle istituzioni e casi di psicosi, portando anche a immotivati cambiamenti dei consumi alimentari. In conseguenza della crisi della Mucca Pazza l’UE nel 2002 istituisce l’EFSA, l’agenzia sovranazionale che ha il compito di fornire pareri scientifici e informazioni sui rischi esistenti ed emergenti connessi alla catena alimentare.
Nel 2017 in diversi paesi dell’UE nelle uova di gallina, loro derivati e alimenti all’uovo (biscotti, paste ecc.) ci si accorge della presenza Fipronil, una molecola vietata per i suoi effetti negativi sulla salute umana. Con opportune indagini che durano alcuni mesi si scopre che in allevamenti di galline del Belgio e dei Paesi Bassi ha grande successo un insetticida presentato come costituito da vegetali e quindi naturale o biologico, ma nel quale è stato fraudolentemente inserito il Fipronil, insetticida destinato solo ad alcune specie di animali d’affezione. L’incidente è risolto senza danni per la salute dei consumatori, ma anche in questo caso molti sono i danni conseguenti la paura che si scatena in modo incontrollato.
Nei due episodi indicati, come in molti altri casi analoghi, oltre ai danni economici degli incidenti, risultano evidenti i danni della paura che pervade i consumatori e sempre più evidenti sono i rischi di una disinformazione, spesso di tipo sovranista, che in caso d’incidente si scatena nei diversi paesi dell’UE.
Nel quadro della grande trasformazione nei sistemi di comunicazione e d’informazione avvenuta negli ultimi due decenni, con una sempre più larga diffusione di notizie anche false, distorte o utilizzate per fini impropri, alla luce dell'esperienza acquisita in merito la Commissione Europea, con la Decisione di Esecuzione 300 (UE) del 19 febbraio 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea 21 febbraio 2019, ha istituito un piano generale per la gestione delle crisi riguardanti la sicurezza degli alimenti e dei mangimi. Con questa Decisione la Commissione Europea assume un ruolo più incisivo in termini di comunicazione e di coordinamento generale degli Stati membri per evitare le crisi.
Nel rapporto ISPRA si chiarisce che per consumo di suolo si intende il suolo consumato a seguito di una variazione di copertura: da una copertura non artificiale a ad una artificiale. Il fenomeno appare in crescita, ma con un sensibile rallentamento nella velocità di trasformazione, a causa probabilmente della attuale congiuntura economica e, aggiunge il sottoscritto, non certo a un presunto aumento di una sensibilità verso i problemi ambientali o ai numerosi allarmi lanciati.
Oltre alle situazioni eclatanti di palese deturpazione del paesaggio o di opere realizzate senza la minima valutazione di impatto o di rispetto di una pianificazione territoriale, è evidente che il progressivo consumo di suolo significa una sua impermeabilizzazione. E’ intuitivo che, in occasione di eventi piovosi eccezionali, in conseguenza dei cambiamenti climatici in atto, la massa d’acqua che trova un ambiente impermeabilizzato non ha la possibilità di drenare e quindi si gonfia formando masse idriche, arricchite dai sedimenti asportati per erosione del suolo, sempre più consistenti che nel loro moto turbolento e impetuoso causano i disastri a cui troppo spesso assistiamo.
Ma veniamo ai numeri davvero inquietanti dell’ultimo rapporto nazionale ISPRA: il consumo di suolo nel 2018 continua a crescere in Italia e le nuove coperture artificiali hanno riguardato altri 51 chilometri quadrati di territorio, ovvero, in media, circa 14 ettari al giorno. Una velocità di trasformazione in linea con quella degli ultimi anni. Infatti tra il 2016 e il 2017 le nuove coperture artificiali hanno riguardato circa 5.200 ettari di territorio, ovvero in media poco più di 14 ettari al giorno: circa 2 metri quadrati di suolo sono stati persi irreversibilmente ogni secondo. Dopo aver toccato anche gli 8 metri quadrati al secondo degli anni 2000 e il rallentamento iniziato nel periodo 2008-2013 (tra i 6 e i 7 metri quadrati al secondo), il consumo di suolo si è consolidato negli ultimi tre anni. In sintesi, dagli anni '50 ad oggi, tale consumo è aumentato del 180% e così la superficie naturale in Italia si riduce ogni anno, aumentando gli effetti negativi sul territorio, sull'ambiente e sul paesaggio.
Questi dati, a dir poco allarmati, fanno il paio, fra l’altro, con la nuova edizione dell'Atlante mondiale della desertificazione (UE) dove si afferma che oltre il 75% delle terre emerse sono già degradate. L’Italia è perfettamente in questa media e tale degradazione è dovuta essenzialmente al non corretto uso del suolo legato, non solo, alle attività agroforestali, ma anche e soprattutto alle attività extra agricole. Pochissimi studi (Italiani, ma anche Europei) stimano il danno economico causato dalla perdita di una risorsa non rinnovabile come, appunto, il suolo, soprattutto in un’ottica di lungo termine. A questo proposito si può evidenziare come sia difficile conciliare la sostenibilità economica con quella ambientale. Infatti, le nuove tecnologie, l’uso di macchinari sempre più pesanti e potenti se da un lato hanno consentito un’accelerazione dei tempi di lavoro e un vantaggio economico dall’altro, operando su territori talvolta estremamente fragili, sia in ambienti agricoli sia forestali, hanno contribuito a compattare e degradare il suolo i cui danni però saranno ben più evidenti e valutabili nel lungo termine, fermo restando che il suolo è essenzialmente una risorsa non rinnovabile; per formare 1 centimetro di suolo occorrono dai 100 ai 1000 anni. L’erosione, ad esempio, supera mediamente di 30 volte il tasso di sostenibilità (erosione tollerabile).
Che gli antichi romani conoscessero e amassero i formaggi è indubbio, ma quali erano i preferiti nel periodo di massimo splendore della loro cucina imperiale del I secolo? Per rispondere a questo quesito, un aiuto ci viene da Marco Valerio Marziale (38 o 41 - 104 d. C.) che ha scritto epigrammi nei quali cita anche sei formaggi. Le più importanti citazioni che Marziale fa di formaggi sono negli epigrammi di Xenia (I doni per gli ospiti)
La nutraceutica è da considerarsi una delle “millennials science” ed è apparsa semanticamente a Roma nel 1989 per crasi letterale e scientifica tra i termini consolidati di nutrizione e di farmaceutica. Lo sviluppo degli ultimi anni della nutraceutica rappresenta sempre di più una nuova visione che si è creata del rapporto fra il cibo e la salute.
La lettura di alcuni articoli, mi ha offerto lo spunto di scrivere questa riflessione su come l'ambiente urbano può essere modificato in modo che le città possano non solo essere sostenibili, ma anche diventare ambienti ricchi dal punto di vista ecologico a beneficio dei cittadini e al servizio della natura. Affinché questo possa accadere, dobbiamo attuare cambiamenti radicali nel modo in cui pensiamo ai bisogni vitali della nostra civiltà. Molti di questi cambiamenti possono essere messi in atto da subito e potrebbero essere notevolmente integrati e sviluppati in una società come l’attuale e alcuni di questi concetti e idee possono davvero costituire la base di una rivoluzione “anarchica”, intendendo con questo aggettivo una rivoluzione che rifugga da regole imposte e da dogmi pre-concettuali.
Perché abbiamo bisogno di una rivoluzione? È indubbio che il “fenomeno Greta Thunberg” abbia avuto il merito di scuotere le coscienze di molti e di farci almeno riflettere sulla sostenibilità delle nostre azioni. E anche di farci capire che il modello di sviluppo urbano degli anni ’60-’70 ha prodotto delle “giungle di cemento e asfalto”, cioè città o aree urbane certamente più moderne, piene di grandi edifici, ma che sono soprattutto diventate dei luoghi duramente competitivi, inospitali o pericolosi. In pratica dei deserti ecologici e sociali che traggono la vita dai loro dintorni.
Sono, nel loro stato attuale, assolutamente inefficienti e dipendenti da ciò che le circonda. Sono abominazioni che fungono da macchine giganti che centralizzano la ricchezza e le risorse verso pochi soggetti con un meccanismo perverso che limita le possibilità di migliorare la situazione sociale, economica e il benessere psico-fisico alla maggioranza delle persone
Tuttavia, la civiltà moderna, con le città al suo apice, non è qualcosa che la maggior parte delle persone sarebbe disposta a eliminare, quindi spetta a noi ripensare il modo in cui esse dovranno essere concepite, realizzate e gestite nel futuro in modo da garantire un giusto accesso alle risorse, un’equità sociale e un diffuso benessere.
Ritorna l’attenzione sui dazi, ma questa volta il motivo non è il grande scontro fra US e Cina, ma la produzione agricola e alimentare italiana. Due casi molto diversi. In questi giorni e, presumibilmente, anche nelle prossime settimane, grande spazio sulla stampa e i mezzi di informazione per la decisione della Wto di consentire agli US l’applicazione di dazi per un ammontare di 7,5 miliardi di $ a prodotti provenienti dall’Ue e importati negli US e che colpirebbero anche l’agroalimentare italiano. La vicenda nasce da un contenzioso aperto nel 2004 dagli US per aiuti pubblici ritenuti indebitamente concessi dall’Ue ad Airbus che avrebbero danneggiato Boeing. La decisione finale della Wto è favorevole agli US che hanno comunicato la lista dei prodotti da sottoporre alla ritorsione e le tariffe applicate. Un’analoga procedura era stata aperta dall’Ue per aiuti concessi a Boeing e ritenuti pregiudizievoli per Airbus. La sentenza è attesa nei prossimi mesi. Ciò rende probabile un ritardo nell’applicazione dei dazi americani e la possibile apertura di una trattativa fra le parti nel caso di una sentenza in senso inverso a quella attuale.
Altro caso è invece l’applicazione di dazi da parte degli US con decisioni unilaterali ad esempio per 300 miliardi di $ da settembre verso la Cina, che ha avviato una procedura alla Wto per avere il diritto di imporre misure compensatorie. Il comportamento US si è ripetuto al di fuori delle regole Wto, mentre la ritorsione cinese si richiama alle procedure previste dagli accordi internazionali vigenti come nel caso US/UE.
L’ uso dei dazi è completamente diverso e introduce nuovi motivi di riflessione oltre a quelli proposti in questa sede in un precedente contributo poche settimane fa. Si rileva una duplice e contrastante interpretazione della loro applicazione in particolare da parte degli US. Nel caso attuale tutto avviene in conformità agli accordi multilaterali vigenti, in quelli degli scorsi mesi, invece, secondo modalità improprie, unilaterali e “aggressive”. La differenza fra le contese multilaterali e quelle bilaterali trova così una chiara rappresentazione, tuttavia il fatto che gli US non abbiano abbandonato il modello multilaterale è importante per il riconoscimento che ciò implica anche nel contenzioso relativo alle recenti mosse degli stessi US.
Per l’Italia che da spettatrice diventa partecipe della contesa è un fatto negativo che colpisce un settore chiave delle nostre esportazioni. Nel calore del momento sono state effettuate numerose stime spesso affrettate e contrastanti. Nomisma quantifica un possibile impatto di 482 milioni di dollari sui nostri prodotti, un importo che in questo ambito colpirebbe il 9% delle nostre esportazioni e pari a meno di quelle francesi o inglesi.
Cibo fresco, appena colto, attenzione alla data di scadenza imposta o consigliata sono imperativi giustificati per molti alimenti ma che non devono far dimenticare che per altri fondamentali cibi una giusta maturazione determina la loro qualità gastronomica e, come stanno dimostrando recenti ricerche, anche l’acquisizione di rilevanti proprietà salutistiche. L’età anche in alimentazione porta vantaggi e il tempo è fondamentale per conferire ai cibi le migliori caratteristiche. Conoscere e governare l’effetto del tempo e delle condizioni ambientali nelle quali avvengono le trasformazioni degli alimenti è una delle materie di studio oggi più interessanti in ogni fase della loro produzione, dalla raccolta al consumo.
Con il termine “riscaldamento globale” si intende l’innalzamento della temperatura media della superficie del nostro pianeta, registrato negli ultimi decenni, secondo molti dovuto a cause non naturali. Con questa definizione si dà interamente all’uomo la colpa e la responsabilità di quanto sta succedendo. Non tutti gli “addetti ai lavori” sono d’accordo sul fatto che l’uomo sia l’unico responsabile del disastro. Comunque sia, agli effetti pratici, di chiunque sia la colpa, il pianeta che ci ospita sta diventando sempre più inospitale per noi, soprattutto a causa della sempre maggiore difficoltà di produrre e disporre degli alimenti necessari alla sopravvivenza di una popolazione mondiale che sta rapidamente marciando verso i dieci miliardi di individui, in modo drammaticamente accentuato nelle zone aride.
Per quanto riguarda le cause del riscaldamento, c’è un sostanziale accordo fra gli scienziati che indicano nell’aumento della concentrazione nell’atmosfera dei cosiddetti “gas serra” (anidride carbonica, metano, ossidi di azoto) e nella deforestazione, le cause principali.
Anche se le attività legate alla zootecnia, specie se intensiva, contribuiscono solo in minima parte alla produzione dei gas serra, esse sono spesso additate come attività da contrastare, specialmente da parte dei ben pensanti che vorrebbero far regredire l’evoluzione della nostra specie da specie omnivora a erbivora.
L’attività zootecnica sta risentendo pesantemente degli effetti del riscaldamento globale, sia per le maggiori difficoltà di produzione degli alimenti destinati agli allevamenti, sia per l’effetto negativo dello “stress termico” dei nostri animali.
A questo punto ci domandiamo: cosa possiamo fare per limitare il contributo negativo della zootecnia al problema del global warming? Anche se altri settori quali l’industria, per il 26%, o la produzione di energia elettrica, per il 38%, contribuiscono in maniera decisamente più pesante rispetto a tutte la attività agricole, che incidono per il 18% circa.
I gas serra, considerati i maggiori responsabili del fenomeno del riscaldamento globale sono l’anidride carbonica (CO2), il metano (CH4) e i gas azotati, il principale dei quali è il protossido di azoto (N2O). Dalla parte dell’industria zootecnica, se si adottano strategie finalizzate alla riduzione dei gas serra, si contribuisce, per quanto possibile, a limitare i danni.
Quasi quotidianamente la stampa propone articoli sulle api e sulle minacce che questi preziosi insetti subiscono da un uso sconsiderato di pesticidi o dai drammatici cambiamenti climatici in corso. L’allarme è più che legittimo, ma tralascia altri aspetti non meno preoccupanti e meno noti legati a nuovi parassiti e predatori che grazie alla globalizzazione affliggono ulteriormente il lavoro degli apicoltori. Nell’ultimo anno tuttavia si è insinuato nel mondo apistico un nuovo elemento di disturbo di cui certo non si sentiva la mancanza. Niente di biologico o di materiale, piuttosto una frattura intellettuale o culturale, qualcosa cioè di immateriale, ma non per questo meno pericolosa. Si sono infatti diffuse idee e proposizioni minimamente supportate da basi scientifiche, ma piuttosto romantiche ed emozionali, riproponenti una sorta di ritorno ad una improbabile Arcadia Felix. In base a queste idee, ad esempio, le api non sono animali domestici: come se gli oltre 19.000 imprenditori a partita IVA del settore che detengono circa il 79% di un patrimonio apistico nazionale stimato in circa 1.400.000 colonie, fossero dei semplici appassionati entomologi. E ancora: la selezione può fare solo danni e molto meglio sarebbe lasciare fare a madre natura perché in Italia disponiamo della celebre varietà Ligustica di Apis mellifera che tutto il mondo ci invidia. La moltiplicazione delle migliori famiglie attraverso la conosciuta pratica del traslarvo infatti indebolisce la varietà e ne minaccia la variabilità genetica, quindi il miglioramento genetico alla fine è comunque un peggioramento. Dietro questi e altri “ragionamenti” si intuisce chiaramente una visione dell’apicoltura in base alla quale le varietà di Apis mellifera emerse in Europa al termine dell’ultima era glaciale sono qualcosa di immutabile. Non importa se altrove la selezione ha prodotto ceppi migliorati che manifestano caratteristiche di resistenza alle malattie, produttività, docilità o migliore capacità di mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici decisamente superiori alle nostre api di casa: noi abbiamo la fortuna di avere la Ligustica. Dobbiamo solo far sì che questa non venga inquinata da fuchi di questi ceppi estranei e lasciar fare alla selezione naturale abbandonando l’uso di pratiche zootecniche che nulla devono avere a che fare con l’apicoltura. Purtroppo, vicina questi poco giudiziosi propositi è la Legge Regionale dell’Emilia-Romagna n. 2 del 4 marzo 2019 che definisce questa Regione come un’isola riservata esclusivamente alla Ligustica.