In tutta l’Italia del primo Novecento nei giorni di Carnevale era di consuetudine che le latterie e le pasticcerie offrissero il lattemiele assieme a frappe, sfrappole, galani, chiacchere, crespelle dolci, intrigoni o nelle cialde usate d’estate per i gelati. Il lattemièle denominato anche lattemmièle, latt’e mièle, latte e mièle e, nell’antichità, lattemèle è un dolce composto di panna con miele e il termine è poi passato a indicare la panna montata dolcificata con lo zucchero.
Gli anticorpi monoclonali (mAb) sono biomolecole molto utili in medicina, biologia e biochimica per la loro capacità di legarsi specificamente e stabilmente a diversi target molecolari sia in vivo che in vitro. Attualmente, i processi per la loro produzione su larga scala si basano sull’impiego di colture di cellule di mammifero che richiedono investimenti iniziali e costi di produzione piuttosto elevati, così come alti sono i costi operativi e di manutenzione .
Nella giornata di studio su “La sostenibilità in agricoltura” , svoltasi il 5 Dicembre 2019 all’Accademia dei Georgofili, si è più volte fatto riferimento ai 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile concordati dall’Organizzazione delle Nazioni Unite (Sustainability Development Goals – the United Nations).
Obiettivi, tutti, estremamente importanti, precisi, puntuali e quindi totalmente condivisibili. Questi obiettivi affrontano le principali emergenze a livello planetario e fra queste vi è anche la degradazione del suolo di cui viene fatto accenno non in un obiettivo suo specifico ma all’interno dell’obiettivo 2 “Fame zero” dove, preso atto della rapida degradazione delle risorse naturali, fra cui il suolo, si raccomanda, fra l’altro, un’agricoltura sostenibile e dell’obiettivo 15 “Vita sulla terra” dove viene proposto di “proteggere, recuperare e promuovere l'uso sostenibile degli ecosistemi terrestri, gestire in modo sostenibile le foreste, combattere la desertificazione, arrestare il degrado del suolo e fermare la perdita della biodiversità”.
Così come sono presenti due obiettivi specifici che riguardano altrettante emergenze e sfide del futuro come l’acqua (Obiettivo 6) e i cambiamenti climatici (Obiettivo 13), forse sarebbe stato opportuno ed efficace dare anche maggiore visibilità al precario stato di salute di questa risorsa inserendo un obiettivo specifico proprio sulla protezione del suolo, per sensibilizzare maggiormente l’opinione pubblica sulla sua importanza.
Con Agricoltura Sociale (A.S.), come richiamato dalla legge 18 agosto 2015 n. 141, si intendono le attività esercitate dagli imprenditori agricoli e rivolte a: 1) inserimento socio-lavorativo di lavoratori con disabilità e di lavoratori svantaggiati inseriti in progetti di riabilitazione e sostegno sociale; 2) prestazioni e attività sociali e di servizio per le comunità locali mediante l’utilizzazione delle risorse materiali e immateriali dell’agricoltura; 3) prestazioni e servizi che affiancano e supportano le terapie mediche, psicologiche e riabilitative finalizzate a migliorare le condizioni di salute e le funzioni sociali, emotive e cognitive dei soggetti interessati; 4) progetti finalizzati all’educazione ambientale e alimentare, alla salvaguardia della biodiversità nonché alla diffusione della conoscenza del territorio.
L’A.S. è quindi un insieme di pratiche sociali e di attività agricole che si realizzano nell’ambito della multifunzionalità dell’impresa agricola. Il valore aggiunto dell'A.S. è la possibilità di integrare le persone svantaggiate in un contesto di vita dove il potenziale personale può essere valorizzato. La presenza e le relazioni con i coltivatori, il contatto con altri esseri viventi, sia animali che vegetali, l'assunzione di specifiche responsabilità sono alcune delle caratteristiche chiave delle pratiche riabilitative determinate dall'A.S.
L'A.S. rappresenta anche una nuova opportunità per gli imprenditori agricoltori di portare avanti servizi connessi, ampliando e diversificando lo scopo della loro attività e del loro ruolo nella società. L'integrazione tra pratiche agricole e servizi sociali può anche permettere nuove forme di guadagno per gli imprenditori agricoli, migliorando allo stesso tempo l'immagine dell'agricoltura nella società e favorendo lo sviluppo di nuove relazioni tra cittadini rurali e urbani. Per introdurre nel mondo produttivo persone che esprimono disagio sociale o disabili occorre cercare di mantenere, valorizzare e integrare le caratteristiche e le peculiarità del settore agricolo e di quello sociale, che si devono incontrare per raggiungere questi obiettivi.
Il 5 dicembre 2019 è stata celebrata in tutto il mondo la giornata sul
suolo. La FAO ha annunciato che sono stati organizzati più di 460 eventi
in 100 differenti Paesi.
L’Italia ha aderito con una serie di
iniziative che si sono dipanate nell’arco di tutta la settimana dal 2 al
7 dicembre, tanto da poter affermare di aver celebrato una “soil week”.
Ogni anno, con l’approssimarsi delle feste natalizie, c’è qualcuno che
si sente offeso dall’usanza di addobbare, in casa o in una piazza, un
albero. Questa volta è stato il “Corriere della Sera” a dedicare un
ampio spazio all’addobbo con luci “sceme” di piante maestose coltivate
in boschi più o meno lontani dal luogo di esposizione. Ci si chiede
quale diritto abbiamo di abbattere gli abeti per festeggiare il Natale,
quale diritto abbiamo di ..”sradicare un albero dalla sua foresta….e poi
buttarlo in una discarica” (Cfr. Corriere della Sera, 13 dicembre
2019).
Fortunatamente, per il rispetto della diversità di opinioni,
sempre sullo stesso quotidiano si informano i lettori che l’albero di
Natale vero, dal punto di vista della sostenibilità batte quello
sintetico.
La Cimice asiatica o Cimice marmorizzata marrone, Halyomorpha halys
(Stål) rappresenta per l’Italia solo la più recente tre le emergenze
fitosanitarie derivanti dall’accidentale introduzione di specie animali
esotiche. Questo è un fenomeno globale che negli ultimi decenni si è
drammaticamente intensificato, prevalentemente a causa della vorticosa e
per molti aspetti incontrollata circolazione di merci e persone. Come
purtroppo spesso avviene, la presenza di queste specie esotiche nei
nuovi areali risulta particolarmente oneroso sia a livello economico che
ecologico; infatti, il loro arrivo rende spesso necessario il ricorso
ad interventi insetticidi intensivi, con inevitabili conseguenze
negative di natura ambientale, tossicologica e tecnica. Tali effetti
indesiderati possono mettere a serio rischio non solo la salute degli
operatori e dei consumatori ma anche l’equilibrio biocenotico degli
agroecosistemi e gli ambienti naturali ad essi prossimi. Tutto ciò può
drasticamente compromettere consolidati programmi di difesa
ecosostenibile che ormai da anni si adottano in Italia nel rispetto dei
principi del controllo integrato delle colture e dell’uso sostenibile
dei prodotti fitosanitari.
Tale è l’obiettivo principale della
direttiva 2009/128 /CE, recepita in Italia con il decreto legislativo
n.150 del 14 agosto 2012, che ha istituito un riferimento normativo
europeo ai fini dell'utilizzo sostenibile dei pesticidi. In Italia, come
negli altri stati membri, l'attuazione di tale direttiva ha previsto
l’adozione di un Piano di Azione Nazionale (PAN) regolato dal Decreto
Interministeriale 22 gennaio 2014. Questa norma promuove la difesa a
basso apporto di prodotti fitosanitari delle colture agrarie,
riducendone così i rischi e l’impatto sulla salute umana e sull'ambiente
e sostenendo l'uso della gestione integrata dei parassiti (IPM)
mediante tecniche alternative al controllo chimico.
Ultimamente sono state pubblicate su questo notiziario diverse note
sull’impatto degli allevamenti sul clima. Ultima quella del Prof Tredici
che fa un’analisi articolata e documentata dell’impatto della zootecnia
sui cambiamenti climatici e, in definitiva, sulla qualità della vita.
(Si veda: http://www.georgofili.info/contenuti/risultato/14722 e http://www.georgofili.info/contenuti/risultato/14735).
Come
non dare ragione a chi sostiene che l’allevamento animale ha negli
ultimi decenni contribuito, in modo diretto e indiretto, all’incremento
della produzione di gas serra con tutte le conseguenze negative che
questo comporta. Secondo le statistiche più diffuse, l’agricoltura è
responsabile del 24% delle emissioni di gas serra a livello globale, di
queste l’allevamento dei ruminanti lo è per quasi due terzi (http://www.fao.org/3/a-i6340e.pdf).
Però le statistiche, a seconda delle fonti, su questo argomento
riportano i dati più disparati. E si sa, le statistiche sono soggette ad
interpretazione; secondo un diffuso aneddoto, se il 30% degli incidenti
stradali è dovuto all’uso di alcol vuol dire il 70 % è causato da
guidatori sobri, quindi meglio bere prima di mettersi alla guida.
Facezie
a parte, occupandomi di zootecnia ormai da diversi anni mi viene
naturale prendere le difese del settore, magari citando le
argomentazioni di chi nega questo impatto negativo, ma argomentare con
numeri e percentuali è una battaglia poco costruttiva. I dati statistici
hanno il pregio della sintesi, ma possono essere usati - in modo
inoppugnabile - sia per sostenere che per controbattere una tesi.
Quindi
nessun dato riportato dalle note pubblicate su questo argomento è
contestabile, e sono d’accordo quando si dice che per risolvere, o
attenuare il problema, bisognerebbe mangiare meno carne e seguire
modelli di allevamento più sostenibili e rispettosi dell’ambiente. A
questo proposito consiglio la lettura di un’interessante e recente
rassegna di Tullo et al, (2019), che tra le strategie di mitigazione
dell’impatto che la zootecnia ha sul clima, riporta quanto affermato da
Kaufmann (2015) secondo cui le soluzioni possibili sono riconducibili,
molto sinteticamente a: 1) miglioramento dell’efficienza delle
produzioni; 2) innovazione nella gestione dell’allevamento e della
produzione del letame (Zootecnia di Precisone); diminuzione della
domanda di prodotti animali (Herrero et al., 2016). Quest’ultimo punto,
sicuramente condivisibile, sembra però non compatibile con l’innegabile
aumento globale di “fame” di proteine animali (Rojas-Downing et al.,
2017) e che avrebbe, eventualmente, risultati a lungo, lunghissimo
termine.
Franco Scaramuzzi si era laureato a Bari in Scienze Agrarie nel novembre
1948, con il massimo dei voti e lode. Grazie a una borsa di studio del
Ministero per l’Agricoltura e le Foreste, avviò subito (dall’inizio del
gennaio 1949) la propria attività accademica, anche come Assistente
volontario presso l’apprezzato Istituto di Coltivazioni Arboree
dell’Università di Firenze.
Nel 1954 vinse il concorso nazionale
alla libera docenza in Coltivazioni Arboree. Nel 1959 vinse il concorso
nazionale per l’omonima cattedra presso l’Università di Pisa. Nel 1969
fu chiamato dall’Università di Firenze a coprire il posto che era stato
del suo Maestro, Alessandro Morettini.
Nel 1971 costituì a Firenze
il nuovo Centro (poi divenuto Istituto) del CNR per gli Studi sulla
Propagazione delle Specie Legnose, che diresse fino al 1979.
Collaborò
con numerose Istituzioni e Centri di ricerca in tutti i Paesi Europei,
nonché in America (Canada, Stati Uniti, America Latina), in Australia,
in numerosi Paesi dell’Africa e dell’Asia (Medio Oriente, India,
Indocina, Giappone, Cina). La sua attività scientifica fu dedicata
soprattutto al miglioramento genetico e alla propagazione delle specie
legnose, con particolare riguardo a temi di biologia applicata. Pubblicò
centinaia di lavori e fu relatore a molti congressi scientifici in
tutto il mondo.
Il Presidente della Repubblica, nel 1983 lo insignì
di medaglia d’oro quale “Benemerito per la Scuola e la Cultura” e nel
1998 gli conferì la massima onorificenza dell’ordine al merito della
Repubblica Italiana (“Cavaliere di Gran Croce”).
Nel 1972 fu eletto
rappresentante dei Professori ordinari nel Consiglio Nazionale delle
Ricerche. Fu eletto nel CUN (Comitato Universitario Nazionale) per due
legislature, dal 1979 al 1986, quale rappresentante dei Professori
ordinari delle Facoltà di Agraria italiane.
Dal novembre 1979 fu
Rettore dell’Università di Firenze, fu poi rieletto e mantenne tale
carica per 12 anni consecutivi. L’Ateneo gli conferì una medaglia d’oro.
Lunedì 6 gennaio 2020, a Firenze, è mancato all’affetto dei suoi cari il Professor Franco Scaramuzzi. Era nato a Ferrara il 26 dicembre 1926.
Accademico dei Georgofili dal 1958, era stato chiamato a far parte del Consiglio Accademico nel 1979. Fu eletto Presidente nel 1986 e fu rieletto per 8 volte consecutive, rimanendo in carica per 28 anni.
Era Presidente quando, nel 1993, l’Accademia fu distrutta da un’autobomba attribuita alla mafia ed egli svolse un lavoro determinante per la sua ricostruzione. Attualmente ricopriva la carica di Presidente Onorario.
Domani, mercoledì 8 gennaio, la Salma sarà esposta dalle ore 8.30 nella Aula Magna del Rettorato in Piazza San Marco a Firenze, alle 11 si svolgerà una Commemorazione e la cerimonia funebre si terrà alle ore 15 presso la Basilica della Santissima Annunziata.
Nell’antico pensiero di un tempo circolare nel quale solstizi e equinozi scandivano le produzioni agricole e la disponibilità degli alimenti anche la cucina era regolata da tradizioni che marcavano i singoli periodi dell’anno in relazione ai ritmi circadiani di luce – buio e alle condizioni climatiche. Oggi tutto questo è in gran parte perduto e nelle società urbane e industriali dominate da un tempo lineare la popolazione vive in ambienti climatizzati con ritmi luce – buio artificiali e in ogni periodo dell’anno si trovano sempre gli stessi alimenti, mentre le tradizioni di tempo circolare sono sostituite da campagne pubblicitarie che tendono a destagionalizzare l’uso degli alimenti e quindi anche la cucina.
La conferenza “Soil and the SDGs: Challenges and need for action” organizzata a Bruxelles il 25 novembre 2019 dalla Direzione Generale Ambiente della Commissione Europea, ha ospitato una ricca agenda di interventi per dare una visione a 360° delle sfide legate alla degradazione del suolo che avanza nei diversi territori degli Stati Membri e l’urgenza di pianificare azioni e prevedere strumenti adeguati per invertire la tendenza in atto nella nuova programmazione comunitaria 2021-2027.
Come mitigare le emissioni del settore agricolo? Importanza della dieta
Pratiche agricole più naturali (ad esempio no-tillage, agroforestry, agricoltura biologica), nuove tecniche di allevamento, la corretta gestione delle deiezioni e il miglioramento genetico potrebbero mitigare emissioni per 2,3 - 9,6 Gt CO2-eq/anno. Si stima che il potenziale di mitigazione delle diete possa contribuire in modo simile: dalle 3 Gt CO2-eq/anno della dieta mediterranea, alle 4-5 Gt CO2-eq/anno delle diete pescetariana e flexitariana (carne e latticini molto limitati), alle 6 Gt CO2-eq/anno di una dieta vegetariana, per raggiungere 8 Gt CO2-eq/anno con una dieta vegana. Le diete con maggiore potenziale di mitigazione hanno sempre una preponderante componente vegetale (frutta, verdura, semi, cereali), ma possono anche utilmente avvalersi di prodotti da allevamenti a basso impatto come polli, suini, prodotti dell’acquacoltura. Tutte le diete a effetto mitigante potrebbero essere rapidamente adottate portando immediati benefici, oltre che ambientali, in termini di qualità di vita e minori costi per il servizio sanitario nazionale.
Il costo che non include l’impatto ambientale
Non può (o non dovrebbe) sostenersi a lungo un’attività commerciale con profitti negativi. L’allevamento, la coltivazione di grano, la produzione di fertilizzanti rientrano tra quelle attività che lasciano un margine non elevato (in media inferiore al 10%). Ebbene, è stato valutato che, se si considerano i costi dei danni sull’ambiente e la salute che queste attività agricole o connesse con l’agricoltura causano, esse vanno tutte in negativo. Pesando anche il costo in termini di patrimonio naturale distrutto o compromesso, si avrebbero perdite medie del 12% per la produzione di fertilizzanti, del 78% per la coltivazione di grano e di ben il 165% per l’allevamento animale. Alla domanda “Perché l’agricoltura dà profitto? Si dovrebbe quindi rispondere: “Perché nessuno ne paga i danni ambientali e sociali”. Dire nessuno, in questo caso, equivale a dire tutti ed è chiaro che questo costo non è equamente distribuito. La maggior parte dei 500 milioni di polli da carne e degli oltre 10 milioni di suini allevati in Italia proviene da allevamenti intensivi. Se ti ritrovi un allevamento di decine di migliaia di polli o suini nelle vicinanze di casa è chiaro che sarai principalmente tu e la tua famiglia a pagare in termini di contaminazione dell’aria che respiri, maggiori rischi di malattie, ridotta qualità di vita e svalutazione della tua proprietà. E’ vero che le stesse considerazioni si possono fare per tante altre attività agricole e non, ma questo non diminuisce le responsabilità dell’allevamento intensivo.
Nel profluvio di parole che accompagnano le nostre giornate in questi giorni, alla fine di un anno particolarmente convulso e confuso per il nostro Paese sbuca all’improvviso il problema dell’origine delle nocciole, ingrediente chiave di un prodotto alimentare molto noto, la Nutella. L’Italia scopre che le nocciole sono in gran parte di importazione. Nasce il caso. Il Paese attonito si ferma, colpito dalla rivelazione. Del caso si impadronisce subito la politica che evidentemente non ha nulla di più urgente di cui occuparsi, dimenticando un debito pubblico di circa 2400 miliardi di euro in aumento inarrestabile, un prodotto lordo che non cresce, una disoccupazione attorno al 10% con un tasso che per i giovani è pari a circa il triplo e con un elevato numero di crisi aziendali che non si riescono a risolvere.
La vicenda fa riflettere, con la necessaria serietà, sul comparto agricolo-alimentare al di là delle favole e con un sano realismo.
Si scoprirebbe così che l’Italia è il secondo produttore al mondo di nocciole, circa un decimo della produzione mondiale, ma che ne deve importare un consistente quantitativo, in prevalenza dalla Turchia che è al primo posto fra i produttori con oltre la metà del totale mondiale. Le importazioni sono necessarie e si calcola che l’impiego di Ferrero per produrre Nutella e altri prodotti dolciari superi l’intera produzione nazionale. Una dichiarazione aziendale di qualche anno fa stimava che acquistasse circa un terzo della produzione mondiale. La storia proseguirebbe con lo spostamento dell’attenzione sullo zucchero e sulla necessità di importarne meno e produrne di più in Italia, e l’invito a consumare solo zucchero italiano di cui, peraltro, siamo deficitari.
La riflessione è breve e si riassume in pochi punti. L’Italia presenta un saldo della bilancia agricola-alimentare passivo da sempre, e cioè da quando esistono statistiche attendibili. Ciò non le ha impedito di alimentare una popolazione che dall’Unità d’Italia ad oggi è circa raddoppiata e consuma pro capite alimenti in quantità e qualità nutrizionale superiori.
La bilancia degli scambi, tradizionalmente passiva sia per la componente agricola sia per quella dei prodotti trasformati, da alcuni anni è diventata attiva per questa componente mentre è rimasta passiva per quella agricola. Per esportare più prodotti lavorati il cui ricavato copre una quota maggiore del passivo agricolo dobbiamo però importare quanto necessario. Un ipotetico pareggio fra import ed export è un sogno irrealizzabile sia perché non vi è più terra coltivabile, sia perché in molti casi la materia prima importata è fondamentale per migliorare la qualità nutrizionale e organolettica degli alimenti.
Sì è svolta il 5 dicembre 2019, nella sede dell’Accademia dei Georgofili, una giornata di studio su “La sostenibilità in agricoltura”. Il tema è stato declinato in tutti i suoi aspetti: dalle produzioni zootecniche alla difesa delle piante, dalla gestione forestale alla ricerca genetica, dall’ortofloricoltura al verde urbano e alla sicurezza dei lavoratori del settore primario. I Georgofili hanno voluto offrire un contributo di conoscenze e di “saperi” per fornire linee guida su una materia complessa e trasversale, che interessa tutti i settori della nostra Società.
Il Prof. Pietro Piccarolo, Vicepresidente dell’Accademia dei Georgofili che ha condotto i lavori, ci spiega meglio il senso della giornata in questa intervista.
Prof. Piccarolo, perché una Giornata di studio sulla sostenibilità in agricoltura?
Quello della sostenibilità in agricoltura è stato il tema conduttore che l’Accademia dei Georgofili si è data per il 2019 e la Giornata del 5 dicembre ha riguardato un approfondito dibattito scientifico sulla sostenibilità, esteso a tutte le filiere del settore primario. Questo perché il termine “sostenibile” è spesso abusato e a volte anche snaturato. Si è quindi voluto portare il dibattito sul giusto binario, dando all’aggettivo “sostenibile” il significato corretto, e cioè è sostenibile ciò “che può essere affermato, asserito, dimostrato con argomenti solidi e persuasivi”. L’aggettivo “sostenibile” è quindi assimilabile all’aggettivo “scientifico”.
A questo principio ogni relazione del Convegno si è strettamente attenuta, trattando nella propria tematica, non solo gli aspetti ecologici, ma anche quelli economici e sociali. Solo coniugando questi tre aspetti con l’esigenza di avere una produzione di qualità è infatti possibile parlare di sostenibilità dell’agricoltura. È questa la sfida che la Comunità scientifica porta avanti con buoni risultati, grazie soprattutto ai nuovi strumenti di analisi e all’innovazione tecnologica e digitale.
Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino è un proverbio motivato dall’importanza del lardo nella cucina e nella gastronomia italiana del passato, un alimento che assieme allo strutto meritano d’essere rivalutati e recuperati. Nel passato tre sono i grassi presenti nelle cucine tradizionali italiane: l’olio, il burro e il lardo con lo strutto: in auge ed osannato è oggi il primo, a volte criminalizzato il secondo, uccisi e da tempo sepolti il lardo e lo strutto, ma nel passato preziosi e alla base soprattutto della cucina popolare tanto che il lardo merita il detto tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino.
Anche se il rapporto tra parchi e criminalità rimane oggetto di dibattito, esiste una letteratura alquanto consistente riguardo al fatto che i parchi e altri spazi verdi urbani riducono i reati e in particolar modo le violenze contro la persona (v. Georgofili INFO - http://www.georgofili.info/contenuti/risultato/1992).
Quando gli spazi urbani non utilizzati, marginali o, peggio ancora, degradati, si trasformano in luoghi più attraenti e utili per i residenti, la violenza e il crimine in genere diminuiscono nelle immediate vicinanze.
Dall’intervento di Giulia Bartalozzi su queste pagine nel novembre 2018 dal titolo “Salveremo il pianeta non mangiando carne?" molti altri se ne sono succeduti sul tema della sostenibilità degli allevamenti animali. Tra i più recenti quelli di Giuseppe Bertoni, Mauro Antongiovanni e Giuseppe Pulina che ci hanno invitato a una riflessione seria sui numeri, a un dibattito scevro da pregiudizi e a far qualcosa assieme. Rispondo volentieri all’invito dei colleghi.
Non ho dubbi sul ruolo fondamentale (alimentare, nutrizionale, economico e sociale) della carne e dei prodotti di origine animale. L’allevamento, oltre a fornire nutrienti essenziali, garantisce lavoro e sicurezza alimentare a buona parte dell’umanità, in molti casi migliora la qualità della vita e a volte la rende semplicemente possibile. Quindi, lungi da me l’idea di proporre l’abbandono della carne. Invito che non sortirebbe comunque alcun effetto. Tuttavia mi è altrettanto chiaro che una decisa limitazione della produzione e del consumo di carne non è più procrastinabile. Non possiamo evitare la catastrofe climatica (il punto di non ritorno) che incombe se, assieme a drastiche misure in altri settori che divorano risorse non rinnovabili ed emettono gas serra, non riduciamo in modo importante il consumo di alimenti di origine animale e di carne in particolare. Non entro nel merito delle condizioni in cui sono tenuti gli animali in alcuni allevamenti intensivi (purtroppo numerosi anche in Italia) e nemmeno dei maggiori rischi di malattie non trasmissibili associati a un eccessivo consumo di carne e salumi.
Terra agricola e allevamenti animali
L’agricoltura è tra le prime cause del cambiamento climatico e ne subisce pesantemente gli impatti sia a livello locale che globale. Se contro ogni previsione riusciremo a limitare il riscaldamento globale entro i 2°C, la resa di molte colture base tra cui grano, mais e soia, che in alcune aree della fascia settentrionale del mondo andrà ad aumentare, diminuirà comunque in generale del 20-40%. D’altra parte l’agricoltura è responsabile d’ingenti danni ambientali: emissioni di gas serra, erosione di suolo fertile, deforestazione e desertificazione, inquinamento delle acque e dell’aria, perdita di biodiversità, eutrofizzazione e morte di vaste aree marine costiere. Il contributo maggiore a questi impatti negativi lo danno gli allevamenti animali, di ruminanti in particolare.
La produzione mondiale di carne (escluse pesca e acquacoltura) ha sfiorato 340 milioni di tonnellate nel 2018 (FAO Outlook, 2018) ed è previsto che la richiesta mondiale di prodotti di origine animale superi 600 milioni di tonnellate nei prossimi due/tre decenni. Di fronte a questo trend, le domande da porsi sono tante. Quali strategie adotterà il settore zootecnico per sostenere tale richiesta? Cosa comporterà in termini di costi ambientali? Come incrementare la produttività degli allevamenti già fortemente limitata a causa delle mutate condizioni climatiche?
Il controllo delle malattie delle piante ad eziologia batterica è senza dubbio molto impegnativo e difficoltoso. Nonostante molteplici siano le modalità d’interazione che i batteri fitopatogeni possono instaurare con i loro ospiti vegetali, la lotta alle batteriosi delle piante deve essere sempre basata essenzialmente sulla prevenzione dell’infezione e della disseminazione del patogeno, piuttosto che sulla cura della malattia, quando conclamata
Le principali misure di controllo delle batteriosi delle piante prevedono l’introduzione e l’uso di varietà, cultivar o ibridi resistenti, l’adozione di pratiche colturali-agronomiche e di monitoraggio che permettono di ridurre l’inoculo infettante o la probabilità d’infezione, l'implementazione e applicazione di misure diagnostico-ispettive e di quarantena per escludere o limitare introduzione e/o diffusione del fitopatogeno e del materiale vegetale infetto. Anche l'uso di formulati a base di agenti di lotta biologica si è dimostrato in certi casi efficace per il controllo di alcune batteriosi di specie coltivate, con riduzione dell’incidenza e spesso anche della severità degli attacchi.
Nonostante ciò, una delle poche opzioni disponibili ed efficaci è spesso stata, e tuttora è, l’applicazione di battericidi. Mentre negli USA è permesso l’uso in pieno campo di taluni antibiotici quali fitofarmaci, in Europa i battericidi ammessi sono rappresentati esclusivamente da composti a base di rame. Se importanti come ruolo nella difesa integrata, i battericidi rameici sono talvolta addirittura indispensabili in agricoltura biologica. Ma a partire dagli anni '80 dello scorso secolo, è stato via via crescente il numero di segnalazioni relative allo sviluppo di resistenza al rame in batteri fitopatogeni afferenti a vari e diversi generi, fenomeno che ha destato notevoli preoccupazioni per la sostenibilità di questi interventi.
Più in generale, la crescente consapevolezza dei problemi di natura eco-tossicologica, derivanti dall’uso continuato, ma più spesso inutilmente eccessivo, del rame a protezione delle colture dalle malattie, in tempi recenti ha portato a norme legislative più restrittive per limitare l'uso dei composti antimicrobici rameici e quindi alla ricerca di possibili alternative.
Il 5 Dicembre si celebra la giornata mondiale del suolo; fu proposta nel 2002 dall’International Union of Soil Sciences (IUSS) di cui fanno parte tutte le società nazionali di Scienza del Suolo inclusa, quindi, la Società Italiana di Scienza del Suolo (SISS). In questo giorno la IUSS in collaborazione con la FAO sta organizzando eventi in tutto il mondo, Italia compresa, per richiamare l’attenzione su questa risorsa non rinnovabile e fragile visto che la degradazione del suolo è un problema a livello planetario dato che il centro di ricerche della Commissione europea ha pubblicato una Nuova edizione dell'Atlante mondiale della desertificazione, dal quale emerge che “oltre il 75% delle terre emerse sono già degradate e potrebbero esserlo oltre il 90% entro il 2050”.
Il detto di Leonardo da Vinci secondo cui “si conosce molto di più di quello che ci sta sopra la testa di quello che ci sta sotto i piedi” è quanto mai attuale. Nonostante la ricerca scientifica oggi abbia prodotto notevoli quantità di dati e sia in grado di fornire tutti gli elementi per operare una corretta gestione del territorio, purtroppo, troppo spesso, queste conoscenze sono sottovalutate o peggio ignorate dall’opinione pubblica, dai decisori politico-amministrativi e dagli operatori agricoli cioè da tutti i soggetti che dovrebbero adoperarsi per consentirne la corretta attuazione.
Eppure è del tutto evidente che la degradazione del suolo e quindi dell’ambiente, dipende pressoché interamente dalle attività antropiche; da una parte con l’abbandono delle aree marginali e quindi con l’abbandono della manutenzione delle sistemazioni agrarie realizzate in passato e, soprattutto, del sistema di regimazione delle acque; dall’altra parte con l’intensificazione colturale degli ultimi 50 anni che, se da un lato ha portato un incremento produttivo, dall’altro ha causato, nel lungo termine, un progressivo degrado del suolo con una drastica riduzione del contenuto di sostanza organica e con un considerevole aumento, complici i cambiamenti climatici in atto, dei fenomeni erosivi, talvolta catastrofici. Da sottolineare anche che dall’inizio degli anni ‘80 si sta verificando un decremento della capacità produttiva del suolo in oltre il 10% delle terre coltivate. A questo si aggiunge il progressivo aumento delle aree impermeabilizzate, come bene evidenziato dal recente rapporto ISPRA sul consumo di suolo. Questo è tanto più grave proprio perché agricoltura e urbanizzazione competono per l’uso degli stessi suoli: tendenzialmente i terreni a più elevata potenzialità produttiva. La FAO stima che, con questo tasso di distruzione del suolo, ci rimangano solo 60 anni residui per disporre di sufficiente suolo fertile di buona qualità.