Stiamo vivendo giorni difficili, avvolti in una cappa grigia di dolore,
di ansia, di incertezza su presente e futuro. Su tutto incombe la
presenza di questo famigerato coronavirus, resa più terribile dal fatto
che sappiamo molto poco, quasi nulla, di lui e del suo modo di agire.
Siamo gravati da un insopportabile rumore di fondo generato
dall’incombente e onnipresente informazione: televisioni, giornali,
chiacchiere a ruota libera diffuse a macchia d’olio. Un subisso di
messaggi, in parte grevi e deprimenti, in parte spiritosi per sollevare
il morale con un sorriso, in parte spunto di riflessioni e
suggerimenti.
Fra questi ultimi serpeggia una sorta di rivolta nei
confronti di una persecuzione, forse solo presunta, nei confronti
dell’Italia e degli Italiani. Chiediamoci perché e guardiamo già al
dopo. I messaggi sono un modo per rincuorare tutti, compresi quelli che
scrivono, unendoli a difesa della nostra Italia, nella ribellione verso
gli ingiustificabili persecutori, prima i cinesi poi l’Europa, non ben
definita ma immancabile. La proposta comune è un invito all’unione, a
rafforzarsi reciprocamente, a riscoprire le antiche virtù, a ricordare i
grandi meriti del nostro popolo. Spesso chiusa dall’esortazione a
comprare solo alimentari italiani, prodotti da aziende italiane,
evitando quelli esteri, di frequente “pessime imitazioni” dei nostri,
nella convinzione che noi si abbia il meglio di tutto. Così facendo si
sosterrebbe la nostra vacillante economia e si vivrebbe meglio. Insomma
il messaggio parte dalla difesa dell’Italia e dei suoi prodotti e si
conclude con la convinzione che “così possiamo farcela”.
L’esortazione
ha risvolti psicologici importanti, ma, per evitare reazioni
controproducenti di fronte alla realtà, occorre aggiustare il tiro.
Con il termine di erbe aromatiche, si fa riferimento a piante ricche in
oli essenziali capaci di sprigionare odori ed aromi molto intensi, già
conosciute, e largamente impiegate, fin dai tempi dei Sumeri e
protagoniste di una vivace riscoperta negli ultimi anni.
Esse trovano
largo impiego in svariati settori quali quello erboristico,
farmaceutico, cosmetico, ma è senza alcun dubbio nel settore alimentare
che vedono la loro massima espressione di utilizzo come condimenti di
pietanze ed alimenti che, grazie a loro, riescono a esprimere,
ai massimi livelli, tutto il loro potenziale.
In questi tempi di rinnovato interesse verso il benessere animale nei
suoi molteplici aspetti, c’è chi si chiede che cosa sia il “debeccaggio”
dei pulcini destinati a diventare galline ovaiole e perché viene
praticato.
Che i prodotti ittici siano importanti per la salute e che devono
entrare in una dieta corretta e equilibrata lo dicono gli esperti perché
pesci, molluschi e simili sono ricchi di proteine, vitamine, minerali e
grassi buoni e lo sanno in molti, ma pochi sono al corrente dei rischi
che sta correndo la salute dei mari per un eccessivo sfruttamento della
pesca, ma quale è la vera situazione? Non solo perché i dati che abbiamo
sono discordanti, ma anche perché come sempre devono essere
interpretati in modo corretto.
La messa al bando degli antibiotici in alimentazione animale, usati come
promotori di crescita in quanto equilibratori del microbiota
intestinale, ha stimolato la ricerca verso prebiotici naturali quali gli
oli essenziali, i tannini, gli acidi grassi a catena medio-corta,
l’inulina e molti altri e probiotici come lattobacilli e lieviti.
Albero multifunzionale come ben pochi (solo il castagno può competere),
il pino domestico da sempre rappresenta un anello di congiunzione tra
selvicoltura e frutticoltura. Esso è presente da millenni nei nostri
ambienti e ci ricorda un passato glorioso sulle terre e sui mari (era
uno dei legni preferiti per le costruzioni navali), ci collega
idealmente con antiche civiltà scomparse e ci garantisce un legame
stretto con le comunità locali; è ricorrente nella letteratura, nelle
arti decorative, nei miti, nella quotidianità ed è un assoluto simbolo
di “toscanità”. Il pinolo, suo prezioso seme, è un prodotto “biologico”
per eccellenza, protagonista della nostra cucina, piccolo e morbido
interprete essenziale di preparazioni salate o dolci, che vanno
dall’antipasto al dessert, presente in centinaia di ricette
tradizionali, dalle Alpi alla Sicilia. Biroldo, castagnaccio, pasta che sàrdi, pesto, pinolata, salsa di pinoli, sarde a beccaficu,
spungata, strudel, torta co’ bischeri, mantovana, sono tutti gioielli
della tradizione gastronomica. Almeno quattro i sensi soddisfatti dal
pinolo: gustoso da assaporare, profumato da odorare, bello da vedere e
piacevole al tatto. La sua “etichetta nutrizionale” mette in evidenza i
pregi del prodotto di un’alimentazione moderna e allo stesso tempo
legata alle tradizioni. La quintessenza dell’healthy food. Il
pinolo è ingrediente qualificante per una dieta bilanciata, in
particolare per l’assenza di colesterolo (e anche di glutine), per
l’apporto di elementi preziosi, come i sali minerali e per il contenuto
di antiossidanti e di grassi “buoni”, quelli che non si depositano nelle
arterie.
Lo strobilo (pina, o pigna) è un “frutto” quanto mai
peculiare: completa la maturazione in tre anni, per non parlare del
fatto che viene prodotto ad un’altezza da terra che non ha pari in campo
frutticolo. Una pineta domestica origina diverse tipologie di prodotti:
oltre ai pinoli, il legname (per la produzione di cellulosa, per
biomassa da combustione e, in passato, impiegato nell’industria
cantieristica e nell’edilizia e per l’estrazione della resina), gli
strobili esausti (insieme ai gusci, come biomassa da energia; le squame
come pacciamatura). Ma la presenza del pino domestico può essere
declinata anche in ben altre valenze e funzioni: ambientale/ecologica,
igienico/sanitaria, storico/colturale, paesaggistica/turistica, il tutto
nell’ottica attualissima dei “servizi ecosistemici”. Si tratta di una
“firma” irrinunciabile del paesaggio costiero di molte aree
mediterranee.
Anche Macfrut ha gettato la spugna, come era inevitabile. Le fiere
del food una dopo l’altra si arrendono all’aggravarsi dell’epidemia del
Coronavirus dopo tutta Italia è stato messo in quarantena per decreto.
Macfrut è slittato a settembre (dall’8 al 10) e anche Cibus si farà a
settembre (dall’1 al 4) per agevolare l’arrivo degli operatori asiatici e
americani. In settembre e ottobre ci sarà un affollamento fieristico
straordinario in Italia e all’estero (c’è anche Sana a Bologna dal 10 al
13 settembre e a Singapore Asia Fruit Logistica dal 16 al 18 settembre,
e in ottobre Madrid dal 20 al 22) ma pazienza… chi può prevedere cosa
potrà succedere da qui a qualche mese? Limitiamoci a sperare per il
meglio.
Il virus globale minaccia l’economia globale, ed è subito
disperazione globale. Borse nel panico, Europa in ordine sparso (tanto
per cambiare), la Cina che improvvisamente si scopre fragile e indifesa,
e il resto del mondo che scopre improvvisamente di dipendere dalla
stessa Cina.
L’Italia che passa dalla stagnazione alla sicura
recessione. La vita quotidiana di milioni di famiglie sconvolta,
l’Italia produttiva che si ferma o viene pesantemente rallentata.
L’ortofrutta sta dentro questo scenario complicatissimo con tutti i suoi
problemi, che già erano seri prima, figuriamoci adesso. Tante
incognite: i consumi, le forniture, le dogane, l’export sotto attacco,
la logistica, viaggi annullati, il made in Italy nel cono d’ombra del
Coronavirus.
Come ne usciremo? Oggi impossibile dirlo. Le catene
della Gdo stanno vendendo, ma quanto durerà? Vedo ovunque supersconti,
promozioni e sottocosto a go-go. Il mondo dei Mercati e dei grossisti
sembra al momento il più colpito dalle quarantene, dai blocchi delle
merci, dalla crisi di prezzi e consumi, dal calo verticale del turismo e
della ristorazione fuori casa. Un calo complessivo nella richiesta di
freschi e freschissimi va messo in conto, se il virus non mollerà. La
logistica delle merci in entrata e uscita dai vari territori
(limitatamente all’esigenza di consegna o prelievo dei prodotti) al
momento è garantita, ma poi bisognerà vedere in concreto cosa succederà.
L’impressione
è che l’export del nostro agrifood subirà un colpo fortissimo, di cui
abbiamo già avuto pesanti avvisaglie. Bisogna che i provvedimenti del
governo, in particolare il Piano straordinario di promozione del made in
Italy da oltre 700 milioni, diventino operativi al più presto, vengano
concordati con le imprese e non si perdano in un delirio burocratico. Il
ministro Di Maio deve fare le valigie e iniziare un bel giro del mondo a
spiegare che il made in Italy è esente dal virus.
Gli insetti, e in minor misura, i ragni e gli scorpioni, hanno suscitato l’interesse dell’industria cinematografica che, dai loro comportamenti, ha tratto spunti per realizzare sia interessanti prodotti artistici, sia mediocri o pessimi film commerciali. Il vasto panorama cinematografico mondiale rende impossibile anche riportare i soli titoli dei film nei quali gli artropodi sono protagonisti, diretti o indiretti, e di quelli in cui essi compaiono più o meno fugacemente. Innumerevoli sono i film del genere horror-fantascienza, nei quali scorpioni, ragni e insetti giganti, o sciami di api, vespe, formiche, mosche, termiti e locuste, diventano strumenti di terrore. Dedicati agli spettatori più giovani sono i cartoni animati con insetti protagonisti che, da Walt Disney in poi, hanno spesso assunto comportamenti e caratteristiche antropomorfe
Nel Il Giovane Favoloso, film del 2014 diretto da Mario Martone incentrato sulla vita di Giacomo Leopardi e ripresentato in occasione del duecentesimo anniversario del celebre sonetto L’Infinito, due volte si vede il poeta che mangia un gelato di cui sappiamo era golosissimo come di altri dolci.
A Napoli la gelateria preferita da Leopardi è il Caffè Angioli di Via Toledo dove gusta coppe che in suo confronto, mingherlino e malaticcio, paiono gigantesche e in una di queste occasioni incontra per la prima volta il suo biografo, Antonio Ranieri che nella sua Notizia intorno agli scritti, alla vita ed ai costumi di Giacomo Leopardi (1857) narra anche che quando sente che sta per giungere la fine è un gelato l’ultimo desiderio che il poeta esprime e i medici, pensando che il freddo gli sia nocivo, nonostante si trovassero a Napoli alla fine di giugno, gli offrono una cioccolata calda.
Il 18 gennaio u.s. scorso, nella sala consiliare del Comune di Castiglione della Pescaia, ho presentato al pubblico un lavoro di indagine a difesa della pineta del Tombolo, accompagnato da 54 diapositive, affrontandone diversi aspetti, che l’ottimo resoconto pubblicato dal quotidiano locale ovviamente non poteva riportare tutti. Il tema della difesa della Pineta del Pino Domestico è oggettivamente difficile. Diversi studi pubblicati anni fa da autorevoli forestali hanno segnalato la necessità di una gestione unitaria, ma per vari motivi nulla è stato fatto e oggi le Istituzioni scientifiche potrebbero aiutare la Politica a compiere le scelte urgenti e necessarie.
Senza avere la pretesa di essere esaustivo, di seguito, elenco per punti i problemi che si devono urgentemente affrontare. Non sono in un ordine di importanza, né sequenziali o immediatamente collegabili:
L’articolo apparso la scorsa settimana a firma del Presidente dei Georgofili Massimo Vincenzini – I Georgofili e l’agricoltura – ha riproposto con benevola fermezza un punto essenziale della storia dei Georgofili. Fin dal primo secolo di attività, quando il progredire delle scienze e tecniche applicate all’agricoltura aprirono un grande divario nei confronti delle secolari pratiche in uso nelle campagne, l’Accademia dei Georgofili assunse una posizione che mantiene un certo interesse. Di fronte a quanti tendevano a identificare la “scienza” (e la specializzazione scientifica) come il nuovo paradigma del secolo anche in campo agricolo, i Georgofili non abbandonarono mai la consapevolezza che l’agricoltura è anche “arte”, ovvero il saper fare pratico o quello che oggi chiamiamo direzione aziendale. In quel binomio di “scienza e arte” stava la sintesi del metodo dei Georgofili. Un metodo inclusivo dei saperi umanistici e scientifici. Citerò dunque qualche esempio significativo.
Alla vigilia del primo secolo di attività, l’annuale relazione fu tenuta da Marco Tabarrini che, vale la pena ricordare, era al tempo sia segretario degli Atti dei Georgofili, sia Accademico della Crusca. In quell’occasione, il letterato georgofilo non poté trattenere il felice riconoscimento tributato ai Georgofili di aver fatto argine a un «moderno sofisma». Illustrando gli avanzamenti negli studi agrari, nelle scienze fisiche applicate all’agricoltura, nella pubblica economia e nelle scienze morali e politiche «senza di che l’economia non è altro che l’aritmetica del tornaconto», aveva soprattutto riconosciuto l’impegno ad arginare quella frantumazione del sapere che «d’ogni singola scienza volle far centro allo scibile». Varrà ricordare che “sofisma” significa, secondo la tradizione aristotelica, lo strumento di coloro che perseguono l’intento di apparire sapienti non di esserlo. E in che modo i Georgofili avevano operato? Coordinando i propri studi al «fine supremo della pubblica utilità, che è l’antica divisa della nostra Accademia» e conservando la «bella caratteristica del sapere italico … essenzialmente sintetico», che «dalle varie scienze fece discendere il gran concetto della verità intelligibile».
Rileggere questi passi oggi stimola una riflessione. Che cosa significa e che peso ha quel concetto di “verità intelligibile”? Naturalmente significa conoscibile, attraverso i vari metodi della ragione nei diversi campi. Vorrei tuttavia sottolineare che un “vero” accessibile dall’intelletto significa anche che esso sia qualcosa di comunicabile, direi quasi un bene scambiabile in una interazione tra interlocutori di un dialogo. E a conferma di questo compito essenziale delle «Accademie nei paesi liberi», Ubaldino Peruzzi affermava nel 1878: «apparecchiare lo studio delle questioni in una atmosfera serena e tranquilla innanzi che esse sieno portate nella turbinosa atmosfera parlamentare». Ed è forse proprio su questo punto che il mondo della Scienza dovrebbe interrogarsi.
L’Accademia dei Georgofili “si propone di contribuire al progresso delle scienze e delle loro applicazioni all’agricoltura in senso lato, alla tutela dell’ambiente, del territorio agricolo e allo sviluppo del mondo rurale. Non ha fini di lucro e svolge attività di rilevante interesse pubblico”. Così recita l’art. 1 del vigente Statuto. L’Accademia ha anche aggiornato la definizione del termine agricoltura: “gestione e tutela razionale delle risorse produttive rinnovabili della biosfera”.
Per adempiere agli scopi statutari, l’Accademia, nel corso degli oltre due secoli e mezzo di vita, ha provveduto ad adeguare organizzazione e metodi del proprio lavoro per rispondere alle mutate esigenze dei tempi. Tuttavia, il ruolo svolto dall’Accademia è rimasto immutato: i Georgofili raccolgono nuove acquisizioni scientifiche e nuove idee, per approfondirle e discuterle anche pubblicamente. Da queste attività essi traggono aggiornate sintesi da divulgare, ponendole all’attenzione di coloro ai quali spetta il compito di utilizzarle a fini economici e sociali, secondo scelte politiche responsabili. Questo è il significato del motto che compare nel nostro storico stemma: Prosperitati publicae augendae.
Guardando all’intensa attività svolta nel tempo dai Georgofili risulta quindi chiaro l’importante ruolo civile dell’Accademia, che si è fatta interprete di una equilibrata funzione di raccordo tra scienza e società, con particolare attenzione alle imprese agricole, al reddito degli addetti in agricoltura e all’opinione pubblica, sempre ribadendo l’intrinseco valore polifunzionale delle attività agricole.
Il nostro Presidente Onorario Franco Scaramuzzi, scomparso di recente dopo essere stato alla guida dell’Accademia per quasi tre decenni, ha più volte, anche in dibattiti pubblici, sostenuto che “l’agricoltura dovrebbe essere considerata nel suo insieme, non solo per ragioni etimologiche [agricoltura come complesso sistema agro-silvo-pastorale], ma anche perché ha bisogno di una maggiore forza unitaria per farsi ascoltare con la dovuta attenzione”.
Anche le aggettivazioni che spesso affiancano la parola agricoltura, oltre a generare confusione nell’opinione pubblica, indeboliscono l’agricoltura anziché rinforzarla.
Zamponi e cotechini oggi hanno schede nutrizionali che consentono la loro inclusione in un’alimentazione razionale ed equilibrata, anche perché rispetto al passato hanno ridotto in misura considerevole il contenuto in grassi e anche in sodio. Dopo un carnevale con pesanti e rossi zamponi e cotechini meglio mettersi a dieta con una leggera e bianca mozzarella? Non è proprio il caso, considerando che contrariamente alle apparenze questi due cibi hanno un profilo dietetico molto simile. Un etto di zampone cotto ha 262 chilocalorie e contiene 23,7 grammi di proteine, 17,5 grammi di grasso e 0,6 grammi di sodio, e sempre un etto di mozzarella ha 253 chilocalorie, 18,7 grammi di proteine, 19,50 grammi di grassi e 0,2 grammi di sodio, senza considerare che è più facile mangiare due etti di mozzarella che due etti di zampone.
I cambiamenti climatici in atto stanno stressando i nostri animali in allevamento, in particolare i polli, con conseguenze negative sul loro benessere, stato di salute ed efficienze produttiva e riproduttiva. Inoltre, nel tentativo di ridurre il calore prodotto nella utilizzazione metabolica dei nutrienti, i nostri polli tendono a ridurre il consumo degli alimenti, con il risultato di vedere precipitare le efficienze di conversione alimentare. I rimedi consigliati per ovviare o, per lo meno, per attenuare il danno da stress termico sono fondamentalmente due: migliorare geneticamente gli animali verso soggetti più tolleranti le alte temperature oppure agire sull’alimentazione. Il secondo rimedio è senz’altro meno efficace ma è di immediata pratica applicazione.
Dopo gli anni ruggenti della globalizzazione sembrava che la tipica alternanza di fasi di grandi aperture agli scambi commerciali e di altre, all’opposto, caratterizzate da improvvisi ritorni al protezionismo ed a spinte autarchiche si fosse ripresentata improvvisamente. In realtà non è esattamente così, anche se le grandi sfide sui dazi che coinvolgono economia e politica ne sembrano la prova.
Chi è contrario al libero scambio, oltre a resuscitare i dazi, propone una serie di alternative che dovrebbero sconfiggerne gli eccessi introducendo forme di scambio basate su volumi più contenuti e modalità più etiche. Una di esse, dotata di un indiscutibile richiamo, è il localismo e cioè la riconduzione degli scambi ad aree e a dimensioni degli affari più ridotti e legati a specifici ambiti territoriali. I prodotti tipici di specifici territori con le denominazioni di origine protette si muovono in questo senso.
Ma, come spesso accade, non sempre ciò è vero perché la realtà, specie in economia, è molto più complessa di quanto si creda. Prendiamo il caso dell’aperitivo analcolico in bottiglietta, leader di mercato, il Crodino, riportato alla cronaca in questi giorni.
Lo produce il gruppo leader delle bevande alcoliche in Italia e al sesto posto al mondo: Campari, con un fatturato nel 2018 di 1.711 milioni. Fondato nel 1860 è una delle non numerose multinazionali italiane, anche se la sede è in Lussemburgo per ragioni comprensibili. Nella sua crescita avvenuta sia per via interna, con incrementi di produzione e di fatturato, sia attraverso acquisizioni e fusioni, la Campari ha agito in tutti i comparti delle bevande sia alcoliche, con superalcolici, aperitivi, vini sia analcoliche, incluse le acque minerali. Una serie di operazioni di recente ne ha delineato meglio la configurazione. Ha acquistato prestigiosi marchi internazionali e nello stesso tempo ha ridotto sia i vini sia le bevande analcoliche, concentrandosi su aperitivi e superalcolici di alta qualità. Fra l’altro ha ceduto nel 2017 alla danese Royal Unibrew, produttrice della birra Ceres, analcolici e acque che nel frattempo aveva acquisito dall’olandese Bols: Crodo Lisiel, Lemonsoda, Oransoda, etc. ottenute sia dalle acque di Crodo sia della Levissima. L’accordo esclude un solo prodotto, appunto il Crodino.
In vista della loro eventuale introduzione nella regolamentazione europea, da molte settimane la stampa italiana specializzata e ancor più quella riferibile ad alcuni settori politici, si è focalizzata nel confronto tra due diverse “nuove” facoltative forme visive di informazione sulla qualità e composizione degli alimenti.
Si tratta di due sistemi visivi volontari che andrebbero ad aggiungersi a quelle obbligatorie e facoltative, già presenti e codificate dai Regolamenti comunitari.
Il Nutriscore, proposto inizialmente dalla Francia, a cui ha dato il proprio assenso anche la Germania, la Spagna e Belgio, è già utilizzato in Francia dal 2016 e in Belgio e Spagna dal 2018.
La sua adozione a livello comunitario è stata proposta alla UE ma la relativa domanda è stata solo registrata il 30 aprile 2019 ma mai discussa, recepita od autorizzata (Decisione (UE) 2019/718 della Commissione, notificata con il numero C-2019- 3232).
Questa etichettatura, proposta dall'EREN, un gruppo di ricerca pubblica francese sulla nutrizione- guidato da un docente dell’Università di Parigi-13 insieme ad ISERM, INRA e CNAM, si basa essenzialmente sul punteggio nutrizionale FSA creato a suo tempo dall'Agenzia alimentare del Regno Unito. Questa proposta ha anche ricevuto un parere positivo da 5 esperti italiani nel settore (www.viedellasalute.it/)
Il Nutriscore, utilizza un “semaforo”, con lettera e colore associato per valutare globalmente il valore nutrizionale su 100 grammi di alimento integrando tra loro le quantità dei componenti l’alimento già presenti nella etichetta obbligatoria (energia, proteine, grassi, grassi saturi, carboidrati, zuccheri, fibra, sale). Quando le loro percentuali superano i limiti ritenuti come accettabili rispetto alla quantità giornaliera di assunzione raccomandata dalla EU, il colore risultante varierà, in gradazione, dal verde (altamente consigliato) al giallo, all’arancione, fino al rosso (altamente sconsigliato). Ciò dovrebbe consentire al consumatore una scelta ragionata.
La Nutrinform Battery è una proposta in corso di elaborazione con il contributo di quattro Ministeri: quello della Salute, degli Esteri, dell’Agricoltura e dello Sviluppo economico. Mentre sembra finalmente in dirittura di arrivo il decreto interministeriale per l’adozione su base volontaria in Italia dell’etichetta a batteria, il Governo italiano si propone di inviare a breve alla UE anche la richiesta di valutarla, come controproposta alla etichetta a semaforo Nutriscore, per una possibile introduzione come normativa europea. Essa in pratica traduce visivamente la tabella nutrizionale e prende in considerazione il fabbisogno energetico fornito da ogni singola porzione. La sua elaborazione in Italia proviene da un gruppo di studio composto dall’Istituto superiore di Sanità, dal Consiglio superiore dell’Agricoltura e dal CREA, in collaborazione con Federalimentare, Coldiretti e LUISS.
La Nutrinform Battery è composta da 5 Box indicanti rispettivamente: energia, grassi, grassi saturi, zuccheri e sale e suggerisce, per singola porzione ed all’interno di ogni box la specifica percentuale rispetto alla quantità giornaliera di assunzione raccomandata dalla EU. Ciò dovrebbe consentire al consumatore una scelta immediata ragionata.