“Piantare alberi significa pensare al futuro, perché chi pianta un albero, pianta la speranza”. È un messaggio che racchiude in poche parole quella che si può etichettare come una vera filosofia green quello del professor Francesco Ferrini, ordinario di Arboricoltura generale e Coltivazioni arboree all’Università di Firenze e autore di alcuni libri sull’argomento. È considerato un esperto mondiale di verde urbano.
Freschissimo di stampa è il suo “La Terra salvata dagli alberi”, scritto a quattro mani con Ludovico Del Vecchio. Il libro, edito da Elliot (192 pagine, 16 euro), spazia dagli aspetti scientifici (l’evoluzione delle specie, la distribuzione sulla superficie terrestre, l’intrinseca capacità di arrestare la catastrofe climatica) a quelli sociali (il contributo dei parchi e dei giardini nel favorire una pacifica convivenza tra cittadini), psicologici (i benefici del verde sulla mente) e culturali (come continua fonte di ispirazione artistica), per arrivare alle azioni virtuose quanto improrogabili che dovremmo adottare come collettività e come individui.
Un volume di facile lettura, che può essere letto come una guida per la creazione di una governance sia locale che internazionale nella gestione del verde urbano, con un invito rivolto a ciascuno di noi a intraprendere da subito una gentile “resistenza verde”.
Professor Ferrini, quali sono, in sintesi, i benefici delle piante, quelli meno noti?
“Le rispondo con un fenomeno che sicuramente hanno vissuto tutti nell’ultimo periodo. Terminata la fase di lockdown, la prima cosa che la gente ha fatto è stata quella di cercare i parchi, gli alberi, i prati. Lei stesso mi confessa che il verde, vivendo in città, le è mancato molto. Le piante non sono utili solamente per diminuire l’impatto dell’inquinamento, ma sono fonte di benessere anche spirituale”.
È vero che il rapporto col verde influisce anche con malattie neuro-degenerative come il Parkinson o l’Alzheimer?
“Recentemente è stata pubblicata una ricerca su Environmental Health che ha associato la vicinanza dell'abitazione a una strada trafficata all’incidenza di demenza non-Alzheimer, morbo di Parkinson, morbo di Alzheimer e sclerosi multipla. Lo stesso lavoro ha mostrato alcuni effetti positivi del verde nei riguardi dell’incidenza delle patologie.
Il contatto col verde è stato più volte collegato allo sviluppo cognitivo nelle prime fasi della vita e ciò può avere effetti a lungo termine nella funzione cognitiva negli adulti e nel declino cognitivo negli anziani.
È ovvio, ma lo ribadisco, che le piante non curano queste patologie irreversibili, ma certamente aiutano a vivere meglio. In particolare, il verde si rivela molto utile nella fase preventiva. Se miglioriamo il tasso di verde urbano, interveniamo direttamente per migliorare l’ambiente, ma indirettamente abbassiamo il tasso di persone colpite da Alzehimer e ne miglioriamo la vita”.
Il verde può contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici? Lei ha scritto di recente che “piantare alberi non basta”.
“Esatto. Piantare alberi non basta, ma è un’azione che deve inserirsi in una serie di strategie, dove la prima è ridurre le emissioni. Piantare alberi è fondamentale e importantissimo, ma gli alberi non possono fare tutto da soli. Dobbiamo essere noi a massimizzarne l’effetto”.
Ha calcolato quale dovrebbe essere la presenza degli alberi in città per migliorare il benessere delle persone e abbattere l’inquinamento?
“Non c’è una percentuale fissa, ma diciamo che almeno il 25-30% di copertura arborea dovrebbe esserci. Siamo ben lontani dal raggiungerla: le città difficilmente arrivano al 10-15 per cento. Alcuni dati positivi arrivano al 18% di copertura arborea, che significa che le chiome garantiscono una buona copertura delle superfici sottostanti, mentre percentuali intorno al 10% o, peggio ancora, inferiori, sono oggettivamente troppo basse. Bisogna però insistere, perché gli alberi possono cambiare le caratteristiche microclimatiche di un territorio, invece c’è chi pensa che un albero tagliato che ombreggia una casa può essere sostituito da un condizionatore in funzione”.
In Pianura Padana, dove dalle immagini satellitari emerge che non circola aria, bisognerebbe aumentare il numero di piante?
“Sì. La Pianura Padana è chiusa, produce essa stessa molti inquinanti e, per una strana corrente, si becca anche parte degli inquinanti proveniente da Germania, Austria, Polonia. Anche quando nel 1986 ci fu lo scoppio del reattore nucleare di Cernobyl, i venti portarono le scorie in Pianura Padana. È un catino di raccolta”.
Lei ha parlato in diverse occasioni di “Green City”. Qual è la direzione da prendere?
“Rendere le città verdi e in salute va ben oltre la semplice riduzione delle emissioni di CO2 e degli inquinanti attraverso misure di efficientamento e risparmio energetico o attraverso il trasporto urbano sostenibile, fattori fondamentali come strategie di mitigazione delle future perturbazioni ambientali, ma non sufficienti se non accompagnate da un aumento della copertura arborea delle nostre città.
Bisogna pianificare in modo che il verde non sia più al servizio della città, ma che la nuova città sia pensata al servizio del verde, con un cambiamento totale di paradigma. Ciò implica che, invece di considerare le piante e gli spazi verdi come un costo, questi dovrebbero essere trattati come beni comuni, e quindi investimenti, che danno valore dal punto di vista sociale, economico e ambientale e forniscono una moltitudine di benefici per le popolazioni urbane e non solo. Le aree verdi urbane possono contribuire a ricollegare la società alla natura e offrire uno spazio pubblico per la sensibilizzazione ambientale e l’educazione informale svolgendo, quindi, un ruolo sostanziale nel migliorare l’atteggiamento pro-ambientale dei cittadini”.
Qual è la sfida?
“La sfida è espandere strategicamente le foreste urbane e fornire alle nostre comunità, in particolare alle persone più vulnerabili, un ambiente più vivibile, più sano e più equo, ricordando sempre che uguaglianza è dare alle persone le stesse cose, equità è dare alla persone le stesse possibilità”.
Secondo lei nel mettere a dimora il verde è bene privilegiare le specie autoctone?
“Sì, si dovrebbe partire dal territorio. La prima scelta deve ricadere su specie autoctone, che siano del luogo o dell’areale più ampio, fermo restando che in città ci sono condizioni particolari per le quali può essere che, in determinati frangenti o in specifiche collocazioni, piante esotiche diano performance migliori. Conosco bene Mantova, che un anno e mezzo fa ha ospitato il primo Forum mondiale delle Foreste Urbane, e il distretto florovivaistico di Canneto sull’Oglio, che produce specie sia autoctone sia provenienti anche da altri areali, come alcune tipologie di latifoglie. La prima scelta deve cadere su quelle autoctone, tenendo presente che bisogna analizzare diversi parametri come le performance di sequestro e stoccaggio di CO2 e l’abbattimento degli altri inquinanti, il tasso di crescita, l’estetica. Ma abbiamo una tale biodiversità che ci consente di spaziare fra diverse scelte, dando priorità alle specie autoctone”.
Esistono i diritti degli alberi?
“No, ancora non esistono, ma ritengo che oggi qualcosa si potrebbe fare. Ci sono i diritti degli uomini, degli animali, credo che si debba arrivare a prevedere anche i diritti degli alberi, che però, non cadiamo nell’equivoco, non devono essere assimilati all’uomo o agli animali e quindi hanno specificità diverse. Tuttavia, quando studiamo perché un albero deve essere mantenuto, dobbiamo tenere presente che parliamo di essere viventi che danno moltissimo rispetto al nulla che diamo noi in cambio”.
Quale messaggio lanciare al mondo agricolo e alle istituzioni, in primis i comuni, per città più verdi?
“Che piantare alberi è pensare al futuro. Non possiamo pensare di continuare a edificare e impermeabilizzare le nostre aree urbane e ottenere risultati diversi da un aumentato rischio idrogeologico e da un peggioramento della qualità della vita. Dico anche che dovremmo essere più riconoscenti verso il verde e che dovremmo imitare la natura, che ha capacità di adattamento che l’uomo nemmeno si sogna. Basti pensare che gli alberi si sono evoluti in 380 milioni di anni e che riescono a resistere a condizioni ambientali non possibili per gli esseri umani: le piante possono vivere al sole e riescono a non traspirare, quasi in condizione di catalessi, senza acqua per mesi. Per l’uomo è impossibile”.
È vero che Ronald Reagan diceva che le piante inquinano?
“Sì. Voleva spingere il mercato delle auto, usando pro domo sua una cosa in parte vera. Cioè che ci sono piante che, soprattutto, in condizioni stressanti producono composti volatili e inquinanti come isoprene, limonene, limonoterpeni. Sono composti organici volatili come il profumo di agrumi o di pino, che le piante anche naturalmente producono e si legano agli ossidi di azoto che danno origine all’ozono. Ma questi prodotti sarebbero inerti o, comunque, innocui se non si creassero le condizioni per farli legare agli ossidi di azoto. È, quindi, l’uomo che crea il problema dell’inquinamento, non le piante”.
Nella città stanno prendendo piede gli orti urbani…
“Ed è molto positivo. In Toscana diciamo: l’orto vuol l’omo morto, perché è faticoso. Io aggiungerei: però lo rende sano. Coltivare l’orto è appagante, riduce lo stress. Così come gli orti sulle terrazze e i balconi”.