Notiziario











La fillominatrice del Farinello bianco: "Microsetia sexguttella"

Una delle piante più diffuse, sia in ambiente urbano che nei terreni incolti, è il Farinello comune, Chenopodium album, pianta erbacea annua, polimorfa, che fiorisce da maggio a settembre e dai semi gli Atzechi ricavavano una farina, con caratteristiche simili a quelle della congenere Quinoa (Chenopodium quinoa). Le foglie alterne, lanceolate o romboidali, ricordano la forma della zampa di un’oca, da cui il nome assegnato al genere e, similmente a quelle di altre Chenopodiacee (Spinaci, Barbabietola) sono eduli e sono il pabulum prediletto delle larve dei Lepidotteri Nottuidi Trachea atriplicis e Lacanobia oleracea, nonché del microlepidottero Microsetia sexguttella.

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Miele pazzo

Con l’avanzare del commercio mondiale e soprattutto con il commercio elettronico è necessario conoscere la provenienza del miele, anche con un’analisi dei pollini e tramite un affidabile sistema di tracciabilità che permettano di garantire il tipo di nettare usato dalle api, soprattutto per evitare incidenti tossici da miele pazzo.

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La grande nebulosa del "vero o falso" ha inglobato anche la Scienza

Anche in Italia, come in molti altri contesti del mondo, si sta ragionando su di un tema che solo alcuni anni fa sarebbe stato impensabile: le informazioni false in ambito scientifico. Il problema non era del tutto sconosciuto, ma certamente era assai contenuto rispetto al dilagare delle informazioni di oggi che hanno messo sotto accusa la scienza e, soprattutto, hanno contribuito a destituire l'attività scientifica di ogni pretesa di verità oggettiva. Il dato scientifico viene criticato e sottoposto a dileggio come qualsiasi altro. Siamo quindi di fronte ad una "fine della scienza"? Il dato scientifico è opinabile di per sé, senza ricorrere alla faticosa dimostrazione sul piano sperimentale? Cosa è avvenuto di così importante da rompere un rapporto fiduciario che ha resistito per secoli? Sono alcuni degli interrogativi che Shanto Iyengar della Stanford University (California) e Douglas S. Massey della Princeton University (New Jersey) si sono posti, elaborando l'articolo che è apparso su PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences) del 26 novembre 2018.
Il titolo del loro lavoro è chiaramente esplicativo: "Scientific communication in a post-truth society" *. In altre parole, la nostra società è ormai proiettata a "superare o andare oltre" la verità; per questo motivo la comunicazione scientifica ne deve tener conto.
Abbiamo sostenuto, per molti anni -sin dalla fine degli anni '80 del secolo passato- che i ricercatori dovevano imparare a comunicare al pubblico i loro risultati, affinché alcune grandi tematiche a forte componente scientifica, ma di interesse generale, fossero ben comprese da tutti. Questo aspetto rimane valido, ma si è aggiunta una nuova questione che, se vogliamo, rende ancora più arduo il problema; si tratta della volontà di alterare la veritiera comunicazione dei fatti, così come praticato, con una certa frequenza, sia dai mezzi di comunicazione che da parte della politica, negli ultimi trenta anni. La domanda diviene pertanto: cosa è accaduto, durante gli anni '80, di così rivoluzionario da non consentire più un controllo adeguato sulla verità delle notizie comunicate? Nell'articolo citato l'accadimento fondamentale, negli USA, è rappresentato dall'affermazione delle TV via cavo e dal moltiplicarsi dei "Talk show". Contemporaneamente cessa il controllo, da parte della Commissione Federale per le Comunicazioni, sui programmi televisivi e radiofonici che vennero pertanto liberati dal vincolo di essere "factual and honest".
A partire dagli anni '90 anche Internet è diventato uno dei maggiori fornitori di notizie e informazioni e la sua influenza sul pubblico è stata amplificata dalla nascita dei "social media" come LinkedIn, Facebook, YouTube, Twitter, Instagram, Snapchat. A seguito di questi eventi è stato reso disponibile, a chiunque avesse accesso alla rete, un numero incalcolabile di dati e notizie, talmente elevato da rendere molto difficile -se non impossibile- la verifica della loro veridicità.

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L’olivicoltura in Toscana: fra passato e futuro

L’olivicoltura toscana da alcuni anni sta vivendo una profonda trasformazione legata ad un passaggio generazionale che vede il progressivo abbandono di vecchi oliveti locati in aree orograficamente svantaggiate ed un aumento di nuovi impianti in terreni dove, fino ad alcuni anni fa, veniva preferita la coltivazione di colture erbacee quali il frumento.

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Ruolo delle tecnologie e dell’Enologo nella produzione dei vini naturali

I Vini Naturali stanno riscuotendo un crescente interesse presso i consumatori più esigenti. Tale interesse può essere attribuito sia a fattori culturali ed emotivi (ritorno alla natura, origine da uve da coltivazioni biologiche e/o biodinamiche), sia al fatto che, effettivamente, alcuni vini naturali presentano caratteri sensoriali unici, non riscontrabili nei vini tecnologici o convenzionali.
Non esiste ancora un regolamento europeo di produzione dei vini naturali ma una Carta d’Intenti sottoscritta da diversi vignaioli italiani. Le regole del protocollo dei vignaioli italiani dei vini naturali sono ispirate a quelle della più antica confederazione francese: l’Association des Vins Naturels.

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Otto fasi per incrementare il carbonio nel suolo per mitigare i cambiamenti climatici e per la sicurezza alimentare

Il contenuto di carbonio nel suolo è oltre due volte quello contenuto nelle piante e altre biomasse ma, oltre un terzo dei suoli del mondo sono ormai degradati, limitando pesantemente la produzione agricola e riversando nell’atmosfera 500 gigatons (500 miliardi di tonnellate) di anidride carbonica: una quantità equivalente al carbonio stoccato da 216 miliardi di ettari di foreste. Questi sono dati veramente allarmanti sia in termini di degradazione ambientale, sia in termini di cambiamenti climatici ma ignorati dalla grande massa dell’opinione pubblica e largamente sottovalutati dai decisori politici e dai governi di quasi tutto il mondo. Per questo l’International Union of Soil Sciences, di cui fa parte anche la Società Italiana della Scienza del Suolo, si sforza di sensibilizzare l’opinione pubblica attraverso varie iniziative come, ad esempio, la proclamazione del “International Decade of Soils 2015-2024” e, a proposito di emissioni di gas serra, ha recentemente suggerito di impegnarsi formalmente ad aumentare gli stock di carbonio organico nel suolo attraverso il coordinamento e le attività relative alle seguenti otto fasi:
1.    Limitare le perdite di carbonio – Proteggere le torbiere (molto diffuse in larghe aree nel mondo come, ad esempio, nell’Europa Settentrionale) attraverso l'applicazione dei regolamenti contro gli incendi e il drenaggio. Altrettanto importante è la prevenzione degli incendi delle foreste;
2.    Promuovere l’assorbimento del carbonio – Individuare e promuovere le migliori pratiche per la conservazione del carbonio in modi adatti alle condizioni locali, anche attraverso l'incorporazione di residui colturali, rotazioni, colture di copertura, agroforestazione, lavorazioni in traverso in ambienti collinari (evitare le lavorazioni del suolo a rittochino), terrazzamenti, piante fissatrici di azoto e irrigazione;
3.    Monitorare e verificare gli impatti – Tracciare e valutare gli interventi con protocolli e standard armonizzati basati sulle conoscenze scientifiche;
4.    Diffondere la tecnologia – Utilizzare le opportunità high-tech per un monitoraggio più rapido, più economico e più accurato delle variazioni di carbonio nel suolo;
5.    Strategie operative – Determinare cosa funziona nelle condizioni locali utilizzando i modelli e una rete di siti sul campo;
6.    Coinvolgimento delle comunità – Integrare le conoscenze dei cittadini con quelle scientifiche per raccogliere dati e creare una piattaforma online aperta per la condivisione;
7.    Politiche coordinate – Integrare il contenuto del carbonio nel suolo in linea con gli impegni nazionali sul clima dell'accordo di Parigi e altre politiche sul suolo e sul clima;
8.    Fornire supporto – Garantire agli agricoltori assistenza tecnica, incentivi, sistemi di monitoraggio e tasse sul carbonio per promuovere un'implementazione diffusa.

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La cultura del bosco: tradizione e modernità

Il tema proposto non è affatto semplice e di non facile sintesi. Ho chiesto aiuto al dizionario della lingua italiana Devoto – Oli in cui la cultura si identifica nel complesso delle acquisizioni spirituali di un ambiente determinato ovvero la sintesi armoniosa delle cognizioni di una persona con le sue esperienze. Trasferendo questo concetto al soggetto bosco mi sono chiesto: l’ambiente determinato, cioè il bene comune bosco, ha fornito e fornisce ancora acquisizioni e cognizioni spirituali capaci di creare la sintesi armoniosa tra conoscenze, esperienze e sensibilità?
Vedo quella sintesi spirituale attraverso la selvicoltura che rappresenta la scienza impegnata nell’individuazione del più armonioso compromesso tra uso (beni e servigi) e conservazione delle funzionalità dell’ecosistema bosco, nell’ambito di un’accurata analisi della dinamica degli stadi evolutivi di questo.
L’uomo si è arricchito, in funzione delle conoscenze del momento, nella comprensione del ruolo della foresta che, con la sua presenza ed il suo uso, recava servigi e benefici al proprio benessere ed alla propria sopravvivenza. Questo arricchimento è indispensabile, oggi più che mai, per la corretta gestione di un territorio così variegato per le condizioni eco-stazionali, per le tipologie forestali, per quelle socio-economiche che sono tra loro interconnesse, caratterizzanti un’area come quella in cui la foresta modello è inserita in toscana.
Desidero riprendere alcuni spunti da quanto scritto da William Bryant Logan (arboricoltore, paesaggista, storico) nel suo libro La quercia. Storia sociale di un albero. A questo albero (genere quercus) è stata attribuita massima importanza in quanto capace di insegnare all’uomo i segreti della selvicoltura. Nel volume ne viene narrata la sua socialità intrinseca e come rappresentante di tutti i boschi, è individuato come idiotipo dell’espressione massima del rapporto di socialità tra l’uomo ed il bosco in quanto manifesta forse la massima flessibilità d’uso mostrando, nella non specializzazione, la sua specialità.  
Nel passato quasi tutto ciò che serviva all’uomo, la casa e la città, il carro, l’aratro, la nave, il barile era realizzato con il legno. Ma nel bosco era riposta anche la spiritualità in quanto regno delle forze del bene e del male, scrigno dei simboli di fertilità e di morte, luogo sacro sede di oracoli ed incantesimi. In effetti i rapporti uomo/foresta sono stati e lo sono ancora oggi, molto contrastanti.

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Post-verità in tavola

Post-verità o post-truth o “oltre la verità” è la parola dell’anno 2016 dell’Oxford English Dictionary e identifica una notizia che, spacciata per autentica, sarebbe in grado di influenzare una parte dell'opinione pubblica, divenendo di fatto un argomento reale, dotato di un apparente senso logico e questo toccando emozioni o sollevando pregiudizi. Infatti l’Enciclopedia Treccani definisce post-verità un’argomentazione caratterizzata da un forte appello all’emotività che basandosi su credenze diffuse e non su fatti verificati tende a essere accettata come veritiera, influenzando l’opinione pubblica. Sebbene questo fenomeno abbia origini antiche, attraverso la pubblicità e i social media la possibilità di diffusione di questo tipo di falsità disinformativa è aumentata in modo esponenziale coinvolgendo anche argomenti delicati come l’alimentazione.

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Non basta la coscienza ambientale. Non c’è cambiamento senza conoscenza

In questi giorni mi ha colpito una citazione di Pasolini, sentita in radio, che poi ho scoperto essere errata pur se, in quel momento, suonava perfetta, tanto che, parafrasandola l’ho scelta come titolo di questo articolo. Nel cercarla, mi sono imbattuto in un’altra sua citazione: «La vita consiste prima di tutto nell’imperterrito esercizio della ragione. Meglio essere nemici del popolo che nemici della realtà» (da I giovani infelici. Lettere luterane, 1975). Pur essendo stata scritta 42 anni fa questa frase mi è parsa straordinariamente attuale.

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Vini naturali: informazioni per i consumatori

Fino a 10 anni fa era impensabile parlare di vino naturale come di un prodotto che poteva fare tendenza sul mercato, oggi, invece, se ne parla ovunque ed è sicuramente una di quelle tendenze che riescono a muovere masse e mercati.  Ma quali sono le informazioni che hanno i consumatori sui vini naturali?
E’ lecito porsi questa domanda quando si tratta di un argomento che è spesso controverso. Da qualche anno, infatti, tra gli addetti ai lavori è in corso un dibattito sulla correttezza o meno di affiancare il termine naturale alla parola vino. Poiché non esiste una normativa che disciplina la materia, accostare al vino il termine naturale, può contribuire a rendere poco chiare le idee al consumatore e rischiare, invece, di render banale tutto il lavoro, la dedizione e le convinzioni etiche che ci sono dietro la produzione di questi vini.
Una definizione non troppo semplice, ma che neanche rischi di banalizzare l’argomento, può aiutare a delineare il campo: un vino è naturale quando per ottenerlo, l’intervento dell’uomo sia in vigna che in cantina, si limita al minimo indispensabile.
La produzione di un vino naturale vuole essere l'espressione naturale di un terroir, di un gusto che deriva da una vinificazione avvenuta in maniera del tutto naturale.  Un vino è naturale quando viene realizzato partendo dalla produzione di uve biologiche, mediante fermentazione spontanea del mosto, senza aggiunta di altre sostanze, fatta eccezione, eventualmente, per piccole quantità di anidride solforosa; i trattamenti sono ridotti al minimo ed impiegati solo se strettamente necessari o, addirittura, non impiegati affatto. È quindi in vigna che nasce il vino naturale, stimolando la crescita delle piante senza forzarne la produttività ed aiutando il terreno a mantenere la propria naturale fertilità. E’ sostanzialmente un ritorno ai metodi di vinificazione dei nostri avi prima che l’avvento della tecnologia contribuisse, da una parte a semplificare il lavoro dei viticoltori, ma dall’altra a determinare il verificarsi di alcuni difetti, come l’appiattimento del sapore e la perdita di carattere.
Il consumatore oggi, di fronte al continuo bombardamento mediatico che tratta allo stesso modo i vini naturali, biologici e biodinamici, certamente, se non è un consumatore esperto dell’argomento non può che trovarsi di fronte ad una grande confusione che si ripercuoterà, inevitabilmente, sulle sue scelte e sulle sue convinzioni, giuste o sbagliate che siano.

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Fuksas e i platani

Alla domanda “Qual è la sua paura più grande oggi?” la risposta di Massimiliano Fuksas ("Panorama", 21 novembre 2018, p. 70) è stata chiara: “Che mi cada in testa un platano sul Lungotevere”. Parole che impongono una profonda riflessione sul ruolo del verde urbano e sulla sua percezione da parte del cittadino.
In realtà gli alberi dei lungotevere sono piante maestose, autentici protagonisti tra i 330mila esemplari capitolini, ormai secolari, spettacolari in ogni stagione, destinati a ingentilire gli argini del fiume e, con i loro rami cadenti, “velare il biancore sfacciato dei nuovi muraglioni”, sì da rappresentare una delle classiche immagini associate alla Città Eterna. Geometrie naturali che, con le loro foglie, i rami, i giochi di luce, il rumore del vento, offrono al cittadino e al turista scorci sempre diversi, in quella che originariamente era destinata a rappresentare la passeggiata dei romani nella neonata Capitale (salvo trasformarsi nel tempo in mero caotico asse di trasporto), ma anche protagoniste delle più iconiche scene del cinema moderno. Presenze fondamentali nel magico panorama tiberino, essenziali per i loro servizi ecosistemici, ma al tempo stesso oggetto di polemiche e fonte di preoccupazione, questi platani. Scarsità di personale, mezzi e risorse economiche; incuria, carenze di manutenzione e scelte tecniche imbarazzanti (come non ricordare l’asfaltatura che ha ricoperto il marciapiede sino al colletto?); ambiente ostile (traffico, condizioni pedologiche pessime e asfissia radicale in primo luogo); traumi e lesioni quotidiane di varia natura a fusto e radici: sono questi i principali fattori che rendono difficile la vita degli alberi urbani, in perenne stato di emergenza. A ciò si aggiunga un vero killer del platano, il microfungo fitopatogeno Ceratocystis platani, agente del cosiddetto “cancro colorato”, il cui vettore fondamentale è … l’uomo con gli interventi di potatura con attrezzi infetti! La malattia è da tempo presente nei lungotevere e, nonostante sia tenuta sotto costante osservazione dal Servizio Fitosanitario Regionale, rischia di causare un’ecatombe in tempi rapidi.

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I rimboschimenti di pino nero: risorsa o problema?

Il 27 novembre si è tenuta presso l’Accademia dei Georgofili una giornata di studio sul futuro dei rimboschimenti di Pino nero che in Italia interessano circa 136.000 ettari distribuiti in varia misura praticamente in tutte le Regioni. La Toscana secondo l’IFNC (2005) ne ha oltre 11.000 ettari mentre il primato spetta alla Calabria con quasi 40.000 ha.
Si tratta dei risultati di una vasta attività, finalizzata per lo più alla difesa idrogeologica di territori collinari e montani, iniziata dopo il primo conflitto mondiale e proseguita soprattutto dopo l’ultima guerra. Oggi questi boschi si concentrano per oltre i 2/3 nella fascia di età che, secondo la normativa vigente in Toscana, è matura per la rinnovazione.

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L’Itinerario Italiano: Lorenzo Baroni e il suo “lavoro in corso”

Dell’arrivo in Accademia di un utile e corposo volumetto dava comunicazione il segretario degli Atti Giuseppe Sarchiani nell’adunanza del 5 marzo 1806, esprimendo compiacimento per il dono ricevuto da parte del suo autore, il georgofilo Lorenzo Baroni, socio ordinario dal 7 luglio 1802.
Si trattava della quarta edizione dell’Itinerario Italiano, uscito anonimo a Firenze presso Niccolò Pagni nel 1800; l’esemplare donato ai Georgofili, corretto e aumentato era stato prodotto sempre a Firenze dagli stampatori Tofani e Compagni nel 1805 ed era acquistabile nel negozio del “mercante di stampe” Niccolò Pagni presso la locanda dell’Aquila Nera.

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“Nuove” tecnologie per monitorare l’impatto ambientale sulla vegetazione: la spettroscopia

Il cambiamento climatico è ormai riconosciuto come una delle più gravi minacce ambientali, sociali ed economiche che il mondo si trova ad affrontare e le soluzioni al problema sono tanto chiare quanto oggettivamente difficili da raggiungere: ridurre le emissioni di gas responsabili del riscaldamento globale e adattarsi ai futuri scenari per diminuirne gli effetti sfavorevoli. Vi è poi da considerare il fenomeno della crescita della popolazione globale (che passerà dagli attuali 7,5 a circa 10 miliardi di abitanti nel 2050), con conseguente innalzamento repentino della richiesta agro-alimentare e la contestuale riduzione delle superfici coltivate. Queste sono sfide fondamentali per l’agricoltura e per i processi decisionali delle relative politiche agricole.
E allora rimbocchiamoci le maniche (!), ispirati dalle sempre attuali (seppur ormai ventennali) parole del Prof. Giovanni Scaramuzzi (Patologo vegetale dell’Università di Pisa), casualmente rinvenute durante la stesura del presente contributo: “L’innovazione tecnologica costituisce il «motore» potente dell’agricoltura, anzi di tutta l’economia nazionale. E l’agricoltura deve avere un futuro; oltre alla quantità, qualità e sicurezza degli alimenti, essa ha sulle proprie spalle anche altre pesanti responsabilità, quali la protezione del paesaggio, la salvaguardia dell’ambiente, il contributo alla vita rurale”. Effettivamente, l’innovazione tecnologica in agricoltura sta aprendo scenari e possibilità di cambiamento nella gestione delle comuni pratiche, difficilmente ipotizzabili fino a qualche tempo fa.
Adeguate tecniche di monitoraggio sono necessarie per diagnosticare l’impatto ambientale sulla vegetazione, nonché per valutare l’efficacia delle procedure adottate. I metodi tradizionali, che prevedono analisi fisiologiche e biochimiche di materiale vegetale campionato, possono essere precisi, ma presentano limitazioni, essendo mini-invasivi e/o distruttivi e richiedendo, solitamente, tempo e rilevanti risorse economiche. Approcci alternativi stanno emergendo grazie allo sviluppo di nuovi sensori, all’avanzamento delle capacità computazionali e al miglioramento delle metodologie (l’innovazione tecnologica!). In tale contesto, si inserisce la spettroscopia di vegetazione, una tecnica pratica ed efficace per la valutazione dell’interazione pianta/ecosistema-ambiente.

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Di alberi, uomini e linguaggi Spelacchiati

Che gli alberi siano organismi di intelligenza eccezionale, lo sappiamo. In questo assunto siamo sicuramente confortati da ricerche, più o meno recenti, che stanno mettendo in luce le loro incredibili capacità organizzative e comunicative. Ma il solo soffermarsi sul fatto che molte delle specie arboree che vivono nei nostri paesaggi contemporanei hanno iniziato la loro storia sul pianeta decine e decine di milioni di anni fa, ci può aiutare a comprendere quanto sia complessa e articolata la loro vita sociale. L’intelligenza degli alberi è profonda e spettacolarmente ricca di linguaggi e possibilità.
D’altronde, parlare con gli alberi è uno dei sogni, forse fra i più antichi, di noi esseri umani: gli individui e le popolazioni della nostra giovanissima specie (qualche centinaia di migliaia di anni, una minima frazione della traiettoria della vita sul pianeta) hanno sempre visto negli alberi simboli e risorse. Ammirazione per questi individui giganteschi e apparentemente eterni, rispetto per la loro prodigalità nel fornire risposte ai bisogni degli uomini. Alberi della vita, del bene e del male, alberi da cui trarre legno, legna, frutti o medicamenti. Oppure più semplicemente, alberi come luogo d’incontro in qualche remoto villaggio. Ammirazione, rispetto, compagnia.
Vorrei riportare due brevi esempi dell’importanza degli alberi nella storia degli uomini e della tensione a trovare linguaggi e sfere comuni. Nelle Finnegans Wake [1], alla domanda su quale sia “il nostro essere sovrano", Yawn descrive 'Oakley Ashe's elm', ossia l’olmo di Oakley Ashe, sintesi generatrice del femminile e del maschile. Ma sappiamo che, in questa sua sorprendente opera, James Joyce inventa continuamente, in una prospettiva polisemica, nuovi termini che sono a loro volta segni, simboli, sintesi. Non è probabilmente casuale che l’albero scelto da Joyce sia un olmo (elm), elemento maschile, ma anche un frassino (ash), raffigurazione del femminile, che poi è anche quercia (oak), albero sacro in gran parte d’Europa. Poco più avanti, nella narrazione - definita intraducibile- delle Finnegans Wake, l’albero si anima di movimenti, nello spazio e nel tempo: le foglie si rinnovano come pagine di lettere, in una concatenazione perpetua di bene e male, dalla notte dei tempi, e i rami danzano, uno e tutti, incontrandosi e stringendosi mani contorte.
Barbalbero (Treebeard), scrive Tolkien [2], è alto quattordici piedi (ossia quattro metri o poco più) e nell'aspetto è simile ad un albero, come tutti i suoi simili. Ha il fisico di un uomo, quasi senza collo, e sarebbe difficile dire se ciò che lo ricopre sia una specie di corteccia verde e grigia, o la sua stessa pelle. Sulle prime gli Hobbit notarono di Barbalbero soltanto gli occhi, occhi profondi che li osservavano, lenti e solenni, ma molto penetranti. Erano marrone, picchiettati di luci verdi.
Due narrazioni, fra le mille e mille possibili, della ricerca di un linguaggio, dell’ansia di comunicazione e di identificazione che gli uomini hanno sempre tentato di instaurare con gli alberi.
Joyce ha impiegato 17 anni per scrivere le 648 pagine delle Finnegans Wake. Curiosamente anche a Tolkien ci sono voluti 17 anni e 1260 pagine per scrivere il Signore degli Anelli, dove Barbalbero prende vita.
Di tutt’altro scrive, divertendosi e divertendoci, Carlo Maria Cipolla [3]. Parla di pepe e di stupidità ma, fra le altre annotazioni, vorrei cogliere un passo dove l’Autore dice che gli Antichi Romani erano notoriamente pratici. E anche parchi. È altrettanto evidente che anche i Nuovi Romani lo siano. In particolare per le parole.
Che c’entra questo?
C’entra, c’entra. Ai Romani sono bastati, infatti, pochi giorni per varare un neologismo dedicato a un albero.

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Un sacchetto di guai per la distribuzione e i consumatori

Il primo gennaio 2018 gli Italiani scoprirono che si riduceva la libertà economica e c’era una nuova tassa occulta. Era nato l’obbligo per i negozi di vendere i prodotti, in prevalenza frutta e verdura, in sacchetti ecologici a pagamento e per gli acquirenti di acquistarli negli stessi sacchetti. In quei giorni, come forse si ricorderà, vi fu un florilegio di notizie, commenti e pareri emessi da un’umanità variamente competente. Poi, con qualche mugugno, tutto rientrò nel silenzio e i consumatori iniziarono a spendere un centesimo o due in più ad ogni acquisto di ortofrutta, distinto per specie e varietà commerciale.

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La difficile via per nutrire correttamente l’umanità, salvaguardando il pianeta.

Il problema “nutrire la popolazione crescente e salvaguardare il pianeta” non è nuovo, neppure fra i miei interessi, per almeno due ragioni: la prima è che sono consapevole di come lo sviluppo integrale debba riguardare tutto l’uomo, ma anche tutti gli uomini (di ogni dove) compresi quelli del futuro; la seconda è che da zootecnico mi sono sentito “concausa della perdita di efficienza di molti alimenti, se destinati agli animali e non direttamente all’uomo”. Senza entrare in troppi dettagli, l’idea che mi sono fatto – su basi scientifiche che reputo sufficienti e di cui scrivo da anni – è che i prodotti di origine animale sono indispensabili per evitare problemi di malnutrizione (specie nei Paesi poveri), tuttavia è opportuno ridurli al minor livello possibile per evitare talune inefficienze e il non necessario ricorso agli animali.
Con questa premessa, si potrebbe dedurre che condivida l’accoglienza entusiastica del Prof. Amedeo Alpi per il lavoro pubblicato su “Elementa. Science of the Anthopocene” da parte di di un gruppo di ricercatori dell’Università di Lancaster, UK (Berners-Lee M. et al., 2018. Current global food production is sufficient to meet human nutritional needs in 2050 provided there is radical societal adaptation). V. http://www.georgofili.info/detail.aspx?id=9044
 
In realtà la mia posizione è ben diversa, ma non perché il loro argomentare sia per principio errato, bensì perché il predetto lavoro è frutto di una serie di semplificazioni che tendono a falsare il risultato e soprattutto la prospettiva.
In particolare:
-    nel momento in cui si parla di fabbisogni proteici pari a 0,75 g/kg di peso vivo, in teoria corretto per non provocare carenza, in realtà non si tiene conto della qualità aminoacidica e in particolare del fatto che questo valore minimo presuppone un buon bilanciamento fra proteine vegetali e animali (circostanza ben nota ai nutrizionisti). Allo stato attuale, queste ultime circostanze valgono solo per una parte e non certo maggioritaria della popolazione mondiale; inoltre, seguendo i suggerimenti del lavoro, il problema potrebbe amplificarsi. Pertanto sarebbe logico, almeno per prudenza, utilizzare fabbisogni ben superiori, che in realtà si deducono anche dalla stessa British Nutrition Foundation, citata nel lavoro, che in una tabella riporta i DRVs (Dietary Reference Values): 2000 kcal/die per l’energia di cui 50 % da carboidrati, non oltre 35 % da lipidi, mentre non si riportano le proteine; poiché l’alcool è sconsigliato, a rigor di logica, il restante 15 % dovrebbe essere rappresentato dalle proteine. In effetti, anche altrove si suggerisce che l’energia da proteine non dovrebbe scendere sotto al 10 % delle calorie, con preferenza per il 15 %; se dunque il fabbisogno energetico è intorno alle 2000 Kcal, le proteine dovrebbero fornire circa 300 kcal, quindi 75 g/die (valore che non è più così lontano dagli 81 g calcolati dai predetti autori come ingestione media giornaliera);
-    argomento analogo potrebbe essere introdotto per alcuni micro-nutrienti, in particolare per il ferro per il quale è semplicemente fuori luogo equiparare la fonte vegetale con quella animale (carne), ma non tedierò oltre il lettore;
-    con una qualche sorpresa ho poi constatato che vengono inserite fra le perdite (di energia, proteine ecc.) le quote non utilizzabili di erbe varie e sottoprodotti fibrosi, mentre in realtà si dovrebbe parlare di un guadagno, di quanto reso disponibile, in quanto derivante da materiali altrimenti inutilizzabili dall’uomo;
-    pure sorprendente la circostanza che non si sia tentata alcuna differenziazione fra paesi dove si pratica un’agricoltura di sussistenza (circa 1/3 della popolazione mondiale e delle terre coltivate), rispetto a quella più o meno intensiva; la prima si caratterizza  per l’esiguità dei prodotti animali – da cui malnutrizione – ma anche perché, in prospettiva, si può pensare ad un aumento della loro produttività senza i rischi ambientali dei Paesi dove è già oggi intensiva;
-    noto infine che a pag. 7 (“future scenarios”) gli autori, adducendo una ragione discutibile: “future yields increases are unpredictable”, fanno una scelta che, senza mancare di rispetto, oserei definire “dello struzzo”, cioè usare i dati produttivi del 2013. Ciò anche perché, nel recente Report OECD-FAO Agricultural Outlook 2018-2028, si parla di un aumento prevedibile della produzione agricola mediamente pari al 20 % e – guarda caso - riferibile soprattutto ai Paesi meno sviluppati, grazie a una intensificazione sostenibile che – anche per gli animali – può significare differenze enormi in termini di efficienza; aspetto che, i predetti autori, neppure adombrano utilizzando al contrario i valori più penalizzanti per le produzioni animali;
-    non posso poi esimermi dal rimarcare che i quattro autori sono tutti appartenenti a     strutture universitarie di tipo sociologico e ambientale, da cui il sospetto che le loro     competenze, almeno nutrizionali e agricole, siano soltanto approssimative.

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“Premio CREA - Giampiero Maracchi 2018” sui temi dell’agroclimatologia

Il “Premio CREA - Giampiero Maracchi 2018” è istituito allo scopo di incentivare nei giovani la passione per la Ricerca. Possono partecipare ricercatori italiani che abbiano pubblicato un lavoro sul tema dell’agroclimatologia, su rivista internazionale con IF.
Il lavoro deve essere stato pubblicato nel 2018 (o accettato entro dicembre 2018).
Il termine per la presentazione delle domande è fissato al 31 gennaio 2019.
Il premio dell’importo di € 2.000,00 sarà assegnato a giudizio insindacabile della Commissione.
La premiazione avverrà in occasione dell’Inaugurazione del 266° Anno Accademico dei Georgofili e il vincitore riceverà comunicazione dal Presidente e dovrà essere presente alla Cerimonia.

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