Al link https://www.georgofili.it/contenuti/fonti-proteiche-e-impatto-ambientale-dei-sistemi-zootecnici/8285 è disponibile la registrazione video dell’incontro su "Fonti proteiche e impatto ambientale dei sistemi zootecnici" che si è svolto il 20 maggio u.s., ispirato dalle accuse mosse, in più ambienti, alle attività zootecniche, accusate di essere le principali responsabili delle emissioni di gas serra. Sempre sul sito istituzionale, è disponibile anche la registrazione video dell’incontro "Canapa, l'attualità di una pianta di grande tradizione colturale" del 25 maggio u.s. al link: https://www.georgofili.it/contenuti/la-canapa-lattualit-di-una-pianta-di-grande-tradizione-colturale/8273. L'incontro ha voluto promuovere un confronto sui risultati ottenuti e sui nodi ancora irrisolti della filiera canapa per non farsi trovare impreparati nelle sfide del futuro e nel ruolo che questa pianta può avere verso la transizione ecologica. Infine, al link https://www.georgofili.it/
Ci giunge notizia di un progetto che stanno portando avanti alcuni ricercatori della Norwegian University of Life Sciences, di Ås (Oslo) riguardo ad un nuovo metodo che impiega batteri denitrificanti, capaci di organicare la CO2 utilizzando per il salto energetico a carboidrati non l’energia solare, ma quella ottenuta dalla denitrificazione batterica dei nitrati. La ricercatrice Linda Bergaust è la responsabile del progetto, ideato dai professori Lars Bakken e Svein Jarle Horn.
Che alcuni batteri anaerobi possano “respirare” i nitrati invece dell’ossigeno non è una novità, tuttavia la notizia è che si sta studiando di sfruttare questa peculiarità metabolica per produrre sostanze organiche da impiegare come alimenti per uso umano e animale, farmaci, plastiche biodegradabili.
Una vita sempre più urbanizzata e la recente progressiva presa di coscienza di un cambiamento climatico in atto portano a considerare la necessità di un nuovo equilibrio tra la società umana e l’ambiente e anche a desiderare una natura spesso solo sognata e non di rado, tra il turbinio delle più diverse diete, tra queste spunta anche la Dieta Paleolitica secondo la quale dovremmo mangiare naturale come i nostri antenati. Un’idea a prima vista non stravagante che si rifà al principio di Theodosius Dobzhansky (1900 – 1975) “Nothing in biology makes sense except in the light of evolution” (niente in biologia ha senso se non alla luce dell’evoluzione) e quindi anche l’alimentazione umana avrebbe un senso solo se fosse quella risultante dall’evoluzione dei nostri antenati nel periodo paleolitico, ma qual è l'evidenza della dieta e dell'alimentazione e della salute umana paleolitica prima dell'adozione dell'agricoltura? Purtroppo estremamente limitati sono i dati e abbiamo soltanto un quadro molto parziale delle diete dei tempi passati che restano in gran parte ancora ignoti anche nei loro rapporti con le condizioni ambientali. Molto diverse sono anche le popolazioni di ominidi che ci hanno preceduti e loro stili di vita, dalla prima comparsa della nostra linea genetica in Africa circa quattro milioni di anni fa, fino all’adozione dell'agricoltura iniziata circa diecimila anni fa.
In base ai cambiamenti nella morfologia del cranio, della progressiva riduzione della mandibola e per l'aumento della dimensione del cervello nel corso dei millenni si può ragionevolmente ritenere che in un’alimentazione e onnivora nella linea Homo vi possa essere stato un aumento del consumo di carne. Poiché questa conclusione si basa su analogie con primati viventi non si può escludere che vi sia anche stato un crescente uso di alimenti vegetali ricchi di energia. Non bisogna dimenticare che una evoluzione con il completo passaggio a una stazione eretta bipedale e uno sviluppo del cervello portano ad avere bisogno di molta energia che può essere raggiunto con una grande adattabilità e variabilità alimentare e anche con un significativo apporto di alimenti provenienti da ogni tipo di animali. La linea Homo negli alimenti d’origine animale e non nei vegetali si procura il ferro in forma facilmente assimilabile, la vitamina B12 e due acidi grassi essenziali, docsaesaenoico e arachidonico, essenziali per lo sviluppo del cervello. Le migliori fonti di questi due acidi grassi sono il midollo osseo e il cervello degli animali (ma anche dei suoi simili) e il loro consumo avrebbe facilitato l'espansione delle dimensioni del cervello e l'aumento della capacità cranica.
Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte canta Gianni Morandi nel 1962, una canzone con il testo di Franco Migliacci, quando il latte era uno solo e lo si comprava in latteria. A quel tempo non vi erano i vegani che vogliono nessun latte e soprattutto non vi erano i centomila diversi tipi di latte che oggi ve-diamo negli scaffali dei supermercati: crudo, appena munto, fresco, pastorizzato, stassanizzato, UHT, omogeneizzato, microfiltrato; a breve, media o lunga conservazione; intero, parzialmente scremato, scremato o magro, diluito; senza lattosio, HD (High Digestibility) ad alta digeribilità; funzionale o potenziato arricchito con vitamine, proteine o calcio; integrato con fibra solubile, ferro, grassi Omega 3, pappa reale; vaccino, di capra, di pecora, di bufala, di asina; di kefir; di alta qualità, biologico, fermentato; di fieno (Haumilch), gusto di una volta; concentrato, evaporato, in polvere; per cappuccini; confezionato in bottiglie di vetro, plastica, contenitori delle diverse forme di materiali poliaccoppiati; senza dimenticare le bevande vegetali sostitutive del latte. A tutti questi latti ora si aggiunge il Latte A2 o Latte Betacaseina A2.
Mangeremo la carne di animali alimentari con farine di insetti e, chi lo vorrà lo potrà fare, mangeremo anche noi, direttamente, manicaretti a base di insetti. In ogni caso, sembra che, dal punto di vista nutraceutico, siano meglio gli insetti adulti delle larve. Grazie alla chitina.
Due sono i grandi pregi degli scritti della senatrice, Elena Cattaneo professoressa di farmacologia all’Università di Milano. I concetti da lei illustrati sono in primo luogo, espressi in modo molto chiaro e ovviamente, in secondo luogo e soprattutto, “scientificamente sicuri”. Gli argomenti che tratta in questa pubblicazione toccano un ampio ventaglio di saperi. Ci limitiamo a quelli più strettamente connessi con l’attività agricola e l’alimentazione. Così a pag. 102 l’autrice, dopo aver premesso che molti prodotti «bio» in Italia hanno un prezzo doppio, talora anche triplo, rispetto a quelli ordinari, precisa che l’enunciazione commerciale che tali prodotti siano preziosi per combattere malattie e inquinamento solitamente è solo una “favola … molto ben confezionata”. Aggiunge poi che uno studio recente molto approfondito su 500 alimenti confezionati e no, conferma questa sua asserzione quando nella conclusione si dichiara che “la certificazione «biologica» non può essere considerata un’indicazione di migliore qualità nutrizionale”. Sottolinea successivamente al riguardo che anche “le linee di indirizzo nazionale per la ristorazione ospedaliera, assistenziale e scolastica del Ministero della Salute affermano che il cibo da coltivazione biologica, non ha un miglior profilo nutrizionale e non è quindi più salutare rispetto a prodotti non coltivati secondo tale metodo”. La senatrice infine prosegue: “Se qualcuno si illudesse che per produrre cibi «bio» almeno non si usino pesticidi, rimarrebbe deluso: anche le coltivazioni biologiche se ne avvalgono, e il fatto che non siano di “sintesi” non serve a renderli meno pericolosi per l’uomo e l’ambiente”, ciò perché l’essere di sintesi non implica di per sé che un prodotto sia nocivo. Più avanti conclude lamentando “il rischio che le famiglie con limitate capacità di spesa possano credere nella «favola» che solo chi compra «bio» abbia a cuore la salute dei propri figli e la tutela dell’ambiente”, e quindi si sottopongano inutilmente al pagamento del sovrapprezzo proprio degli alimenti biologici. A pag. 98, infatti, ricorda che anche l’agricoltura biologica fa uso di pesticidi e tra questi anche quelli che inquinano il terreno con un metallo pesante molto più dannoso del glifosato… il rame! Questo è il componente dei pesticidi bio «naturali» più antichi e più utilizzati sebbene sia un metallo pesante che inquina molto di più, e sia molto più dannoso per uomini e animali di alcuni prodotti di sintesi, con funzioni analoghe. Le evidenze scientifiche, infatti, oltre a dimostrare la sua tossicità ne evidenziano la persistenza nel suolo per tempo indefinito.
Ma le incredibili follie elencate dalla nostra senatrice “armata dalla scienza” non si limitano a quelle che abbiamo qui sopra riportato. Ne indica altre ancora più gravi ed inspiegabili ...
Nel 2019 il consumo italiano di caffè tostato e macinato è stato di circa 304.000 tonnellate. Di questi, l'84% è stato utilizzato per preparare la bevanda sia a casa che negli uffici o nel settore alberghiero, ristorante, catering e dei distributori automatici. Il caffè tostato e macinato copre circa il 90% dei consumi, seguito dal caffè torrefatto in grani (6,7%) e dalle polveri di caffè istantaneo (3,3%), ed è confezionato principalmente in buste flessibili in poliaccoppiato (84,5%), seguite da lattine in acciaio (7,5%) e capsule o cialde monodose (5%). Nel settore del caffè monodose, la richiesta di capsule in alluminio è in crescita del +11% dal 2016, mentre è in calo quella di capsule in plastica e cialde in carta.
In un ns. recente lavoro si è determinata l'energia consumata per preparare una tazza di caffè (40 mL) utilizzando le principali caffettiere usate in Italia (ossia la Moka e le macchine per cialde o capsule), e si è effettuato uno studio di Life Cycle Assessment (LCA) per identificare le emissioni di gas ad effetto serra associate alle sole fasi di utilizzo e post-consumo in conformità al metodo standard Publicly Available Specification (PAS) 2050.
Il caffè preparato con la Moka ad induzione è risultato nettamente più eco-sostenibile di quello ottenuto con le macchine ad autospegnimento del caffè in cialde o capsule per un triplice motivo:
1) Il consumo di energia elettrica per una tazza di caffè da 40 mL preparata con la Moka è pari a 6.8 Wh contro i 12 Wh consumati dalla macchina per caffè in cialde o gli 8.5 Wh consumati da quella per il caffè in capsule.
2) La quantità di imballaggi (carta, plastica ed alluminio) da smaltire per singola tazza di caffè ammonta ad appena 0,5 g nel caso del caffè macinato per Moka in buste di poliaccoppiato da 250 g contro i 6,4 g nel caso del caffè in cialde od i 3,0 g nel caso della capsula tipo Nespresso.
3) L’impronta del carbonio di una tazza di caffè è pari a 48 g CO2e nel caso della Moka contro i 76 g CO2e nel caso del caffè in cialde ed i 61 g CO2e nel caso della capsula tipo Nespresso.
Nonostante il caffè in cialde od in capsule rappresenti un esempio di innovazione diretta alla cosiddetta consumer care (in quanto fornisce al consumatore il prodotto ed il sistema per prepararlo con buone caratteristiche qualitative e con un alto livello di replicabilità), le cialde o le capsule di caffè eludono l'altro aspetto dell'innovazione che punta alla sostenibilità ambientale, in quanto moltiplicano, rispettivamente, per un fattore 10 o 5 le quantità di rifiuti di imballaggi post-consumo.
Pubblichiamo integralmente la Nota realizzata dagli Accademici Raffaello Giannini e Enrico Marone, entrambi membri del Comitato Consultivo per le Foreste e il Verde Urbano, realizzata in occasione dell'Audizione alla Camera dei Deputati che si è svolta il 17 giugno 2021.
I Proff. Giannini e Marone sono intervenuti in relazione alla elaborazione di una proposta di legge su “Norme per favorire lo sviluppo e la valorizzazione della castanicoltura sostenibile, il recupero della coltivazione dei castagneti, la prevenzione dell’abbandono colturale e la promozione della filiera castanicola”, presentando un documento elaborato dal gruppo di lavoro dei Georgofili, intitolato "Valorizzazione dei soprasuoli di castagno in Italia" e pubblicato sul sito dell'Accademia (https://www.georgofili.it/contenuti/valorizzzione-castagno-italia/8275)
SCARICA QUI Nota audizione Camera 17 giugno 2021.pdf
Le città antiche sono ancora oggi caratterizzate dalla presenza di cinte murarie più o meno conservate. Pisa è un esempio di città sviluppatasi nel Medioevo dove è possibile rinvenire non soltanto mura storiche che circondano quasi completamente la città, ma anche di estesi manufatti come ad es. l’acquedotto mediceo, la fortezza Sangallo e i bastioni medicei. Le superfici murarie delle grandi infrastrutture storiche possono ospitare una flora rupicola specializzata in grado di crescere su substrati ecologicamente estremi.
Mai dare per scontato nulla. Ortofrutta uguale benessere. Sembra una banalità, un luogo comune. Ma non lo è. Leggo che un istituto di ricerca ha valutato i volantini di Iper, Super e Superette che promuovono prodotti salutistici e la scoperta – sgradita – è che di ortofrutta non si parla mai. Uno pensa: nel food salutismo fa rima con ortofrutta, quasi banale. In realtà sta di fatto che in quel caso si parlava di salutismo e l’ortofrutta non c’era. Solo un caso?
Il timore che il “Recovery Fund”, cioè il PNNR, preparato dall’Italia per accedere agli aiuti della transizione ecologica, possa dimenticarsi della situazione agricola italiana, esponendola alle negative (per qualcuno disastrose) conseguenze del reperimento di più energie rinnovabili, solari ed eoliche, è già stato ampiamente espresso in sede accademica e nel dibattito pubblico.
A questo si sono aggiunti i dubbi conseguenti alle misure che l’UE, con la strategia “Farm to Fork”, metterà in atto nel prossimo decennio per favorire la crescita del biologico, tanto che il dibattito su questo tema è stato ingenuamente “deragliato” sulla legittimazione del biodinamico. Non era questo, infatti, il problema principale, ma quello commerciale, finalizzato da parte dei coltivatori biodinamici a “prenotare” sussidi che avrebbero consentito di lucrare risorse attraverso l’imposizione sui mercati di marchi differenziati di prodotti “biodinamici”, pur essendo soltanto “biologici”.
Anche su questo problema abbiamo portato un contributo di chiarezza e comprensione, che ora intendiamo proseguire con la presente nota.
Sempre a partire dal filone di riflessioni sviluppate dall’Accademia dei Georgofili, lo scenario agricolo europeo, come noto, si aprirà agli aiuti previsti dalle strategie PAC del “Farm to Fork”, ma con una distinzione fra prodotti agroalimentari ben qualificati quali sono le eccellenze del made in Italy (vedi ortofrutta e vini), e prodotti alimentari di prima necessità, le cosiddette commodities (comprensive di cereali, leguminose proteiche (soia), bietole da zucchero, latte e derivati, ecc.) e come tali territorialmente indifferenziate, soggette al commercio internazionale globalizzato e a particolari gestioni finanziarie dei mercati come a contratti ad hoc (es. i future).
L’Italia ha tutto l’interesse a tutelare il primo dei due obiettivi (anche per difendere l’export), ma, col secondo, deve nondimeno garantire gli approvvigionamenti alimentari alla popolazione che, per oltre il 50%, si avvale già di prodotti importati da tutto il mondo.
Nelle attuali circostanze, la gestione della filiera alimentare italiana, non è controllata, se non in modesta parte, dalle APO e dai Consorzi di produttori, ma dai cosiddetti “potentati” delle GDO, fra le quali, con peso limitato, le varie Coop, Conad, Esselunga, in mano agli agricoltori.
Occorre anche precisare che la strategia europea a favore del biologico potrebbe rivelarsi inadeguata nei prossimi anni, perché un’eccessiva espansione delle colture biologiche, se non adeguatamene sostenute da aumento della domanda, potrebbe far diminuire i prezzi, fino a livello dei prodotti convenzionali, e perciò rientrare indirettamente fra le commodities che, per prassi, si combattono sulla competitività dei prezzi al ribasso, fino al limite del sottocosto.
La nuova PAC 2021-2027 prevede misure di incentivazione alla transizione ecologica e digitale, a favore dell’agricoltura biologica, del carbon farming, dell’agroforestazione, dell’agricoltura digitale di precisione, dell’ottimizzazione dell’irrigazione. L’agricoltura biologica dovrà di certo cambiare ed è possibile che ciò si rifletta pesantemente sulle commodities.
E allora gli ortofrutticoli? Certo, se si guarda alla realtà occorre un esame di coscienza. Le nostre imprese investono troppo poco nella promozione e nell’immagine, cosicché le vendite a basso prezzo potrebbero assimilare i prodotti ortofrutticoli italiani a delle commodities, le cui fortune dipendono dal costo del lavoro di filiera e degli imballaggi e comunque da tutta la logistica distributiva. I prodotti ortofrutticoli, per evitare questi ostacoli, dovrebbero poter contare su un marketing moderno, accompagnato da una narrazione del valore salutistico del prodotto. Dovrebbero essere attivate anche le organizzazioni interprofessionali (le OI), ora quasi silenti per la frutta, previste e incoraggiate dall’UE (e già assai attive in Francia) e invece osteggiate in Italia dalle principali organizzazioni dei produttori, che le vedono ingiustamente come loro competitor nella spartizione degli aiuti. La OI del pomodoro, per esempio, attivata da anni, sta funzionando bene.
Per l’ortofrutta occorre difendere la qualità, e mantenerla a livello superiore, per potersi imporre in Europa agganciando i prezzi dei prodotti Premium. La politica dei prezzi non può e non deve essere quella del ribasso generale vissuta negli ultimi anni. Relegare i prodotti italiani ai più bassi livelli della competizione significa sacrificare in primo luogo la qualità, i marchi e le certificazioni, che diventano così carta straccia.
Il Prof. Raffaello Giannini, Coordinatore del Comitato Consultivo Foreste e Verde Urbano, congiuntamente all’Accademico Prof. Enrico Marone, hanno partecipato, il 17 giugno u.s., ad una audizione della Commissione Agricoltura della Camera dei Deputati della Repubblica, in relazione alla elaborazione di una proposta di legge su “Norme per favorire lo sviluppo e la valorizzazione della castanicoltura sostenibile, il recupero della coltivazione dei castagneti, la prevenzione dell’abbandono colturale e la promozione della filiera castanicola”.
Sono stati illustrati i contenuti più significativi del documento conclusivo elaborato dal Gruppo di lavoro “La Valorizzazione dei soprassuoli di castagno in Italia” ed in particolare è stato sottolineato che punti fondamentali che dovrebbero essere evidenziati nel testo legislativo e che dovrebbero trovare riscontro nel suo articolato, riguardano la verifica della sostenibilità delle filiere castanicole che si intende promuovere a livello locale e l’individuazione delle più efficaci misure verso interventi tesi a favorire forme associative che aggreghino i proprietari di superfici castanicole, siano essi agricoltori IAP o semplici privati. Ciò rappresenta garanzia per una maggiore costanza ed omogeneità delle forniture alle industrie di trasformazione.
Le azioni e le misure dovrebbero essere orientate a evidenziare la tipicità, la qualità e il legame col territorio delle diverse produzioni, ma anche considerare la loro unicità e pienezza nelle funzioni e nei servigi diretti ed indiretti che i soprassuoli di castagno forniscono anche in considerazione del fatto che la loro gestione è realizzata quasi sempre dalla stessa componente umana.
Diventa così assolutamente prioritario, realizzare l’Inventario Castanicolo Nazionale, base di riferimento per un efficace supporto legislativo, ovvero analizzare con dettaglio il contributo economico, sociale e ambientale della “coltura” del castagno e quale ruolo e peso monetario eserciti sulla permanenza sul territorio dell’uomo in funzione anche delle interrelazioni con le altre filiere produttive
Il documento elaborato dal Gruppo di lavoro “La Valorizzazione dei soprassuoli di castagno in Italia”, è presente nel sito dell’Accademia dei Georgofili, al link: https://www.georgofili.it/contenuti/valorizzzione-castagno-italia/8275
All’arrivo dall’Americhe nel XVI secolo le “sorelle” solanacee del tabacco (Nicotana tabacun), patata (Solanum tuberosum), peperone (Capsicum anuum) e pomodoro (Solanum lycopersicum) non sono bene accolte, come nel VII secolo non lo era stata la loro “cugina” asiatica melanzana (Solanum melongena). Il pomodoro è considerato velenoso perché somiglia all'erba morella e Costanzo Felici (1525 - 1585) nel 1568 scrive “Al mio gusto è più presto belle che buono". Un secolo dopo lo svizzero Theodor Zwinger (1658 – 1724) nel suo erbario "Theatrum Botanicum" (1696) considera una stranezza che in Italia ci si nutra di pomodori, benché sia un alimento "malsano" e la cattiva fama del pomodoro continua per tutto il XVIII secolo quando Carl von Linné (1707 – 1778) nel 1753 lo denomina Solanum lycopersicum o pesca dei lupi. Inaspettatamente nel XIX secolo per il pomodoro in modo quasi improvviso tutto cambia.
A livello fogliare la fotosintesi netta aumenta in modo lineare con l’intensità luminosa (PPFD= Photosynthetic Photon Flux Density) fino al raggiungimento di uno stato stazionario denominato punto di saturazione. Questa soglia luminosa, oltre la quale la fotosintesi netta non mostra incrementi, è variabile con la specie, l’ambiente, lo stato idrico e nutrizionale delle foglie, ecc. Nel bacino del Mediterraneo si registrano spesso livelli di PPFD ben al di sopra dei valori saturanti e, in tali condizioni, le piante, non potendo evitare l’assorbimento di questo surplus energetico, possono andar incontro a fenomeni di fotoinibizione che, sommandosi ad altri stress (idrico, nutrizionale, termico, ecc.), potrebbe avere gravi ripercussioni sulla capacità fotosintetica e, quindi, sulla produttività, sull’accumulo di sostanze di riserva e sulla composizione delle uve.
Le polemiche intorno alle strategie politiche dell’agricoltura biologica mantengono vivo l’interesse dei Social e della stampa specializzata, anche a causa del tentativo di “estensione del biodinamico al biologico”.
Come è ben noto l’UE sosterrà il biologico, come obiettivo primario della strategia “Farm to Fork”, che mira entro dieci anni a far crescere le coltivazioni biologiche dall’attuale 8% della superficie agraria europea al 25% previsto nel 2030 (l’Italia è attestata ora al 15,8%). Si vuole così assecondare una tendenza dei mercati che vedono crescere, in generale, la domanda e il valore dei prodotti biologici e con ciò si vogliono premiare la tutela della biodiversità, le misure agro-climatiche in difesa dell’ambiente, gli investimenti degli agricoltori che hanno scelto questa nuova frontiera di agricoltura “amica della terra”. Non bisogna dimenticare che, così operando, si esclude dai benefici del biologico gran parte delle produzioni specialistiche del Made in Italy, in particolare il settore dell’ortofruttiviticoltura che segue i disciplinari della “produzione integrata”, nell’ecosostenibilità, in continua evoluzione per le innovazioni tecnologiche, recepite a garanzia del sistema.
L’equivoco comunicativo
Queste forti e motivate aspettative sul biologico hanno però creato un certo disorientamento fra gli operatori, mentre altre polemiche sono state conseguenti alla votazione della Commissione Agricoltura del Senato per l’inserimento nel DL in preparazione del biodinamico alla pari del biologico e quindi titolato a godere dei sostegni che l’UE elargirà alle produzioni biologiche.
Ma chiariamo subito che sono due problemi diversi, il primo riguarda il biologico ed è di carattere scientifico-tecnologico-organizzativo, il secondo (relativo al biodinamico) invece è di natura essenzialmente commerciale.
La Rivista di Frutticoltura, recentemente, con gli speciali “Produzioni sostenibili” n. 2/2020 e 2/2021, è intervenuta facendo chiarezza in proposito, per riportare le suddette tematiche ad una corretta comprensione.
Criticità della difesa biologica
Opinioni note. Le
misure offerte finora e prospettate in futuro dai PSR regionali sono
state ritenute insufficienti dalle associazioni dei coltivatori (es.
Federbio) al fine di poter aumentare le superfici – come vorrebbe l’UE –
tanto più che per alcune produzioni l’offerta europea supera già la
domanda di mercato, come sta avvenendo per le mele biologiche. La
qualità dei prodotti biologici deve in ogni caso essere salvaguardata e
non scendere al livello di “brutto e cattivo ma sano” (logica
improponibile). Occorre dunque rivedere ed aggiornare scientificamente
le basi teoriche dei disciplinari di coltivazione (soprattutto nel
settore biologico della difesa e della protezione da malattie ed
avversità). Sembra ragionevole la richiesta pervenuta da più parti di andare verso
sistemi innovativi di prevenzione e difesa dai patogeni promuovendo
anzitutto la ricerca sulla genetica delle resistenze e adattabilità alle
avversità (“attributi di resilienza”, come li definisce il Governo) e
per dare spazio alle novità che posseggono queste specificità. Altra
proposta è quella di valutare, senza preconcetti ideologici, benefici e
rischi dell’introduzione delle nuove biotecnologie (tipico esempio di
attualità il genoma editing, TEA, NBT e NGT) che, non essendo
equiparabili agli OGM, potrebbero rivelarsi arma di salvezza per
risolvere non pochi e gravi casi di insufficiente capacità protettiva da
parte dei presidi sanitari autorizzati dal biologico, come si constata
per varie colture frutticole di pianura.
L'Accademia dei Georgofili, l'Accademia Nazionale delle Scienze detta
dei XL, l'Accademia Nazionale di Agricoltura di Bologna, l'AISSA, la
FISV e la UNASA hanno sottoscritto il seguente documento per chiedere la
revisione dell’attuale formulazione del DDL 988, affinché non possa
costituire una legittimazione ingiustificata dell’agricoltura
biodinamica e possa consentire di utilizzare gli Strumenti di
Programmazione, di Ricerca e di Finanziamento inseriti nel capo V del
DDL anche per quelle pratiche esoteriche e prive di fondamento
scientifico, per le quali l’agricoltura biodinamica si distingue
dall’agricoltura biologica.
In particolare, l’articolo 1 comma 3 del DDL 988, prevede
un’equiparazione tra agricoltura biologica e biodinamica, andando
oltre la normativa UE che semplicemente consente l’uso di
preparati biodinamici in agricoltura biologica. La presenza nel
tavolo tecnico previsto nell’articolo 5 comma 3 di un
rappresentante dell’agricoltura biodinamica rafforza la nostra
preoccupazione ed è difficile da capire, in quanto la ratio del
legislatore dovrebbe essere solo quella di rendere possibile una
equiparazione di diverse forme di agricoltura a quella biologica,
quando queste rispettino i regolamenti in materia di agricoltura
biologica.
__________________
Scarica qui tutto il documento: Posizione condivisa AISSA_FISV_Accademie_ddl988_v2 AA (003).pdf
Quando nel 2002, l’Università degli Studi di Catania ha organizzato il
XIX Congresso Nazionale Italiano di Entomologia, quale insetto da
raffigurare in uno dei gaget, è stato scelto il Lepidottero Anthocharis damone.
poiché il Ropalocero, della famiglia dei Pieridi, è chiamato Aurora
dell’Etna, per la colorazione delle ali anteriori dei maschi che ricorda
l’aurora la cui luce, dorata, e talvolta rosea o purpurea, appare nel
cielo poco prima del sorgere del Sole. Il nome scientifico del genere
deriva dal latino "anthos" = fiore e dal greco "caris" = grazia, cioè
aggraziato come un fiore; mentre il nome specifico si riferisce a
Damone, un musico greco.
Che gli animali siano influenzati e possano apprezzare la musica non
deve stupire. Come nell’uomo la musica è un'espressione di stati d'animo
ed emozioni, con una storia di guarigioni fisiche ed emotive per le sue
azioni analgesiche e ansiolitiche, anche negli animali sono stati
documentati vari effetti della musica sul loro comportamento e
fisiologia, e la letteratura disponibile indica che esiste una
variazione tra gli animali per la preferenza musicale e il loro
comportamento.
Insieme
a lieviti, funghi e batteri, le microalghe vengono definite Single Cell
Protein (SCP), che rappresentano possibili fonti proteiche alternative,
avendo un contenuto in proteina che può considerarsi elevato, potendo
costituire il 45-55% nei lieviti, il 50-80% nei batteri e il 60-70%
nelle microalghe.
Mentre ci avviciniamo a 1,5 gradi di riscaldamento planetario, cresce la
consapevolezza che le foreste sono la migliore soluzione per rallentare
il cambiamento climatico poiché sono, al contempo, una strategia di
mitigazione del riscaldamento globale (riducono le emissioni e la
concentrazione di CO2 attuale) e di adattamento, principalmente
attraverso il rinfrescamento dell’aria e la prevenzione del
riscaldamento delle superfici. Ma soprattutto sono una soluzione basata
sulla natura.
Per questo motivo molti governi nazionali e locali
stanno lanciano campagne di forestazione di massa. Se non possiamo che
plaudire alle diverse iniziative (finalmente, verrebbe voglia di dire!)
dei governi locali e nazionali e anche di organizzazioni private che,
almeno a parole, si preparano alla forestazione/riforestazione di massa,
attraverso diverse iniziative ai diversi livelli, incluso il World
Economic Forum, rimane una grande domanda: dove troveremo esattamente le
decine di milioni (ma si parla di miliardi) di piante per realizzare
gli obiettivi? In questo momento l’offerta dei vivai nazionali,
forestali o di produzione di piante per il verde urbano, si stima sia
intorno ai 10 milioni di piantine (numero totale, non di quelle
potenzialmente vendibili). Dobbiamo anche ricordarci che i futuri
impianti necessiteranno della disponibilità di un numero di piante nei
vivai almeno del 20-25% superiore alle richieste per garantire che le
piante morte (una mortalità del 5% può considerarsi “fisiologica”, anche
se un impianto ben pianificato e realizzato dovrebbe tendere alla “zero
mortalità”) vengano rimpiazzate. Le aziende produttrici devono perciò
affrontare sfide significative per soddisfare questa domanda di
piantine. Ma sono pronte? Saranno pronte?
Rimanendo nel nostro Paese,
possiamo tranquillamente affermare che, senza cambiamenti sostanziali, i
vivai nazionali non possono e non potranno neanche avvicinarsi a
soddisfare la crescente domanda di alberi.
Dovrebbero più che
raddoppiare (ma, azzardo, forse quintuplicare) la loro produzione
attuale per raggiungere gli obiettivi che diverse istituzioni hanno
fissato ma, ovviamente, la cosa non è così semplice neppure nel medio
periodo a causa dell’esistenza di numerose barriere, non solo
economiche.
Infatti, mentre la maggior parte dei vivai potrebbe
essere anche disposta ad espandersi, problemi seri e non facilmente
superabili rendono difficile farlo. I principali tra questi sono
sicuramente la carenza di superfici utilizzabili per le piantagioni, una
forza lavoro non sempre adeguata, la mancanza di contratti di
dimensioni e durata sufficienti per giustificare investimenti per
l’ampliamento e,soprattutto, una serie di vincoli ambientali che, di
fatto, frenano l’espansione delle superfici investite a vivaio. Questo
nonostante che, ormai, la gran parte delle produzioni non solo sono
rispettose delle normative ambientali, ma rappresentano “pozzi di
carbonio”, potendo garantire l’assimilazione, il sequestro e lo
stoccaggio di grosse quantità di CO2.
Introduzione di Giacomo Lorenzini *
CIRSEC, il Centro Interdipartimentale di Ricerca per lo Studio degli Effetti del Cambiamento Climatico dell'Università di Pisa ha organizzato un concorso a tema sul cambiamento climatico riservato agli studenti delle classi quinte delle scuole medie secondarie. Due le sezioni: grafica e narrativa. Decisamente interessanti i premi, che consistevano in sei immatricolazioni gratuite a un qualsiasi corso di studio dell’Università di Pisa. Notevole la partecipazione con ben 58 opere presentate da ragazzi di 31 scuole (nove le province rappresentate).
Vincitore della sezione narrativa è Tommaso Pacini, allievo del liceo Classico XXV Aprile di Pontedera (PI). In parte autobiografico, ma con molti inserimenti di fantasia, il suo testo, intitolato “Una consapevolezza inaspettata”. Un ‘incontro’ fortuito con un articolo di giornale letto sul telefono in piena emergenza COVID e relativo alla prospettiva che le nuove condizioni climatiche mettano in crisi le piantagioni di caffè funge da innesco per un percorso che è un vero richiamo alla necessità di risvegliare, condividere giorno per giorno e mantenere a lungo la consapevolezza legata ai problemi ambientali, e in particolare a quelli legati al cambiamento climatico.
*Direttore CIRSEC, Centro Interdipartimentale di Ricerca per lo Studio degli Effetti del Cambiamento Climatico dell'Università di Pisa