L’agricoltura “moderna” ha rivoluzionato non solo il modo di fare, ma
anche il pensiero quotidiano degli operatori agricoli e dei consumatori.
La gestione moderna degli agroecosistemi deve partire dalla conoscenza,
la quale non può essere sempre “delegata” ad altri, ma deve diventare
patrimonio fondamentale di agricoltori, tecnici e consumatori. Le
discipline fitopatologiche e della nutrizione vegetale dovrebbero
permettere, se applicate con corretti criteri scientifici, di migliorare
la salute delle piante coltivate senza aggravamenti delle stesse
problematiche da risolvere.
In ogni cultura alimentare vi sono cibi piccanti per i quali esistono
dei limiti, diversi per ogni persona e a loro volta influenzati dalle
abitudini alimentari, e il piacere che provocano giustifica la loro
presenza e persistenza e per questo i cibi piccanti sono importanti cibi culturali.
Il controllo dei limiti dei cibi piccanti, come anche per quelli amari,
in ogni cultura è mantenuto e regolato da tradizioni, spesso trasferite
nelle ricette delle diverse preparazioni piccanti, loro associazioni
con altri cibi e rituali d’uso, nei quali sono regolati dolore e
piacere, paura felicità e allegria.
Il 22 Aprile 2021, in occasione della Giornata Mondiale della Terra, si è
svolta una giornata di studio on line finalizzata alla raccolta di idee
e progetti per la realizzazione di “Un patto per l’Arno”, il Contratto
di Fiume che abbraccia l’intera asta fluviale del grande corso d’acqua
toscano, organizzata da Autorità di Bacino dell’Appennino
Settentrionale, ANBI e ANCI Toscana e dai Consorzi di Bonifica 2 Alto
Valdarno, 3 Medio Valdarno e 4 Basso Valdarno.
La giornata che è
stata preceduta, fra l’altro, da “Tavoli di lavoro” in cui si sono
affrontate tutte le tematiche inerenti il fiume quali: protezione
civile, manutenzione e riqualificazione partecipata dei territori
fluviali, ambiente, volontariato, ricerca, processi di governance per la
riduzione dei rischi ambientali, energie rinnovabili, acqua e
agricoltura, turismo, navigabilità, pesca, canottaggio e ciclovie,
recupero delle plastiche e tutela degli ecosistemi fluviali.
Fra
queste tematiche si è dato quindi, fra l’altro, ampio spazio al ruolo
dell’agricoltura che deve essere sempre più incisivo. È stato
sottolineato che le imprese agricole possono dare un contributo
essenziale alle politiche di tutela dell’acqua e del suo uso ed è stato
auspicato un rafforzamento della collaborazione con i Consorzi di
Bonifica.
Queste tematiche sono sempre state tenute nella massima considerazione
dall’Accademia dei Georgofili: si ricorda, infatti, che proprio nel
Dicembre scorso si è svolta una giornata di studio, in collaborazione
con ANBI, su “L’acqua da risorsa a calamità” in cui si è ampiamente
dibattuto questi temi e i cui atti sono pubblicati e consultabili sul
sito dell’Accademia (www.georgofili.it).
È
ormai noto che, con i cambiamenti climatici in atto, fra l’altro, è
cambiata molto la variabilità delle precipitazioni tanto che se da un
lato tendono a intensificarsi e a distribuirsi su un numero minore di
giorni, dall’altro sono in aumento le serie siccitose con risultati che
mostrano impatti diversi da zona a zona.
In conseguenza di ciò l’erosione del suolo, con la conseguente perdita
di qualità fisiche ed idrologiche, è destinata ad esacerbare il rischio
idrogeologico, con conseguenze per ora non adeguatamente considerate
dalla legislazione italiana ed europea.
Quando il pane era di produzione familiare, quello di ogni casa aveva il
suo aroma e sapore particolare che non dipendeva tanto dalla farina,
quanto dal lievito usato, per cui giustamente era denominato lievito
madre e di madri ve ne erano tante quante erano le case, in ognuna delle
quali questo lievito si tramandava di panificazione in panificazione,
di anno in anno e talvolta anche di generazione in generazione.
Le linee guida della European Animal Feed Organisation (FEFAC) del 2015,
relative all’acquisto e importazione di soia sostenibile stanno per
essere riviste ed aggiornate, a dimostrazione dell’importanza attribuita
alla deforestazione illegale, soprattutto in Amazzonia, ritenuta una
causa importante del fenomeno del riscaldamento globale.
Nella
precedente versione delle linee guida (Soy Sourcing Guidelines, SSG) era
stata messa al bando solo la soia prodotta su terreni deforestati
illegalmente. Con le nuove linee guida sembra di capire che non sarà
consentito acquistare soia prodotta su qualsiasi terreno deforestato,
anche legalmente, o su altri ex ecosistemi naturali come le savane o le
paludi, cioè su terreni “convertiti”. Si potrà trattare solo la
cosiddetta “conversion-free soy”.
Il parlamento europeo sta lavorando
alla preparazione di una legge che regolamenti la deforestazione, in
modo tale da adeguarsi alle regole di acquisto e importazione di soia
conversion-free. Uno studio del 2013 ha indicato che l’Europa importa
circa il 10% di prodotti legati in qualche modo al fenomeno della
deforestazione. Motivo di perplessità e di preoccupazione è il fatto che
si confida sulla “diligenza” e l’onestà delle compagnie che trattano la
soia, le quali dovrebbero identificare i prodotti non permessi e
prevenirne la circolazione sui mercati europei, pena sanzioni, anche
pesanti.
Tuttavia, molti sono scettici riguardo all’auspicio che
tutti coloro che operano nel mercato della soia rispettino le regole. Il
segnale dato dalla FEFAC è forte, ma l’impatto sul mercato a livello
internazionale è ancora molto modesto. Ricordiamoci che la Cina è e
rimarrà il più forte importatore di soia del mondo, mentre l’Europa pesa
solo per circa il 10%.
Più di cento anni fa Patrick Geddes, biologo, sociologo e urbanista
scozzese, affermò che “La città non è un luogo nello spazio ma un dramma
del tempo” (Cities in evolution, 1915). Ai nostri giorni il suo
ammonimento sembra purtroppo caduto nel vuoto tanto che dalle megalopoli
siamo passati addirittura alla costruzione di mega regioni o super
città, e ora molti si chiedono se, dopo la pandemia da coronavirus, la
qualità di vita nelle città non subirà un ulteriore peggioramento.
Alcuni
però, in controtendenza, sostengono che gli agglomerati urbani
offriranno migliori condizioni, una volta che tutto questo
stravolgimento delle nostre esistenze sarà finito. Per esempio alcuni
Stati, come l’Irlanda, stanno cercando di incentivare lo smart working
anche per rivitalizzare i piccoli centri distanti dalle grandi città
allo scopo di decongestionarle e limitare gli spostamenti che,
ricordiamo, sono la maggior fonte (almeno nei centri abitati) di
emissioni di CO2. E per una volta tutti sono finalmente concordi sul
fatto che oggi abbiamo bisogno di vere città “verdi”. Era ora. Ma cosa è
una città “verde”?
La domanda, apparentemente banale, non ha in
realtà una risposta scontata: Edo Ronchi, su questa testata, definì nel
2018 la green city come “un modello di città - sperimentato e affermato a
livello europeo e internazionale - che punta sulla elevata qualità
ambientale in tutti i suoi principali aspetti, decisivi anche per la
qualità dell’aria, non come obiettivi isolati e circoscritti, ma come
parti di un ampio disegno di rigenerazione e riqualificazione urbana,
con attenzione anche alle implicazioni economiche, occupazionali e
sociali”.
Una definizione sicuramente corretta, ma io ritengo che
alcuni termini debbano essere meglio definiti: la prima considerazione
da fare è che ormai il termine “città” generalmente si riferisce a
un’area metropolitana molto ampia. Ad esempio, “Milano” rappresenta la
grande area metropolitana che circonda la città, non solo quella
compresa nei confini comunali. Lo stesso vale per altri grandi
agglomerati nelle diverse parti del mondo, come Chicago, Londra, Tokyo,
San Paolo, ecc. Un’area metropolitana è infatti costituita da una zona
centrale contenente un consistente nucleo di popolazione e dalle
comunità adiacenti che hanno un elevato grado di integrazione economica e
sociale con quel nucleo.
Concentrarsi dunque sulle “aree
metropolitane” ha oggi molto più senso perché la maggioranza delle
persone e dei posti di lavoro si trova lì (oltre il 50% a livello
mondiale, 70% in Europa), fuori dal “centro”. Definire e costruire una
metropoli “verde” diventa allora un compito molto impegnativo.
Oltre
ad avere un’aria più pulita, le città verdi devono stimolare anche
“comportamenti verdi” come, ad esempio, l’uso del trasporto pubblico, e
il loro impatto ambientale sarà relativamente basso, fino, in alcuni
casi, ad arrivare vicino allo zero.
Ma può questa definizione di
città verde tradursi in indicatori oggettivi della qualità dell’ambiente
urbano? A questo proposito esistono diversi metodi di valutazione.
Si è svolta questa mattina la cerimonia per l’Inaugurazione del 268° Anno Accademico dei Georgofili, trasmessa in diretta streaming sul sito dell’Accademia.
A
causa delle misure per contrastare la diffusione del coronavirus, non è
stato possibile, purtroppo, dare il benvenuto ai nuovi Accademici
consegnando loro i diplomi, nonché consegnare personalmente ai vincitori
i premi Antico Fattore e AgroInnovation Award. Saranno per questo
organizzati degli appositi eventi in seguito, quando la situazione
pandemica lo permetterà.
Dopo il saluto del Sindaco Dario Nardella, che è stato presente nella sede accademica durante la cerimonia, il Presidente dei Georgofili, Massimo Vincenzini,
ha svolto la sua relazione, sottolineando come l’Accademia, durante
l’anno trascorso, abbia continuato ininterrottamente la propria
attività, nonostante le oggettive difficoltà generate dallo scoppio
della pandemia. Sono state infatti tempestivamente adottate tecnologie
digitali per svolgere ‘da remoto’ convegni e giornate di studio e sono
state organizzate esposizioni virtuali, al posto delle consuete mostre
documentarie. Tra le iniziative che hanno caratterizzato la difficile
annata, il Prof. Vincenzini ha voluto porre in evidenza quella che nella
home page del sito istituzionale compare, fin dall’aprile 2020, sotto
una specifica area dal significativo titolo “L’Accademia per il post
COVID-19”. Con tale iniziativa, l’Accademia ha inteso avviare uno
specifico programma di divulgazione tecnico-scientifica e formazione rivolto primariamente agli agricoltori, fornendo loro strumenti di conoscenza utili per la ripresa socio-economica
che dovrebbe dar seguito alla difficile fase pandemica. I numerosi
contributi pubblicati (suddivisi nei vari settori agricoli: dalla
cerealicoltura alla viticoltura e alla orticoltura, dalla difesa delle
piante all'enologia, dalla meccanizzazione alle tecnologie alimentari,
ecc.) realizzati con il contributo di oltre 100 autori, hanno dimostrato
di avere incontrato l’interesse del mondo agroalimentare, con oltre
30.000 download a fine dicembre 2020. Il Presidente Vincenzini ha
sottolineato infine l’evidente ruolo da protagonista delle tecnologie digitali in agricoltura
, spiegando che il Consiglio Accademico ha per questo motivo istituito
un Comitato Consultivo sulla “Digitalizzazione in agricoltura”, che
affiancherà gli altri già esistenti.
La prolusione è stata poi svolta dall’Accademico Emerito Dario Casati sul tema: "Oltre la pandemia, quale futuro per l’agricoltura".
In uno dei più celebri ricettari del passato – siamo alla fine del XV secolo - Maestro Martino da Como, nel suo Libro de arte coquinaria
in una sua ricetta scrive “fate cocere per spatio de doi paternostri”. L’uso delle preghiere per determinare il tempo di cottura è ancora in
voga prima dell’ultima Grande Guerra ...
Gli omega-3, come da tempo documenta la scienza dell'alimentazione, sono
un importante alleato della nostra salute. Questi acidi grassi
polinsaturi permettono il mantenimento di alcune funzioni metaboliche e
la risoluzione di processi infiammatori di varia natura. L'organismo
umano ne sintetizza in minima parte: per questo per soddisfarne il
fabbisogno occorre un'alimentazione che contenga, ad esempio, il pesce
o, più in generale, i prodotti ittici.
Nuove acquisizioni in questo campo vengono da uno studio sulla pelle della trota iridea, pubblicato su Waste and Biomass Valorization
dal gruppo di ricerca di Acquacoltura del Dipartimento di Scienze e
Tecnologie Agrarie, Alimentari, Ambientali e Forestali (Dagri)
dell’Università di Firenze, in collaborazione con l’Università di Udine
[“Rainbow Trout (Oncorhynchus mykiss) Skin as Potential n-3 Fatty Acid Source” https://doi.org/10.1007/s12649-021-01384-3
].
Soia sì, ma sostenibile: in Italia, già da anni, la filiera di questa
proteoleaginosa, essenziale per il nostro agroalimentare, si è
sviluppata con un approccio decisamente “green”, ben prima che si
cominciasse a parlare di economia circolare e di impatto ambientale
delle coltivazioni. L’intero settore dei semi oleosi ha intrapreso
questa strada con grande convinzione ed in modo quasi pioneristico,
tracciando così quella che, giustamente, viene definita “la via italiana
alla soia sostenibile”.
La scelta si è basata su un dato, troppo
spesso sottaciuto dai media e dagli addetti ai lavori: l’Italia è il
maggior produttore europeo di soia, con oltre 1 milione di tonnellate di
semi all’anno. Tuttavia il primato non la mette al riparo dal problema
del deficit proteico, che consiste nell’insufficiente quantitativo di
proteine rispetto al fabbisogno del settore agricolo, in particolare
della zootecnia, e dell’industria alimentare. La stessa soia italiana
riesce a coprire soltanto il 50% della domanda nazionale.
La
questione coinvolge tutta l’Europa e, nonostante l’aumento delle
superfici, è destinata ad aggravarsi con la crescita della popolazione
mondiale, stimata in 8,5 miliardi per il 2030. Di semi di soia non si
può fare a meno, poiché hanno un notevole contenuto proteico ed una
quota importante di aminoacidi come la lisina. Per tali caratteristiche
la farina di soia è considerata dagli addetti ai lavori il legume per
eccellenza nell’alimentazione animale. In tal senso, il comparto dei
mangimi ha aderito nel 2015 alle Linee guida della UE per garantire
l’approvvigionamento sostenibile. Inoltre, i semi di soia sono
protagonisti di una riscoperta nell’ambito dell’alimentazione
salutistica.
In questo scenario il consumatore esige grande
trasparenza e chiede maggiori informazioni sulle materie prime, la loro
origine e lavorazione. Guarda con attenzione al regime dietetico e alla
sostenibilità dei prodotti, perché il cibo è ormai diventato il
“riflesso” della nostra etica personale. Due tendenze che riguardano
tutto l’universo dell’agroalimentare ma che, nel settore dei semi
oleosi, assumono particolare importanza.
Già da qualche tempo la stampa internazionale specializzata indica
all’attenzione degli specialisti del settore mangimistico le farine di
insetti come ingrediente alimentare proteico alternativo alla soia.
La Direzione Generale Ambiente della Commissione europea ha lanciato un
questionario pubblico per raccogliere pareri sulla nuova strategia
tematica sul suolo che dovrà essere emanata il prossimo anno.
Per compilare il questionario, anche in italiano, c’è tempo fino al 28 aprile p.v. presso https://ec.europa.eu/environment/news/commission-consults-new-eu-soil-strategy-2021-02-02_it
Gli interventi dei Professori Luigi Costato e Giuseppe Bertoni (Georgofili INFO 31 marzo e 7 aprile 2021),
per molti aspetti condivisibili, meritano due chiarimenti sui problemi
peraltro complessi e connessi alle prospettive di arrivare ad una
riduzione degli allevamenti per diminuire la produzione di metano e CO2,
sostituendo la carne con prodotti di laboratorio contenenti proteine da
cellule animali coltivate, le cosiddette “bistecche sintetiche”.
Un
primo ordine di considerazioni è di tipo storico perché non è la prima
volta che si pensa di produrre alimenti “sintetici”. Il Milleottocento è
il secolo che vede la nascita e lo sviluppo della chimica, quando
Justus von Liebig (1803 – 1873) inventa l’estratto di carne e il
farmacista Hippolyte Mège-Mouriès nel 1869 presenta a Napoleone III la
margarina, e alla fine del secolo le previsioni sono che nessun oggetto
più pesante dell’aria avrebbe solcato i cieli, nessun messaggio si
sarebbe diffuso se non su dei fili e soprattutto che ci si sarebbe
alimentati con pillole prodotte dalla chimica, ma la chimica non riesce a
sostituire l’agrozootecnia. Il Millenovecento è il secolo che vede lo
sviluppo della microbiologia e soprattutto delle fermentazioni
microbiche su scala industriale per la produzione di antibiotici e altre
molecole, per cui non solo si prospettano, ma si iniziano a produrre
proteine microbiologiche destinate all’alimentazione e per combattere la
fame nel mondo, le Single Cell Protein (SCP). Le SCP sono
prodotte da batteri o da lieviti coltivati su substrati contenenti
metanolo derivato dal metano o paraffine d’origine petrolifera e non
hanno successo soprattutto perché non competitive con le proteine
prodotte dalle leguminose, soprattutto dalla soia, che in modo molto
economico, non inquinante e a costo energetico zero, sono capaci
d’utilizzare l’azoto atmosferico, quindi sul campo della sostenibilità
l’agrozootecnia vince su gli alimenti sintetici. Il Duemila è il secolo
della biologia cellulare e della coltivazione delle cellule animali per
scopi farmaco-sanitari e per questo non ci si deve stupire si presenti
la possibilità di produrre “bistecche sintetiche” con una nuova
prospettiva: non più per combattere la fame, perché queste bistecche
sono per i paesi ricchi, ma per contrastare il cambiamento climatico che
sarebbe causato dagli allevamenti animali causa di deforestazione,
inquinamento ambientale e produttori di gas serra. A parte il fatto che
anche nei paesi ricchi le proteine sintetiche sono destinate ai fast
food e i veri ricchi, come nel passato, vorranno mangiare alimenti
naturali, anzi sempre più naturali, un’ampia produzione di “bistecche
sintetiche” è sostenibile per essere una soluzione dell’inquinamento
ambientale e dei cambiamenti climatici, come vorrebbero alcuni e tra
questi Bill Gates?
Il cambiamento climatico sta portando con sé non solo estati più secche,
ma anche primavere più calde. Ciò fa sì che alberi e arbusti germoglino
prima, rendendoli vulnerabili al gelo tardivo.
Quello che tutti gli
anni gli agricoltori temono si è verificato. Lo scorso 8 aprile le
temperature in diverse zone d’Italia sono precipitate fino a raggiungere
valori che neanche durante l’inverno si erano raggiunti. Le gelate
tardive primaverili influenzano non solo la produzione, ma possono
indurre danni esiziali alle piante o, comunque, indebolirle e
predisporle agli attacchi di agenti secondari. Nonostante il loro
impatto ecologico ed economico sull'agricoltura e la silvicoltura, la
distribuzione geografica e l'impatto evolutivo di questi eventi di gelo
sono ancora poco conosciuti.
Un lavoro pubblicato lo scorso anno sui Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS)
ha analizzato la frequenza delle gelate tardive tra il 1959 e il 2017 e
le strategie di tolleranza delle specie legnose dell'emisfero
settentrionale per dedurre gli adattamenti degli alberi, per ridurre al
minimo i danni da gelo alle piante e per prevedere la vulnerabilità
delle foreste causate dai cambiamenti in corso nelle frequenze dei
ritorni di freddo.
I valori dei caratteri sulla data di
germogliamento e sulla tolleranza al congelamento delle foglie
analizzati nella ricerca provenivano da circa 1.500 specie legnose
temperate e boreali coltivate nei giardini comuni. L’analisi ha
evidenziato che le aree in cui le gelate tardive sono comuni, come il
Nord America orientale, ospitano specie di alberi che germogliano più
tardivamente. Le aree in cui i ritorni di freddo sono più improbabili,
come le foreste di latifoglie e gli arbusti in Europa e in Asia,
ospitano invece specie arboree “opportuniste”, che reagiscono
rapidamente al riscaldamento delle temperature dell'aria.
In una immagine rinvenuta nella vasta
necropoli di Saqqara a trenta chilometri a sud della città moderna del
Cairo è stata trovata quella che si ritiene la prima immagine di una
bottarga, ovaia di pesce e in particolare del muggine o cefalo
conservata con il sale. Siamo nel periodo dell’Antico Regno (2700 – 2192
a. C.) e il bassorilievo rappresenta un uomo che tra le mani ha un
muggine, lo sta aprendo con un coltello e vicino ha due oggetti che
paiono sacche di uova di pesce.
Ritengo giusto dare atto al Prof. Costato per il richiamo, fatto su "Georgofili Info" del 31 marzo 2021 (http://www.georgofili.info/contenuti/lo-storico-problema-dellalimentazione-la-sicurezza-degli-approvvigionamenti-la-food-sovereignty-e-la/15528),
di quanto sia importante la produzione agricola in qualche modo
“autarchica” in tempi di certezze sempre più evanescenti, come il
COVID-19 sta insegnando. Interessante la “carrellata” storica a partire
dal tardo Paleolitico per arrivare ai giorni nostri con gli alti e bassi
della sicurezza alimentare (seguiti da conseguenze talora drammatiche
per le popolazioni italiane), alla cui origine ben diverse sono state le
motivazioni nel tempo. Un documento, quello del Prof. Costato, da
meditare soprattutto in tempi che si caratterizzano per una scarsa
attenzione alla disponibilità di cibo – quasi fosse un assunto -
preferendole altri aspetti ugualmente essenziali: qualità, ambiente,
benessere animale ecc., ma col rischio di perdere l’avverbio
“ugualmente” per diventare prioritari.
Per contro, della posizione
del Prof. Costato, 3 sono gli aspetti che suscitano in me una qualche
perplessità e che, in certa misura, sono interconnessi in quanto
convergono nel 3° di essi insito nella frase: “arrivare ad una
riduzione drastica degli allevamenti per diminuire la produzione di
metano e CO2, alla sostituzione della carne con prodotti di laboratorio
contenenti altre proteine derivate probabilmente da molecole di carne
che non hanno mai vissuto in una stalla,…”.
I primi due aspetti
riguardano: i) la mancata segnalazione che, fra il 1500 e il 1800, la
rapida crescita della popolazione, e la necessità di coltivare a più non
posso, portò a contrarre lo spazio per gli animali allevati con una
serie di conseguenze di cui la minore altezza dei giovani è stato un
indice inequivocabile (seppure il meno grave); ii) parlare di surplus
nel caso dei prodotti alimentari provenienti dalle colonie del Regno
Unito e di altri Paesi coloniali, è un eufemismo giacché le popolazioni
locali di tali colonie non vivevano certo nell’abbondanza, specie per
gli alimenti di origine animale.
Tuttavia, di maggiore interesse per me è l’invito a questa “drastica riduzione” degli allevamenti che, anzitutto, non è chiaro se limitata all’Italia come sembra:
• In un Paese dove la zootecnia non è fra le massime espressioni dell’attività agricola;
• In un Paese dove l’Ispra (2020) parla di un 7% delle emissioni di CO2 dell’intero comparto agricolo;
• In un paese dove il consumo, specie di carni, supera di poco quei
minimi sotto i quali significherebbe rischio di malnutrizione, specie
per i giovani, le donne e gli anziani;
• In un Paese dove il
bosco sta tornando alla grande e per molte ragioni – non ultima quella
paesaggistica che vede gli animali selvatici e allevati in “pole
position” – per cui tale ritorno andrebbe visto entro forme
silvo-pastorali che accrescono l’effetto “sink” del carbonio.