Che gli alberi siano organismi di intelligenza eccezionale, lo sappiamo.
In questo assunto siamo sicuramente confortati da ricerche, più o meno
recenti, che stanno mettendo in luce le loro incredibili capacità
organizzative e comunicative. Ma il solo soffermarsi sul fatto che molte
delle specie arboree che vivono nei nostri paesaggi contemporanei hanno
iniziato la loro storia sul pianeta decine e decine di milioni di anni
fa, ci può aiutare a comprendere quanto sia complessa e articolata la
loro vita sociale. L’intelligenza degli alberi è profonda e
spettacolarmente ricca di linguaggi e possibilità.
D’altronde,
parlare con gli alberi è uno dei sogni, forse fra i più antichi, di noi
esseri umani: gli individui e le popolazioni della nostra giovanissima
specie (qualche centinaia di migliaia di anni, una minima frazione della
traiettoria della vita sul pianeta) hanno sempre visto negli alberi
simboli e risorse. Ammirazione per questi individui giganteschi e
apparentemente eterni, rispetto per la loro prodigalità nel fornire
risposte ai bisogni degli uomini. Alberi della vita, del bene e del
male, alberi da cui trarre legno, legna, frutti o medicamenti. Oppure
più semplicemente, alberi come luogo d’incontro in qualche remoto
villaggio. Ammirazione, rispetto, compagnia.
Vorrei riportare due
brevi esempi dell’importanza degli alberi nella storia degli uomini e
della tensione a trovare linguaggi e sfere comuni. Nelle Finnegans Wake
[1], alla domanda su quale sia “il nostro essere sovrano", Yawn descrive
'Oakley Ashe's elm', ossia l’olmo di Oakley Ashe, sintesi generatrice
del femminile e del maschile. Ma sappiamo che, in questa sua
sorprendente opera, James Joyce inventa continuamente, in una
prospettiva polisemica, nuovi termini che sono a loro volta segni,
simboli, sintesi. Non è probabilmente casuale che l’albero scelto da
Joyce sia un olmo (elm), elemento maschile, ma anche un frassino (ash),
raffigurazione del femminile, che poi è anche quercia (oak), albero
sacro in gran parte d’Europa. Poco più avanti, nella narrazione -
definita intraducibile- delle Finnegans Wake, l’albero si anima di
movimenti, nello spazio e nel tempo: le foglie si rinnovano come pagine
di lettere, in una concatenazione perpetua di bene e male, dalla notte
dei tempi, e i rami danzano, uno e tutti, incontrandosi e stringendosi
mani contorte.
Barbalbero (Treebeard), scrive Tolkien [2], è alto
quattordici piedi (ossia quattro metri o poco più) e nell'aspetto è
simile ad un albero, come tutti i suoi simili. Ha il fisico di un uomo,
quasi senza collo, e sarebbe difficile dire se ciò che lo ricopre sia
una specie di corteccia verde e grigia, o la sua stessa pelle. Sulle
prime gli Hobbit notarono di Barbalbero soltanto gli occhi, occhi
profondi che li osservavano, lenti e solenni, ma molto penetranti. Erano
marrone, picchiettati di luci verdi.
Due narrazioni, fra le mille e
mille possibili, della ricerca di un linguaggio, dell’ansia di
comunicazione e di identificazione che gli uomini hanno sempre tentato
di instaurare con gli alberi.
Joyce ha impiegato 17 anni per scrivere
le 648 pagine delle Finnegans Wake. Curiosamente anche a Tolkien ci
sono voluti 17 anni e 1260 pagine per scrivere il Signore degli Anelli,
dove Barbalbero prende vita.
Di tutt’altro scrive, divertendosi e
divertendoci, Carlo Maria Cipolla [3]. Parla di pepe e di stupidità ma,
fra le altre annotazioni, vorrei cogliere un passo dove l’Autore dice
che gli Antichi Romani erano notoriamente pratici. E anche parchi. È
altrettanto evidente che anche i Nuovi Romani lo siano. In particolare
per le parole.
Che c’entra questo?
C’entra, c’entra. Ai Romani sono bastati, infatti, pochi giorni per varare un neologismo dedicato a un albero.
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