Notiziario

Analisi costi-benefici e responsibilità decisionali

Il tema del momento è l’analisi costi benefici. Senza entrare nel metodo e nel merito delle conclusioni del gruppo di lavoro istituito a supporto delle decisioni sulla Tav Torino-Lione, vorremmo proporre qualche considerazione su questo strumento. L’analisi costi-benefici, in italiano definita “costi-ricavi”, fa parte di un insieme di metodologie di valutazione economica utilizzate, in genere, per le opere pubbliche o che, comunque, fruiscano di contributi pubblici. La semplicità, apparente, della sua denominazione  ne lascia intendere i contenuti. Si tratta di confrontare l’insieme dei costi da sostenere per realizzare una certa opera con quello dei ricavi o benefici, diretti ed indiretti, che ne deriverebbero. Se è semplice comprendere la logica che la guida, le cose si complicano nel momento in cui si deve passare alle necessarie valutazioni. Per definizione queste sono numerose e devono essere minuziosamente sviluppate. Sin qui nulla di particolarmente complesso, ma il fatto è che queste opere hanno tempi in genere non brevi per la realizzazione e, soprattutto, producono benefici tangibili e intangibili, variabili nel tempo e distribuiti su lunghi periodi. Si pone perciò il problema di confrontare valori che non sono contemporanei, alcuni noti o ben prevedibili, altri da stimare con grande anticipo e enorme prudenza. Mentre infatti i costi sono valutabili abbastanza facilmente e si verificano di solito in un arco di tempo breve rispetto alla durata dei benefici,  questi lo sono molto meno sia per la loro distribuzione nel tempo sia per le loro caratteristiche. Quelli non monetari, in qualche caso sono prevalenti. Occorrono dunque più livelli di stima e più valutazioni di natura diversa, ma la discrezionalità rimane elevata e dominante.

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Ortofrutta: i protagonisti ci sono, manca la politica

E’ stata una festa, una grande festa la settima edizione dei Protagonisti dell’Ortofrutta a Venezia (18 gennaio 2019), organizzata come di consueto dal “Corriere Ortofrutticolo”. Un evento che ha raggiunto la sua maturità e che consente un momento di incontro al di fuori delle solite logiche stressanti di lavoro.

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La cosa più intelligente che una città può fare? Piantare alberi

Non c’è dubbio che gli alberi possono rendere esteticamente più attraente una città. Ma non è questo il loro maggior pregio. Un numero crescente di ricerche suggerisce che piantare più alberi nelle nostre città, se ben pianificato, realizzato e gestito, potrebbe salvare ogni anno decine di migliaia di vite – in primis assorbendo l’inquinamento e contribuendo a ridurre gli effetti, talvolta esiziali, delle ondate di calore.
In effetti, una campagna di piantagione di alberi ben mirata potrebbe essere uno degli investimenti più intelligenti che una città “calda e inquinata” potrebbe (e dovrebbe) fare. Il che parrebbe una cosa fondamentale, dato che le aree urbanizzate cresceranno sempre di più consumando suolo ed energia in modo bulimico, aggiungendo circa 2 miliardi di persone in questo secolo e diventando sempre più calde e inquinate, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, dove si concentrerà la maggior crescita.
Purtroppo, molte amministrazioni continuano a pensare agli alberi come a un semplice ornamento, mentre avremmo dovuto a pensare a essi come a una parte cruciale delle nostre città del futuro: una vera e propria infrastruttura di salute pubblica già da diversi anni.
Gli alberi possono salvare vite in due modi:
1) Assorbono l’inquinamento da particolato prodotto dal traffico veicolare, da centrali elettriche e fabbriche. È un funzione importante, dato che il particolato può avere effetti devastanti sulla nostra salute e si stima che uccida annualmente circa 3,2 milioni di persone in tutto il mondo. L’effetto specifico varia da città a città, ma si può affermare, con piena certezza, che qualora si scelgano le specie giuste e le si mettano a dimora nel posto giusto, gli alberi migliorano indubbiamente la qualità dell’aria.
2) Possono raffreddare le aree urbane da 0,5 a 2°C nelle giornate più calde (con punte fino a 5°C); il che è vitale durante forti ondate di calore che ormai non possiamo più considerare anomale. Studi hanno rilevato che ogni grado in più in condizioni di forte afa porta ad un aumento del 3% o più della mortalità.

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E’ nata l’AISAM (Associazione Italiana per lo Studio e le Applicazioni delle Microalghe)

Nell’aprile 2017 si è svolto a Palermo il primo Forum Italiano sulle Tecnologie Microalgali (FITEMI). In quella sede i partecipanti ci hanno affidato il compito di creare un’associazione per promuovere lo studio e le applicazioni delle microalghe. Per rispondere al loro invito, ma anche sotto la spinta del crescente interesse del mondo industriale e della ricerca per questo gruppo microbico, nel giugno 2018 abbiamo fondato l’AISAM (Associazione Italiana per lo Studio e le Applicazioni delle Microalghe).
AISAM è un’associazione senza scopo di lucro nata per promuovere studi, ricerche, formazione giovanile e attività di supporto per le aziende sulla produzione, la trasformazione e la commercializzazione della biomassa di microalghe e dei prodotti derivati. Nessun settore applicativo è escluso: alimenti, mangimi, biocarburanti, cosmetici, farmaci, integratori e ogni altro prodotto e processo con utilità commerciale, ambientale o sociale. Altri obiettivi primari di AISAM sono la diffusione d’informazioni scientifiche affidabili e il rafforzamento delle relazioni tra aziende ed enti di ricerca.
Le microalghe, come strumento biotecnologico, sono oggetto di ricerche dalla metà del secolo scorso, ma è solo nell’ultimo decennio, da quando un gruppo di ricercatori del MIT ne ha (ri)proposto lo sfruttamento come fonte di biocombustibili, che si è registrato un “boom” di attività commerciali. Come molti altri abbiamo assistito con curiosità ed incredulità a questo fiorire d’iniziative industriali e progetti sostenuti da investimenti pubblici e privati che, solo per limitarci agli USA, hanno superato diversi miliardi di dollari.

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Stiamo sottovalutando la terribile minaccia della antibiotico-resistenza acquisita (Acquired Microbial Resistance, AMR) da parte dimolti batteri patogeni?

L’impiego indiscriminato degli antibiotici anche, e soprattutto, quando non servono, come nella terapia delle infezioni virali o il loro abuso, come nel caso dei mangimi nell’alimentazione degli animali in produzione zootecnica, ha portato ad una situazione che molti scienziati non esitano a definire tragicamente allarmante su scala globale. Infatti, sono ormai molti anni da che è stato lanciato l’allarme della comparsa di batteri patogeni, come le Salmonelle o i Clostridi, ormai divenuti resistenti agli antibiotici. La conseguenza è che molte patologie non sono più controllabili e spesso hanno esito letale nelle persone più deboli, come gli anziani.

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Come la dieta mediterranea ci allunga la vita

La sempre maggiore diffusione della dieta Mediterranea nel mondo come "dieta salva-cuore" ha determinato un significativo incremento della durata della vita media. Per chi nasce oggi in Italia, l’aspettativa media di vita è di 85 anni per la donna e di 80 anni per uomo.

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Paparazzi del piatto e pornografia alimentare

Fotografare i piatti è una moda e i Paparazzi del Piatto sono coloro che compulsivamente mettono le loro foto di piatti su Facebook, Pinterest, Instagram inondando l’universo mondo informatico con Food Porn, un termine che non indica filmini hard dove il cibo fa da sfondo a scene di sesso, ma che identifica un cibo da mangiare soprattutto con gli occhi e che è presentato su riviste patinate o libri di cucina con fotografie di piatti che alla sola vista fanno venire l’acquolina in bocca.
Pornografia Alimentare è un altro termine che è attribuito a immagini di torte al cioccolato, arrosti succulenti, pastasciutte traboccanti sugo, salumi che sembrano emanare profumi meravigliosi e suscitano immagini di territori incontaminati, che non hanno niente da invidiare alle ragazze di copertina delle riviste. In entrambi i casi i termini di "Food Porn" e "Pornografia Alimentare" fanno riferimento al significato originale della parola greca porné che significa vendere e in questo caso indica l’uso dell’immagine per vendere un cibo o un piatto indipendentemente dai suoi valori nutrizionali, simbolici e quant’altro e quando la componente visiva supera di gran lunga quella del giusto e corretto consumo alimentare.
Come tutte le novità, fotografare il cibo per alcuni è divenuta una passione, un’ossessione, un disturbo comportamentale o mentale, se non una malattia. Con le foto dei piatti si può passare al collezionismo e alla condi-visione d’immagini dei piatti più gustosi con gli amici od altri tramite la rete informatica. Fotografare il cibo è un fenomeno complesso. Se si fotografa il cibo è perché lo si apprezza e si vuole condividerlo con altre persone e in questo senso aiutano molto i social network dove esistono siti dedicati al Food Porn dove le foto del cibo generano il cinquanta per cento in più di condivisioni rispetto alle foto della moda e dello stile. La mania di fotografare i piatti al ristorante non riguarda soltanto i giornalisti enogastronomici e i blogger, ma anche la gente comune e vi sono ristoratori che vietano di fotografare le pietanze ordinate per impedirne una riproduzione, ma vi sono anche ristoratori che gradiscono la fotografia perché la ritengono o ininfluente o una forma di pubblicità alla loro cucina.
L’ossessione digitale da cibo segnala un disturbo soprattutto quando l’aspetto di cosa si mangia è più importante della nutrizione e il cibo diventa un’ossessione, il centro della vita sociale e comunicare più importante del mangiare stesso. Mostrare e diffondere immagini di piatti prestigiosi, da parte di alcuni può anche essere il segno della rappresentazione di un proprio potere, economico o sociale. Su questo comportamento stanno riflettendo gli psicologi che indicano come una malattia psichiatrica compare quando le immagini del cibo divengono la principale se non l’unica cosa che si fa su Internet e quando l’utente diventa monotematico escludendo tutte le altre componenti dalla sua condivisione di informazioni.

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“Provando e riprovando”: alcune domande rivolte alla Scienza

L’articolo apparso la scorsa settimana a firma di Amedeo Alpi – La grande nebulosa del “vero o falso” ha inglobato anche la Scienza – ha messo il dito nella piaga. Con la sensibilità e l’esperienza da appassionato uomo di Scienza, Amedeo ha raccolto le sollecitazioni di due sociologi di Stanford: è ormai un dato di fatto che il cambiamento epocale che sta attraversando il nostro mondo ha travolto anche quello che sembrava inviolabile baluardo del “vero”, la verità “scientifica”. Il “rapporto fiduciario” che per secoli ha tributato alla prova scientifica il sigillo di inoppugnabilità non esiste più nell’opinione comune e la “polarizzazione ideal-politica” che occupa l’intero spazio del vivere civile ha ormai oltrepassato la soglia anche della dimostrazione sperimentale.
Credo che l’invito di Alpi a non trascurare questi nuovi fenomeni sia fondamentale. Mi permetto perciò di raccogliere la sollecitazione, condividendo qualche osservazione per allargare la discussione. Sono uno storico e mi è quasi inevitabile riformulare il problema da un altro punto di vista, che cerco di esprimere attraverso alcuni interrogativi. Mi domando ad esempio: al di là degli (incalcolabili) effetti dei nuovi strumenti di comunicazione – i citati social media – che cosa ci segnalano questi nuovi crescenti fenomeni? È sufficiente una controinformazione adeguata? Basta reclamare le prerogative delle “verità scientifiche”?
Comincio dicendo che le forme di manipolazione esistono da quando esiste il mondo. Del resto, se a detta di molti gli animali sono come gli uomini, in realtà c’è almeno qualcosa che distingue gli esseri umani: sanno mentire. Il Novecento è stato certamente l’apogeo delle falsificazioni, ampiamente documentato dalla famosa fattoria di George Orwell. Tuttavia, ciò che abbiamo riscontrato è che il falso deve sembrare vero, come sanno bene i falsari. La virtù del falso sta proprio nella sua verosimiglianza, nel suo riflettere le aspettative generalmente condivise.

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La fillominatrice del Farinello bianco: "Microsetia sexguttella"

Una delle piante più diffuse, sia in ambiente urbano che nei terreni incolti, è il Farinello comune, Chenopodium album, pianta erbacea annua, polimorfa, che fiorisce da maggio a settembre e dai semi gli Atzechi ricavavano una farina, con caratteristiche simili a quelle della congenere Quinoa (Chenopodium quinoa). Le foglie alterne, lanceolate o romboidali, ricordano la forma della zampa di un’oca, da cui il nome assegnato al genere e, similmente a quelle di altre Chenopodiacee (Spinaci, Barbabietola) sono eduli e sono il pabulum prediletto delle larve dei Lepidotteri Nottuidi Trachea atriplicis e Lacanobia oleracea, nonché del microlepidottero Microsetia sexguttella.

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Miele pazzo

Con l’avanzare del commercio mondiale e soprattutto con il commercio elettronico è necessario conoscere la provenienza del miele, anche con un’analisi dei pollini e tramite un affidabile sistema di tracciabilità che permettano di garantire il tipo di nettare usato dalle api, soprattutto per evitare incidenti tossici da miele pazzo.

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La grande nebulosa del "vero o falso" ha inglobato anche la Scienza

Anche in Italia, come in molti altri contesti del mondo, si sta ragionando su di un tema che solo alcuni anni fa sarebbe stato impensabile: le informazioni false in ambito scientifico. Il problema non era del tutto sconosciuto, ma certamente era assai contenuto rispetto al dilagare delle informazioni di oggi che hanno messo sotto accusa la scienza e, soprattutto, hanno contribuito a destituire l'attività scientifica di ogni pretesa di verità oggettiva. Il dato scientifico viene criticato e sottoposto a dileggio come qualsiasi altro. Siamo quindi di fronte ad una "fine della scienza"? Il dato scientifico è opinabile di per sé, senza ricorrere alla faticosa dimostrazione sul piano sperimentale? Cosa è avvenuto di così importante da rompere un rapporto fiduciario che ha resistito per secoli? Sono alcuni degli interrogativi che Shanto Iyengar della Stanford University (California) e Douglas S. Massey della Princeton University (New Jersey) si sono posti, elaborando l'articolo che è apparso su PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences) del 26 novembre 2018.
Il titolo del loro lavoro è chiaramente esplicativo: "Scientific communication in a post-truth society" *. In altre parole, la nostra società è ormai proiettata a "superare o andare oltre" la verità; per questo motivo la comunicazione scientifica ne deve tener conto.
Abbiamo sostenuto, per molti anni -sin dalla fine degli anni '80 del secolo passato- che i ricercatori dovevano imparare a comunicare al pubblico i loro risultati, affinché alcune grandi tematiche a forte componente scientifica, ma di interesse generale, fossero ben comprese da tutti. Questo aspetto rimane valido, ma si è aggiunta una nuova questione che, se vogliamo, rende ancora più arduo il problema; si tratta della volontà di alterare la veritiera comunicazione dei fatti, così come praticato, con una certa frequenza, sia dai mezzi di comunicazione che da parte della politica, negli ultimi trenta anni. La domanda diviene pertanto: cosa è accaduto, durante gli anni '80, di così rivoluzionario da non consentire più un controllo adeguato sulla verità delle notizie comunicate? Nell'articolo citato l'accadimento fondamentale, negli USA, è rappresentato dall'affermazione delle TV via cavo e dal moltiplicarsi dei "Talk show". Contemporaneamente cessa il controllo, da parte della Commissione Federale per le Comunicazioni, sui programmi televisivi e radiofonici che vennero pertanto liberati dal vincolo di essere "factual and honest".
A partire dagli anni '90 anche Internet è diventato uno dei maggiori fornitori di notizie e informazioni e la sua influenza sul pubblico è stata amplificata dalla nascita dei "social media" come LinkedIn, Facebook, YouTube, Twitter, Instagram, Snapchat. A seguito di questi eventi è stato reso disponibile, a chiunque avesse accesso alla rete, un numero incalcolabile di dati e notizie, talmente elevato da rendere molto difficile -se non impossibile- la verifica della loro veridicità.

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L’olivicoltura in Toscana: fra passato e futuro

L’olivicoltura toscana da alcuni anni sta vivendo una profonda trasformazione legata ad un passaggio generazionale che vede il progressivo abbandono di vecchi oliveti locati in aree orograficamente svantaggiate ed un aumento di nuovi impianti in terreni dove, fino ad alcuni anni fa, veniva preferita la coltivazione di colture erbacee quali il frumento.

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Ruolo delle tecnologie e dell’Enologo nella produzione dei vini naturali

I Vini Naturali stanno riscuotendo un crescente interesse presso i consumatori più esigenti. Tale interesse può essere attribuito sia a fattori culturali ed emotivi (ritorno alla natura, origine da uve da coltivazioni biologiche e/o biodinamiche), sia al fatto che, effettivamente, alcuni vini naturali presentano caratteri sensoriali unici, non riscontrabili nei vini tecnologici o convenzionali.
Non esiste ancora un regolamento europeo di produzione dei vini naturali ma una Carta d’Intenti sottoscritta da diversi vignaioli italiani. Le regole del protocollo dei vignaioli italiani dei vini naturali sono ispirate a quelle della più antica confederazione francese: l’Association des Vins Naturels.

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Otto fasi per incrementare il carbonio nel suolo per mitigare i cambiamenti climatici e per la sicurezza alimentare

Il contenuto di carbonio nel suolo è oltre due volte quello contenuto nelle piante e altre biomasse ma, oltre un terzo dei suoli del mondo sono ormai degradati, limitando pesantemente la produzione agricola e riversando nell’atmosfera 500 gigatons (500 miliardi di tonnellate) di anidride carbonica: una quantità equivalente al carbonio stoccato da 216 miliardi di ettari di foreste. Questi sono dati veramente allarmanti sia in termini di degradazione ambientale, sia in termini di cambiamenti climatici ma ignorati dalla grande massa dell’opinione pubblica e largamente sottovalutati dai decisori politici e dai governi di quasi tutto il mondo. Per questo l’International Union of Soil Sciences, di cui fa parte anche la Società Italiana della Scienza del Suolo, si sforza di sensibilizzare l’opinione pubblica attraverso varie iniziative come, ad esempio, la proclamazione del “International Decade of Soils 2015-2024” e, a proposito di emissioni di gas serra, ha recentemente suggerito di impegnarsi formalmente ad aumentare gli stock di carbonio organico nel suolo attraverso il coordinamento e le attività relative alle seguenti otto fasi:
1.    Limitare le perdite di carbonio – Proteggere le torbiere (molto diffuse in larghe aree nel mondo come, ad esempio, nell’Europa Settentrionale) attraverso l'applicazione dei regolamenti contro gli incendi e il drenaggio. Altrettanto importante è la prevenzione degli incendi delle foreste;
2.    Promuovere l’assorbimento del carbonio – Individuare e promuovere le migliori pratiche per la conservazione del carbonio in modi adatti alle condizioni locali, anche attraverso l'incorporazione di residui colturali, rotazioni, colture di copertura, agroforestazione, lavorazioni in traverso in ambienti collinari (evitare le lavorazioni del suolo a rittochino), terrazzamenti, piante fissatrici di azoto e irrigazione;
3.    Monitorare e verificare gli impatti – Tracciare e valutare gli interventi con protocolli e standard armonizzati basati sulle conoscenze scientifiche;
4.    Diffondere la tecnologia – Utilizzare le opportunità high-tech per un monitoraggio più rapido, più economico e più accurato delle variazioni di carbonio nel suolo;
5.    Strategie operative – Determinare cosa funziona nelle condizioni locali utilizzando i modelli e una rete di siti sul campo;
6.    Coinvolgimento delle comunità – Integrare le conoscenze dei cittadini con quelle scientifiche per raccogliere dati e creare una piattaforma online aperta per la condivisione;
7.    Politiche coordinate – Integrare il contenuto del carbonio nel suolo in linea con gli impegni nazionali sul clima dell'accordo di Parigi e altre politiche sul suolo e sul clima;
8.    Fornire supporto – Garantire agli agricoltori assistenza tecnica, incentivi, sistemi di monitoraggio e tasse sul carbonio per promuovere un'implementazione diffusa.

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La cultura del bosco: tradizione e modernità

Il tema proposto non è affatto semplice e di non facile sintesi. Ho chiesto aiuto al dizionario della lingua italiana Devoto – Oli in cui la cultura si identifica nel complesso delle acquisizioni spirituali di un ambiente determinato ovvero la sintesi armoniosa delle cognizioni di una persona con le sue esperienze. Trasferendo questo concetto al soggetto bosco mi sono chiesto: l’ambiente determinato, cioè il bene comune bosco, ha fornito e fornisce ancora acquisizioni e cognizioni spirituali capaci di creare la sintesi armoniosa tra conoscenze, esperienze e sensibilità?
Vedo quella sintesi spirituale attraverso la selvicoltura che rappresenta la scienza impegnata nell’individuazione del più armonioso compromesso tra uso (beni e servigi) e conservazione delle funzionalità dell’ecosistema bosco, nell’ambito di un’accurata analisi della dinamica degli stadi evolutivi di questo.
L’uomo si è arricchito, in funzione delle conoscenze del momento, nella comprensione del ruolo della foresta che, con la sua presenza ed il suo uso, recava servigi e benefici al proprio benessere ed alla propria sopravvivenza. Questo arricchimento è indispensabile, oggi più che mai, per la corretta gestione di un territorio così variegato per le condizioni eco-stazionali, per le tipologie forestali, per quelle socio-economiche che sono tra loro interconnesse, caratterizzanti un’area come quella in cui la foresta modello è inserita in toscana.
Desidero riprendere alcuni spunti da quanto scritto da William Bryant Logan (arboricoltore, paesaggista, storico) nel suo libro La quercia. Storia sociale di un albero. A questo albero (genere quercus) è stata attribuita massima importanza in quanto capace di insegnare all’uomo i segreti della selvicoltura. Nel volume ne viene narrata la sua socialità intrinseca e come rappresentante di tutti i boschi, è individuato come idiotipo dell’espressione massima del rapporto di socialità tra l’uomo ed il bosco in quanto manifesta forse la massima flessibilità d’uso mostrando, nella non specializzazione, la sua specialità.  
Nel passato quasi tutto ciò che serviva all’uomo, la casa e la città, il carro, l’aratro, la nave, il barile era realizzato con il legno. Ma nel bosco era riposta anche la spiritualità in quanto regno delle forze del bene e del male, scrigno dei simboli di fertilità e di morte, luogo sacro sede di oracoli ed incantesimi. In effetti i rapporti uomo/foresta sono stati e lo sono ancora oggi, molto contrastanti.

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