Notiziario















Post-verità in tavola

Post-verità o post-truth o “oltre la verità” è la parola dell’anno 2016 dell’Oxford English Dictionary e identifica una notizia che, spacciata per autentica, sarebbe in grado di influenzare una parte dell'opinione pubblica, divenendo di fatto un argomento reale, dotato di un apparente senso logico e questo toccando emozioni o sollevando pregiudizi. Infatti l’Enciclopedia Treccani definisce post-verità un’argomentazione caratterizzata da un forte appello all’emotività che basandosi su credenze diffuse e non su fatti verificati tende a essere accettata come veritiera, influenzando l’opinione pubblica. Sebbene questo fenomeno abbia origini antiche, attraverso la pubblicità e i social media la possibilità di diffusione di questo tipo di falsità disinformativa è aumentata in modo esponenziale coinvolgendo anche argomenti delicati come l’alimentazione.

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Non basta la coscienza ambientale. Non c’è cambiamento senza conoscenza

In questi giorni mi ha colpito una citazione di Pasolini, sentita in radio, che poi ho scoperto essere errata pur se, in quel momento, suonava perfetta, tanto che, parafrasandola l’ho scelta come titolo di questo articolo. Nel cercarla, mi sono imbattuto in un’altra sua citazione: «La vita consiste prima di tutto nell’imperterrito esercizio della ragione. Meglio essere nemici del popolo che nemici della realtà» (da I giovani infelici. Lettere luterane, 1975). Pur essendo stata scritta 42 anni fa questa frase mi è parsa straordinariamente attuale.

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Vini naturali: informazioni per i consumatori

Fino a 10 anni fa era impensabile parlare di vino naturale come di un prodotto che poteva fare tendenza sul mercato, oggi, invece, se ne parla ovunque ed è sicuramente una di quelle tendenze che riescono a muovere masse e mercati.  Ma quali sono le informazioni che hanno i consumatori sui vini naturali?
E’ lecito porsi questa domanda quando si tratta di un argomento che è spesso controverso. Da qualche anno, infatti, tra gli addetti ai lavori è in corso un dibattito sulla correttezza o meno di affiancare il termine naturale alla parola vino. Poiché non esiste una normativa che disciplina la materia, accostare al vino il termine naturale, può contribuire a rendere poco chiare le idee al consumatore e rischiare, invece, di render banale tutto il lavoro, la dedizione e le convinzioni etiche che ci sono dietro la produzione di questi vini.
Una definizione non troppo semplice, ma che neanche rischi di banalizzare l’argomento, può aiutare a delineare il campo: un vino è naturale quando per ottenerlo, l’intervento dell’uomo sia in vigna che in cantina, si limita al minimo indispensabile.
La produzione di un vino naturale vuole essere l'espressione naturale di un terroir, di un gusto che deriva da una vinificazione avvenuta in maniera del tutto naturale.  Un vino è naturale quando viene realizzato partendo dalla produzione di uve biologiche, mediante fermentazione spontanea del mosto, senza aggiunta di altre sostanze, fatta eccezione, eventualmente, per piccole quantità di anidride solforosa; i trattamenti sono ridotti al minimo ed impiegati solo se strettamente necessari o, addirittura, non impiegati affatto. È quindi in vigna che nasce il vino naturale, stimolando la crescita delle piante senza forzarne la produttività ed aiutando il terreno a mantenere la propria naturale fertilità. E’ sostanzialmente un ritorno ai metodi di vinificazione dei nostri avi prima che l’avvento della tecnologia contribuisse, da una parte a semplificare il lavoro dei viticoltori, ma dall’altra a determinare il verificarsi di alcuni difetti, come l’appiattimento del sapore e la perdita di carattere.
Il consumatore oggi, di fronte al continuo bombardamento mediatico che tratta allo stesso modo i vini naturali, biologici e biodinamici, certamente, se non è un consumatore esperto dell’argomento non può che trovarsi di fronte ad una grande confusione che si ripercuoterà, inevitabilmente, sulle sue scelte e sulle sue convinzioni, giuste o sbagliate che siano.

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Fuksas e i platani

Alla domanda “Qual è la sua paura più grande oggi?” la risposta di Massimiliano Fuksas ("Panorama", 21 novembre 2018, p. 70) è stata chiara: “Che mi cada in testa un platano sul Lungotevere”. Parole che impongono una profonda riflessione sul ruolo del verde urbano e sulla sua percezione da parte del cittadino.
In realtà gli alberi dei lungotevere sono piante maestose, autentici protagonisti tra i 330mila esemplari capitolini, ormai secolari, spettacolari in ogni stagione, destinati a ingentilire gli argini del fiume e, con i loro rami cadenti, “velare il biancore sfacciato dei nuovi muraglioni”, sì da rappresentare una delle classiche immagini associate alla Città Eterna. Geometrie naturali che, con le loro foglie, i rami, i giochi di luce, il rumore del vento, offrono al cittadino e al turista scorci sempre diversi, in quella che originariamente era destinata a rappresentare la passeggiata dei romani nella neonata Capitale (salvo trasformarsi nel tempo in mero caotico asse di trasporto), ma anche protagoniste delle più iconiche scene del cinema moderno. Presenze fondamentali nel magico panorama tiberino, essenziali per i loro servizi ecosistemici, ma al tempo stesso oggetto di polemiche e fonte di preoccupazione, questi platani. Scarsità di personale, mezzi e risorse economiche; incuria, carenze di manutenzione e scelte tecniche imbarazzanti (come non ricordare l’asfaltatura che ha ricoperto il marciapiede sino al colletto?); ambiente ostile (traffico, condizioni pedologiche pessime e asfissia radicale in primo luogo); traumi e lesioni quotidiane di varia natura a fusto e radici: sono questi i principali fattori che rendono difficile la vita degli alberi urbani, in perenne stato di emergenza. A ciò si aggiunga un vero killer del platano, il microfungo fitopatogeno Ceratocystis platani, agente del cosiddetto “cancro colorato”, il cui vettore fondamentale è … l’uomo con gli interventi di potatura con attrezzi infetti! La malattia è da tempo presente nei lungotevere e, nonostante sia tenuta sotto costante osservazione dal Servizio Fitosanitario Regionale, rischia di causare un’ecatombe in tempi rapidi.

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I rimboschimenti di pino nero: risorsa o problema?

Il 27 novembre si è tenuta presso l’Accademia dei Georgofili una giornata di studio sul futuro dei rimboschimenti di Pino nero che in Italia interessano circa 136.000 ettari distribuiti in varia misura praticamente in tutte le Regioni. La Toscana secondo l’IFNC (2005) ne ha oltre 11.000 ettari mentre il primato spetta alla Calabria con quasi 40.000 ha.
Si tratta dei risultati di una vasta attività, finalizzata per lo più alla difesa idrogeologica di territori collinari e montani, iniziata dopo il primo conflitto mondiale e proseguita soprattutto dopo l’ultima guerra. Oggi questi boschi si concentrano per oltre i 2/3 nella fascia di età che, secondo la normativa vigente in Toscana, è matura per la rinnovazione.

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L’Itinerario Italiano: Lorenzo Baroni e il suo “lavoro in corso”

Dell’arrivo in Accademia di un utile e corposo volumetto dava comunicazione il segretario degli Atti Giuseppe Sarchiani nell’adunanza del 5 marzo 1806, esprimendo compiacimento per il dono ricevuto da parte del suo autore, il georgofilo Lorenzo Baroni, socio ordinario dal 7 luglio 1802.
Si trattava della quarta edizione dell’Itinerario Italiano, uscito anonimo a Firenze presso Niccolò Pagni nel 1800; l’esemplare donato ai Georgofili, corretto e aumentato era stato prodotto sempre a Firenze dagli stampatori Tofani e Compagni nel 1805 ed era acquistabile nel negozio del “mercante di stampe” Niccolò Pagni presso la locanda dell’Aquila Nera.

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“Nuove” tecnologie per monitorare l’impatto ambientale sulla vegetazione: la spettroscopia

Il cambiamento climatico è ormai riconosciuto come una delle più gravi minacce ambientali, sociali ed economiche che il mondo si trova ad affrontare e le soluzioni al problema sono tanto chiare quanto oggettivamente difficili da raggiungere: ridurre le emissioni di gas responsabili del riscaldamento globale e adattarsi ai futuri scenari per diminuirne gli effetti sfavorevoli. Vi è poi da considerare il fenomeno della crescita della popolazione globale (che passerà dagli attuali 7,5 a circa 10 miliardi di abitanti nel 2050), con conseguente innalzamento repentino della richiesta agro-alimentare e la contestuale riduzione delle superfici coltivate. Queste sono sfide fondamentali per l’agricoltura e per i processi decisionali delle relative politiche agricole.
E allora rimbocchiamoci le maniche (!), ispirati dalle sempre attuali (seppur ormai ventennali) parole del Prof. Giovanni Scaramuzzi (Patologo vegetale dell’Università di Pisa), casualmente rinvenute durante la stesura del presente contributo: “L’innovazione tecnologica costituisce il «motore» potente dell’agricoltura, anzi di tutta l’economia nazionale. E l’agricoltura deve avere un futuro; oltre alla quantità, qualità e sicurezza degli alimenti, essa ha sulle proprie spalle anche altre pesanti responsabilità, quali la protezione del paesaggio, la salvaguardia dell’ambiente, il contributo alla vita rurale”. Effettivamente, l’innovazione tecnologica in agricoltura sta aprendo scenari e possibilità di cambiamento nella gestione delle comuni pratiche, difficilmente ipotizzabili fino a qualche tempo fa.
Adeguate tecniche di monitoraggio sono necessarie per diagnosticare l’impatto ambientale sulla vegetazione, nonché per valutare l’efficacia delle procedure adottate. I metodi tradizionali, che prevedono analisi fisiologiche e biochimiche di materiale vegetale campionato, possono essere precisi, ma presentano limitazioni, essendo mini-invasivi e/o distruttivi e richiedendo, solitamente, tempo e rilevanti risorse economiche. Approcci alternativi stanno emergendo grazie allo sviluppo di nuovi sensori, all’avanzamento delle capacità computazionali e al miglioramento delle metodologie (l’innovazione tecnologica!). In tale contesto, si inserisce la spettroscopia di vegetazione, una tecnica pratica ed efficace per la valutazione dell’interazione pianta/ecosistema-ambiente.

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Di alberi, uomini e linguaggi Spelacchiati

Che gli alberi siano organismi di intelligenza eccezionale, lo sappiamo. In questo assunto siamo sicuramente confortati da ricerche, più o meno recenti, che stanno mettendo in luce le loro incredibili capacità organizzative e comunicative. Ma il solo soffermarsi sul fatto che molte delle specie arboree che vivono nei nostri paesaggi contemporanei hanno iniziato la loro storia sul pianeta decine e decine di milioni di anni fa, ci può aiutare a comprendere quanto sia complessa e articolata la loro vita sociale. L’intelligenza degli alberi è profonda e spettacolarmente ricca di linguaggi e possibilità.
D’altronde, parlare con gli alberi è uno dei sogni, forse fra i più antichi, di noi esseri umani: gli individui e le popolazioni della nostra giovanissima specie (qualche centinaia di migliaia di anni, una minima frazione della traiettoria della vita sul pianeta) hanno sempre visto negli alberi simboli e risorse. Ammirazione per questi individui giganteschi e apparentemente eterni, rispetto per la loro prodigalità nel fornire risposte ai bisogni degli uomini. Alberi della vita, del bene e del male, alberi da cui trarre legno, legna, frutti o medicamenti. Oppure più semplicemente, alberi come luogo d’incontro in qualche remoto villaggio. Ammirazione, rispetto, compagnia.
Vorrei riportare due brevi esempi dell’importanza degli alberi nella storia degli uomini e della tensione a trovare linguaggi e sfere comuni. Nelle Finnegans Wake [1], alla domanda su quale sia “il nostro essere sovrano", Yawn descrive 'Oakley Ashe's elm', ossia l’olmo di Oakley Ashe, sintesi generatrice del femminile e del maschile. Ma sappiamo che, in questa sua sorprendente opera, James Joyce inventa continuamente, in una prospettiva polisemica, nuovi termini che sono a loro volta segni, simboli, sintesi. Non è probabilmente casuale che l’albero scelto da Joyce sia un olmo (elm), elemento maschile, ma anche un frassino (ash), raffigurazione del femminile, che poi è anche quercia (oak), albero sacro in gran parte d’Europa. Poco più avanti, nella narrazione - definita intraducibile- delle Finnegans Wake, l’albero si anima di movimenti, nello spazio e nel tempo: le foglie si rinnovano come pagine di lettere, in una concatenazione perpetua di bene e male, dalla notte dei tempi, e i rami danzano, uno e tutti, incontrandosi e stringendosi mani contorte.
Barbalbero (Treebeard), scrive Tolkien [2], è alto quattordici piedi (ossia quattro metri o poco più) e nell'aspetto è simile ad un albero, come tutti i suoi simili. Ha il fisico di un uomo, quasi senza collo, e sarebbe difficile dire se ciò che lo ricopre sia una specie di corteccia verde e grigia, o la sua stessa pelle. Sulle prime gli Hobbit notarono di Barbalbero soltanto gli occhi, occhi profondi che li osservavano, lenti e solenni, ma molto penetranti. Erano marrone, picchiettati di luci verdi.
Due narrazioni, fra le mille e mille possibili, della ricerca di un linguaggio, dell’ansia di comunicazione e di identificazione che gli uomini hanno sempre tentato di instaurare con gli alberi.
Joyce ha impiegato 17 anni per scrivere le 648 pagine delle Finnegans Wake. Curiosamente anche a Tolkien ci sono voluti 17 anni e 1260 pagine per scrivere il Signore degli Anelli, dove Barbalbero prende vita.
Di tutt’altro scrive, divertendosi e divertendoci, Carlo Maria Cipolla [3]. Parla di pepe e di stupidità ma, fra le altre annotazioni, vorrei cogliere un passo dove l’Autore dice che gli Antichi Romani erano notoriamente pratici. E anche parchi. È altrettanto evidente che anche i Nuovi Romani lo siano. In particolare per le parole.
Che c’entra questo?
C’entra, c’entra. Ai Romani sono bastati, infatti, pochi giorni per varare un neologismo dedicato a un albero.

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Genetica agraria: carenze di dialogo tra scienza e società

La manifestazione “Prima I Geni”, tenuta presso l’ISS Mattei-Fortunato di Eboli (SA), ha rappresentato un importante momento di confronto tra i principali attori della nostra agricoltura su una tematica di grande attualità come quella del genome editing. L’evento, organizzato dalla Società Italiana di Genetica Agraria (SIGA) in collaborazione con l’Accademia dei Georgofili-Sezione Sud-Ovest, si è svolto lo scorso 23 novembre in un’area fortemente vocata all’agricoltura ad alto reddito, la Piana del Sele.

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Un sacchetto di guai per la distribuzione e i consumatori

Il primo gennaio 2018 gli Italiani scoprirono che si riduceva la libertà economica e c’era una nuova tassa occulta. Era nato l’obbligo per i negozi di vendere i prodotti, in prevalenza frutta e verdura, in sacchetti ecologici a pagamento e per gli acquirenti di acquistarli negli stessi sacchetti. In quei giorni, come forse si ricorderà, vi fu un florilegio di notizie, commenti e pareri emessi da un’umanità variamente competente. Poi, con qualche mugugno, tutto rientrò nel silenzio e i consumatori iniziarono a spendere un centesimo o due in più ad ogni acquisto di ortofrutta, distinto per specie e varietà commerciale.

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La difficile via per nutrire correttamente l’umanità, salvaguardando il pianeta.

Il problema “nutrire la popolazione crescente e salvaguardare il pianeta” non è nuovo, neppure fra i miei interessi, per almeno due ragioni: la prima è che sono consapevole di come lo sviluppo integrale debba riguardare tutto l’uomo, ma anche tutti gli uomini (di ogni dove) compresi quelli del futuro; la seconda è che da zootecnico mi sono sentito “concausa della perdita di efficienza di molti alimenti, se destinati agli animali e non direttamente all’uomo”. Senza entrare in troppi dettagli, l’idea che mi sono fatto – su basi scientifiche che reputo sufficienti e di cui scrivo da anni – è che i prodotti di origine animale sono indispensabili per evitare problemi di malnutrizione (specie nei Paesi poveri), tuttavia è opportuno ridurli al minor livello possibile per evitare talune inefficienze e il non necessario ricorso agli animali.
Con questa premessa, si potrebbe dedurre che condivida l’accoglienza entusiastica del Prof. Amedeo Alpi per il lavoro pubblicato su “Elementa. Science of the Anthopocene” da parte di di un gruppo di ricercatori dell’Università di Lancaster, UK (Berners-Lee M. et al., 2018. Current global food production is sufficient to meet human nutritional needs in 2050 provided there is radical societal adaptation). V. http://www.georgofili.info/detail.aspx?id=9044
 
In realtà la mia posizione è ben diversa, ma non perché il loro argomentare sia per principio errato, bensì perché il predetto lavoro è frutto di una serie di semplificazioni che tendono a falsare il risultato e soprattutto la prospettiva.
In particolare:
-    nel momento in cui si parla di fabbisogni proteici pari a 0,75 g/kg di peso vivo, in teoria corretto per non provocare carenza, in realtà non si tiene conto della qualità aminoacidica e in particolare del fatto che questo valore minimo presuppone un buon bilanciamento fra proteine vegetali e animali (circostanza ben nota ai nutrizionisti). Allo stato attuale, queste ultime circostanze valgono solo per una parte e non certo maggioritaria della popolazione mondiale; inoltre, seguendo i suggerimenti del lavoro, il problema potrebbe amplificarsi. Pertanto sarebbe logico, almeno per prudenza, utilizzare fabbisogni ben superiori, che in realtà si deducono anche dalla stessa British Nutrition Foundation, citata nel lavoro, che in una tabella riporta i DRVs (Dietary Reference Values): 2000 kcal/die per l’energia di cui 50 % da carboidrati, non oltre 35 % da lipidi, mentre non si riportano le proteine; poiché l’alcool è sconsigliato, a rigor di logica, il restante 15 % dovrebbe essere rappresentato dalle proteine. In effetti, anche altrove si suggerisce che l’energia da proteine non dovrebbe scendere sotto al 10 % delle calorie, con preferenza per il 15 %; se dunque il fabbisogno energetico è intorno alle 2000 Kcal, le proteine dovrebbero fornire circa 300 kcal, quindi 75 g/die (valore che non è più così lontano dagli 81 g calcolati dai predetti autori come ingestione media giornaliera);
-    argomento analogo potrebbe essere introdotto per alcuni micro-nutrienti, in particolare per il ferro per il quale è semplicemente fuori luogo equiparare la fonte vegetale con quella animale (carne), ma non tedierò oltre il lettore;
-    con una qualche sorpresa ho poi constatato che vengono inserite fra le perdite (di energia, proteine ecc.) le quote non utilizzabili di erbe varie e sottoprodotti fibrosi, mentre in realtà si dovrebbe parlare di un guadagno, di quanto reso disponibile, in quanto derivante da materiali altrimenti inutilizzabili dall’uomo;
-    pure sorprendente la circostanza che non si sia tentata alcuna differenziazione fra paesi dove si pratica un’agricoltura di sussistenza (circa 1/3 della popolazione mondiale e delle terre coltivate), rispetto a quella più o meno intensiva; la prima si caratterizza  per l’esiguità dei prodotti animali – da cui malnutrizione – ma anche perché, in prospettiva, si può pensare ad un aumento della loro produttività senza i rischi ambientali dei Paesi dove è già oggi intensiva;
-    noto infine che a pag. 7 (“future scenarios”) gli autori, adducendo una ragione discutibile: “future yields increases are unpredictable”, fanno una scelta che, senza mancare di rispetto, oserei definire “dello struzzo”, cioè usare i dati produttivi del 2013. Ciò anche perché, nel recente Report OECD-FAO Agricultural Outlook 2018-2028, si parla di un aumento prevedibile della produzione agricola mediamente pari al 20 % e – guarda caso - riferibile soprattutto ai Paesi meno sviluppati, grazie a una intensificazione sostenibile che – anche per gli animali – può significare differenze enormi in termini di efficienza; aspetto che, i predetti autori, neppure adombrano utilizzando al contrario i valori più penalizzanti per le produzioni animali;
-    non posso poi esimermi dal rimarcare che i quattro autori sono tutti appartenenti a     strutture universitarie di tipo sociologico e ambientale, da cui il sospetto che le loro     competenze, almeno nutrizionali e agricole, siano soltanto approssimative.

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“Premio CREA - Giampiero Maracchi 2018” sui temi dell’agroclimatologia

Il “Premio CREA - Giampiero Maracchi 2018” è istituito allo scopo di incentivare nei giovani la passione per la Ricerca. Possono partecipare ricercatori italiani che abbiano pubblicato un lavoro sul tema dell’agroclimatologia, su rivista internazionale con IF.
Il lavoro deve essere stato pubblicato nel 2018 (o accettato entro dicembre 2018).
Il termine per la presentazione delle domande è fissato al 31 gennaio 2019.
Il premio dell’importo di € 2.000,00 sarà assegnato a giudizio insindacabile della Commissione.
La premiazione avverrà in occasione dell’Inaugurazione del 266° Anno Accademico dei Georgofili e il vincitore riceverà comunicazione dal Presidente e dovrà essere presente alla Cerimonia.

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Ai Georgofili la Presidenza della UEAA per il prossimo biennio

Si è svolto a Firenze il 22 e 23 novembre 2018, presso l'Accademia dei Georgofili, il Congresso della UEAA (Union of European Academies for Science Applied to Agriculture, Food and Nature).
La UEAA è l'Unione Europea delle Accademia di Agricoltura e ne fanno parte molti Paesi: dalla Croazia all'Inghilterra, dalla Grecia alla Francia, dall'Estonia alla Georgia, dalla Svezia alla Finlandia, dal Portogallo alla Romania, all'Ucraina e altri ancora.

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"Potenzialità della tecnologia genome editing per la difesa delle piante", un incontro a Pisa

L’incontro, che ha la finalità di fare il punto sulle possibili applicazioni della tecnica del genome editing al fine di fornire nuovi strumenti per la gestione delle malattie delle piante, vedrà l’intervento di esperti ricercatori italiani che toccheranno diversi aspetti connessi con la difesa delle piante da avversità biotiche e abiotiche.

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Che nelle nostre città non sorgano solo grattacieli, ma anche “alberi di trenta piani”

Si va rafforzando la persuasione che la scienza sia il possibile schermo di un sistema di potere economico occulto. La diffusione del pregiudizio antiscientifico è a misura di quella del risorgente pregiudizio anti capitalista. La ‘cultura del sospetto’ non è tanto l’ingenuo riflesso di un’opinione pubblica ignara dei progressi della scienza moderna, quanto una manifestazione della più diffusa sindrome politica contemporanea (Carmelo Palma, 2017).
Ho preso questa frase come incipit di questa riflessione perché trovo che si attagli perfettamente alla situazione che interessa gli alberi nel nostro Paese in cui, per esempio, una specie di manifesto elettorale di una lista civica di un comune del Nord Italia, al primo punto del programma si chiede, anzi promette, un
“abbassamento drastico di tutte le piante di alto fusto”.
Non voglio ancora tornare sull’argomento capitozzatura da me già ampiamente e anche noiosamente dibattuto ma, come al solito, annichilisco di fronte a quella che è una situazione paradossale, come questo scellerato intervento, che non solo viene accettato dai cittadini come “normale”, ma che, anzi, viene richiesto a gran voce, implicando l'impossibilità di qualunque reazione da parte di chi cerca di far ragionare, creando la classica situazione kafkiana.
Tutti abbiamo visto il disastro ambientale causato dal ciclone di fine ottobre (e da altri precedenti) che ha colpito il nostro paese e siamo rimasti sconcertati di fronte a tutti gli alberi che sono stati abbattuti. Però cosa è che adesso si chiede a gran voce? Capitozzature e abbattimenti, perché il pericolo non è il cambiamento climatico e gli eventi estremi. Il pericolo sono gli alberi, cioè chiediamo di aggiungere disastro al disastro.
Io stesso ho detto più volte che è necessario un rinnovo delle nostre alberature (mi riferisco soprattutto a quelle poste su strada), ma ciò non vuol dire abbattere indiscriminatamente.
Vuol semplicemente dire che dobbiamo riflettere su ciò che sarà o, meglio, dovrà essere la nostra città e, quindi, ragionare in termini di “gestione versus rinnovamento”, ponendosi, cioè, la domanda: ha senso (economico, ecologico, tecnico...) gestire qualcosa che sappiamo non essere adatto e potenzialmente rischioso, oppure è meglio pensare a un graduale ricambio di quegli alberi che presentano problematiche tali da risultare poco facilmente mantenibili?

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Proteggere le coste per salvare l’economia del mare

Quando il 19 Ottobre u.s. decidemmo di portare all'attenzione della opinione pubblica la difficile e complicata problematica dell'erosione costiera nella nostra regione, non sapevamo che di lì a qualche giorno si sarebbero verificati sul territorio italiano una serie di cataclismi che evidenziarono la ormai difficile prevedibilità di eventi climatici estremi, ma anche una oggettiva fragilità di tanti ambienti italiani, tra i quali le coste. Ci furono presentate tante situazioni italiane -e anche toscane- con numerosi tratti di costa completamente stravolti sia sotto il profilo ambientale, ma anche sotto quello dei numerosi e diversi manufatti strutturali variamente danneggiati se non distrutti.
D'altra parte l'ambiente costiero è valutato dagli esperti come molto dinamico; la linea di costa può subire modifiche a seguito delle azioni del clima, ma anche in dipendenza della natura geologica, dei fattori biologici e, infine, antropici.
Si può pensare alla ineluttabilità di tali eventi e alla scarsa possibilità di contrasto che abbiamo; si usa dire che la forza del mare non può essere contrastata, però sappiamo che, nonostante il problema non sia semplice, si possono intraprendere promettenti strategie difensive (scogliere frangiflutti, difese radenti, pennelli, ripascimenti, dragaggi, ecc.). Che tali interventi siano necessari è dimostrato dai notevoli danni registrati in varie località marine durante il periodo di mal tempo pocanzi citato, danni che potevano essere contenuti se si fosse intervenuti per tempo. Particolare attenzione va data a quegli interventi che interessano un limitato tratto di costa in erosione, perché possono innescare fenomeni erosivi sui tratti adiacenti non protetti. Inoltre l'arretramento delle coste si associa spesso alla demolizione dei sistemi dunali, che costituiscono una valida protezione degli ambienti retrostanti e quindi della vegetazione presente. La manutenzione degli ambienti dunali è pertanto fondamentale.

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