Ampio risalto, nei giorni scorsi, alla notizia che la pizza napoletana è candidata a diventare patrimonio dell‘Unesco, accolta con grande consenso dai giornalisti, dai politici che l’hanno propiziata e dall’opinione pubblica. L’Unesco è l’organizzazione dell’Onu per “l’educazione, la scienza e la cultura”, dunque c’è qualche cosa che non torna. Con pazienza si scopre che, in realtà, il riconoscimento non andrebbe alla pizza, ma “all’Arte dei pizzaioli napoletani” e sarebbe concesso nell’ambito della Convenzione Unesco “Per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale” che comprende “le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, il know how… che le comunità, i gruppi … gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale”. La Lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale dell’umanità elenca gli elementi di questo patrimonio che sono 348, di cui 6 italiani, in attesa dell’Arte dei pizzaioli. In genere i Paesi sviluppati sono poco presenti, con l’eccezione del Giappone e dell’Italia.
La notizia è stata accolta da commenti enfatici, spesso poco coerenti con il patrimonio culturale immateriale e con la sua salvaguardia. Si è detto che dimostra come la pizza sia “il patrimonio culturale immateriale più rappresentativo del nostro paese” e anche che sottolinea “il valore culturale che la pizza rappresenta per l’Italia”. Due affermazioni oltraggiose, la Cultura è ben altro, e forse viziate da un eccesso di entusiasmo, comunque fuori tema perché dimostrano scarsa conoscenza dei termini e dell’oggetto del riconoscimento. Molti commenti sembrano basarsi sul concetto che si sarebbe raggiunta una sorta di conferma della tipicità della pizza, a vantaggio dell’agroalimentare italiano e della sua difesa, avanzando anche cifre sul suo valore economico. A parte l’indimostrabilità di questo dato, è il gran parlare che si fa in Italia di cultura della cucina e degli alimenti tipici che determina una generosa confusione.
L’inserimento nella Lista dei valori culturali immateriali è importante, ma è una medaglia che non comporta un ritorno economico diretto. Non significa che possa dirsi pizza solo quella ottenuta dall’Arte dei pizzaioli napoletani. Né che comporti un maggior ricavo per un alimento italiano o faccia vendere più pizze italiane nel mondo o, per l’agricoltura italiana, che faccia vendere più farina, pomodori, mozzarella, olio e ogni altro fantasioso e squisito ingrediente inserito sul più semplice cibo pensato dall’umanità.
Siamo lieti e fieri del riconoscimento ai nostri pizzaioli, ma consapevoli che la valorizzazione del nostro talento, delle nostre materie prime e del modello alimentare si conquista sul mercato, senza medaglie che nulla aggiungono alla sostanza della competizione. Le medaglie vanno bene, ma ricordano oggetti in disuso, come quelle che compaiono sulle bottiglie dei liquori e dei vermouth dell’Ottocento. Troppo tardi si è capito che il mercato si conquista combattendo ogni giorno con i concorrenti e producendo prodotti migliori. Il ruolo di piatto globale si conquista, ad esempio, aprendo per primi una pizzeria nella Piazza Rossa, come Pizza Hut.
Ciò nulla toglie al fatto che la Margherita del nostro pizzaiolo napoletano sia sempre la migliore.