Parlare ancora di cambiamenti climatici, emergenza, alluvioni, siccità, sfollati, vittime significa alimentare lo sfinimento della gente, che non ne può più. I salotti televisivi sono affollati di improvvisati geologi, climatologi, agronomi, sociologi che discettano su questi temi, non sempre a proposito. Pur consapevole che in questi momenti bisogna tacere e riflettere, mi permetto di aggiungere qualche riflessione sul rapporto territorio e sua gestione, agricoltura e crisi climatica. Quest’ultima, con buona pace dei negazionisti, significa aumento in intensità e in frequenza dei fenomeni estremi. Di un segno e di quello opposto: siccità e alluvioni, ondate di calore e ondate di gelo, piogge ed eventi grandinigeni. La parola chiave è “estremo”. Siamo entrati in una epoca in cui il clima, in ogni sua manifestazione, è più estremo di come lo conoscevamo.
Attribuire tanti lutti e tanti danni alla solita calamità naturale ingigantita dai cambiamenti climatici, però, è riduttivo. Ci chiediamo: è solo la Natura la responsabile, oggi, delle centinaia di frane che si sono verificate in diversi comuni dell’Emilia Romagna oppure sono state determinate da eccessiva cementificazione a da certe scelte urbanistiche sbagliate? Molte case sono finite sott’acqua poiché costruite a ridosso dell’argine dei fiumi e sotto la quota del livello dell’acqua. L’ISPRA denunciava, già nel 2015, come il consumo di suolo fosse schizzato, nel dopoguerra, al 10.8% (oltre il doppio della media del territorio urbanizzato in Europa: 4,3 %), con picchi in Veneto, Lombardia, Campania, Liguria ed Emilia Romagna.
Tale tendenza è trainata anche dall’economia: al di là di ogni ambizione di sostenibilità, il consumo di suolo è maggiore nelle regioni dove l’economia tira di più. L’Emilia Romagna non sfugge alla regola: oltre che per consumo di suolo, la Regione è terza anche per ricchezza pro-capite.
Ruolo dell’agricoltura e implicazioni sul clima
Diventa sempre più pregnante il ruolo multifunzionale dell’agricoltura; oltre alla semplice produzione di derrate per l’alimentazione umana e zootecnica, essa intercetta bisogni espliciti della comunità in termini di sostenibilità ambientale, di riduzione dell’inquinamento, di sicurezza alimentare, di prevenzione delle malattie, di attenzione alle fonti energetiche rinnovabili.
Nello stesso tempo, è opportuno rammentare che il territorio dell’Italia è piuttosto fragile e fortemente urbanizzato: dal punto di vista orografico, esso è formato dal 42% di collina, 35% di montagna e 23% di pianura. Ciò ha generato le “mille agricolture” del nostro Paese. Semplificando: i) quella intensiva di pianura che fornisce prodotti delle grandi colture e delle principali commodities destinati al canale della grande distribuzione organizzata (colture cerealicole, colture orto-frutticole, colture da olio, da vino e da proteine, prodotti dell’allevamento zootecnico); ii) quella di collina e montagna, praticata su piccole superfici, che fornisce prodotti tipici del territorio, destinati a consumatori fidelizzati ed ai mercati a “Km zero”.
Tradizionalmente, l’agricoltore è il primo presidio del territorio, dei suoi prodotti e del proprio patrimonio culturale, storico-artistico e paesaggistico, così come il Made in Italy rappresenta il cuore dell’economia italiana al quale concorrono l’agricoltura, l’allevamento e l’artigianato.
Tuttavia, l’agricoltura italiana ha davanti a sé scenari di forti mutamenti, in gran parte esterni al contesto nazionale, e di grandi sfide per rispondere in maniera adeguata ai cambiamenti in atto (aggiornamento degli ordinamenti colturali, rivisitazione delle tecniche di coltivazione e di difesa delle piante, maggiori garanzie sulla qualità e salubrità degli alimenti, nuovi stili alimentari, maggiore consapevolezza dei consumatori nelle scelte alimentari).
Gli scenari che si aprono variano a seconda della orografia del territorio.
Aree collinari e montane
Fino ad alcuni decenni fa il valore agricolo dei territori collinari e montani era maggiore e giustificava l’estensione delle attività agricole anche su terreni molto acclivi; ciò, a sua volta, implicava la realizzazione e la costante manutenzione di una fitta rete di fossi e cunette per lo smaltimento delle acque superficiali, baluardo contro frane ed erosioni.
Il progressivo spopolamento di questi territori e la relativa contrazione delle attività agricole hanno comportato l’abbandono di terreni incolti e la loro desertificazione o trasformazione in boscaglie; è mancata una efficace regimazione delle acque superficiali ed è aumentata la suscettibilità a dilavamenti, smottamenti e dissesti del territorio. Certamente, si tratta di aree che non torneranno ad essere coltivate e, nello stesso tempo, non possono essere abbandonate! Forse potrebbero essere valorizzate per altri impieghi. Quali?
Prima di tutto, bisogna impegnarsi nella riqualificazione delle aree boschive degradate o danneggiate da frane e incendi. La ricostituzione del patrimonio forestale ha una valenza multifunzionale: fornisce biomassa ligno-cellulosica da destinare alla produzione di biocarburanti di seconda generazione (un contributo significativo alle energie rinnovabili), aumenta la fruizione del verde pubblico e l’interesse per il turismo. Per l’impronta sempre più green che occorre dare alla nostra vita di cittadini di questo Pianeta, il territorio è percepito anche luogo di ricreazione, di rigenerazione dello spirito e di contrasto allo smog che si respira in città. Di fatto, l’economia di questi territori tende ad essere prevalentemente terziaria nelle zone individuate come maggiormente vocate per lo sviluppo turistico. Tali aree potrebbero, inoltre, ospitare delle isole energetiche e impianti di pannelli fotovoltaici per la produzione di energie rinnovabili oppure attività che non richiedano presenza assidua sul territorio: allevamenti zootecnici estensivi; attività apistica; impianto di erbe officinali (la melissa, la rosa canina, la camomilla, la menta, la lavanda e tante altre erbe hanno un alto valore aggiunto, sono coltivabili anche su piccole estensioni e senza l'ausilio di mezzi meccanici particolari); di frutti di bosco (gli italiani sono grandi consumatori di more, lamponi e mirtilli; tra questi non si può non citare il Goji, una pianta che sta avendo un enorme successo negli ultimi anni; le sue bacche hanno interessanti proprietà nutraceutiche che ne fanno un alimento molto ricercato; anche il goji è una pianta rustica, che non necessita di particolari trattamenti, e le cui bacche hanno un prezzo di mercato elevato).
Va altresì rilevato che se da un lato la meccanizzazione agricola ha soppresso posti di lavoro (e lo faranno ancora di più la robotica, l’agricoltura 4.0 e l’Intelligenza Artificiale), da un altro lato sono emersi nuovi profili occupazionali: per la cura del verde, delle aiuole e dei parchi; per la realizzazione di infrastrutture per la regimazione e lo stoccaggio delle acque (invasi); per la sistemazione degli acquedotti (che perdono oltre il 40% dell’acqua veicolata); per la manutenzione delle strade (del fondo e dei cigli inerbiti): quanto sarebbe utile il vecchio “cantoniere”! Si tratta di competenze quasi tutte in capo alle Amministrazioni locali, che sono i veri presidi delle Comunità e formano l’ossatura del nostro Paese; nonostante il loro impegno, si muovono in un mare di difficoltà, poiché possono contare su poche risorse (anche quando ci sono, la burocrazia rende meno spedita la messa a terra delle opere!). Quale occasione migliore del sapiente utilizzo dei fondi del PNRR anche per questi interventi?
La doppia sfida dell’agricoltura
Negli areali di pianura e nelle aree più antropizzate, le coltivazioni intensive devono affrontare una doppia sfida: ridurre le emissioni di gas serra (CO2, N2O, Metano, ecc.) e, contemporaneamente, adattarsi alle nuove condizioni climatiche. Per ridurre l’impatto sull’ambiente è necessario un radicale cambiamento del modello produttivo dominante: occorre abbandonare le pratiche agricole ad alto uso d’input esterni, dipendenti da fonti non rinnovabili di energia, e adottarne altre più sostenibili che valorizzino le interazioni biologiche tra tutte le componenti degli agro-ecosistemi e minimizzino gli sprechi, secondo i principi dell’economia circolare. Nello stesso tempo, l’agricoltura riduce il global warming (come è noto, le piante attraverso la fotosintesi clorofilliana rimuovono biologicamente la CO2 dall’atmosfera), ripristina le terre degradate, aumenta l’accumulo di carbonio nel suolo, ricicla e valorizza i rifiuti per la produzione di energie rinnovabili.
Gli interventi di riduzione delle emissioni (mitigazioni) interessano diversi aspetti della filiera alimentare, dalle lavorazioni agricole ai cambiamenti negli stili alimentari. Ci sono misure sia sul lato della produzione dei prodotti in campo, ossia dell’offerta (supply –side), sia sul lato della domanda dei prodotti alimentari (demand-side).
Più in particolare, le strategie agronomiche perseguite per la mitigazione poggiano principalmente su:
Agricoltura conservativa: in breve, un multiforme insieme di pratiche agronomiche che devono essere tra loro combinate per raggiungere gli effetti desiderati: lavorazioni del terreno rispettose dello stato del suolo e abbandono dell’aratura sistematica, accumulo dei residui colturali per mantenere il suolo coperto e migliorare la sua fertilità soprattutto negli strati superficiali, allungamento della durata di copertura del suolo anche ricorrendo a colture da sovescio, massima implementazione di avvicendamenti colturali. Essa rappresenta una valida alternativa alla coltivazione convenzionale sia per le colture annuali che per quelle poliennali.
Agricoltura di precisione: inizia a svilupparsi in modo consistente negli anni ’90, grazie al perfezionamento dei sistemi GPS e della moderna sensoristica per monitorare lo stato della coltura e dei suoli. E’ volta all’ottimizzazione della gestione agronomica delle colture tramite il monitoraggio e la valorizzazione della variabilità spaziale tra appezzamenti e, soprattutto, al loro interno. Le informazioni raccolte supportano le decisioni dell’imprenditore, che su quella base può ricorrere all’applicazione variabile degli input (fertilizzazione, agrofarmaci, acqua di irrigazione, profondità di lavorazione) e può tracciare in modo continuo le pratiche colturali adottate.
Gli interventi di adattamento (resilienza) attengono principalmente alla pianta ed alle azioni intese a migliorarne la resistenza/tolleranza ai nuovi ambienti di coltivazione.
Le strategie di miglioramento varietale si spirano all’ideotipo di pianta per il Pianeta che verrà.
La pianta per il futuro deve produrre di più per dare cibo a oltre 8 miliardi di persone (senza consumare altro suolo), deve avere resilienza verso nuove condizioni ambientali provocate dai cambiamenti climatici, deve garantire la sostenibilità delle produzioni agricole. In particolare, gli interventi sulla pianta devono migliorare: l’assorbimento di acqua e nutrienti; i caratteri qualitativi, salutistici e funzionali del prodotto; la resistenza a stress biotici (malattie, parassiti, nematodi) e abiotici (siccità, salinità, ozono); il sistema di difesa delle piante (Resistenza Sistemica Indotta e Acquisita e l’interazione con microrganismi utili (rizobatteri promotori di crescita, antagonisti di malattie, endofiti).
La conoscenza dei meccanismi che regolano l’architettura della pianta, molto spesso mediata da un controllo ormonale, è fondamentale per i nuovi ideotipi di pianta per il futuro. Gli studi sono stati rivolti, fino adesso, principalmente a fisiologia, metabolismo e genetica della parte aerea delle piante. Oggi, tuttavia, una maggiore attenzione viene rivolta alle radici, per migliorare l’efficienza d’uso dell’acqua, dell’azoto, del fosforo (PUE).
Per raggiungere tali obiettivi occorre convogliare gli sforzi delle diverse discipline scientifiche verso lo sviluppo di tecnologie mature per migliorare le piante e renderle adatte alle sfide del futuro. Oggi conosciamo in modo approfondito le tappe metaboliche di risposta ad un insulto esterno e disponiamo della sequenza del genoma di molte specie; con l’aiuto della genomica, nuove strategie di breeding (TEA-tecniche di evoluzione assistita, NBT-new breeding techniques, ecc.) sono state messe in opera per incorporare più geni in un genotipo superiore (Pyramiding).
Conclusioni
E torniamo sempre lì, alla domanda che da troppi anni tormenta chi ama questo Paese: arriveremo finalmente ad una vera consapevolezza della gravità del problema? O ci butteremo tutto alle spalle, come sempre, appena smetterà di piovere?
Per una transizione energetica reale, occorre bloccare la dipendenza dal gas, dal petrolio e passare alle energie rinnovabili; è necessario impegnarsi ad un piano mondiale soprattutto con l’India e la Cina che, insieme, fanno quasi metà dell’umanità. Come dimostrano gli accordi che vengono assunti nelle conferenze dell’ICCP (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’ONU), i Paesi più inquinanti, che emettono maggiori quantità di CO2 (USA, Cina, India), addirittura non partecipano a tali assisi oppure ne disattendono le raccomandazioni.
Restringendo lo sguardo al nostro Paese, occorrono più consapevolezza e più impegno nella cura dei territori, soprattutto di quelli più a rischio, per conformazione orografica, di subire gli effetti devastanti degli eventi climatici estremi. Al di là di Piani nazionali per la messa in sicurezza del Paese, le amministrazioni locali devono presidiare e valorizzare le potenzialità delle aree collinari e montane.
Il ritorno di giovani alla terra rappresenta una grande risorsa: sono i più innovativi e resilienti, capaci di coniugare la tradizione contadina con l’innovazione digitale ed eco-sostenibile.
A livello strutturale, come è noto, la dimensione media delle aziende agricole in Italia è di circa 11,0 ettari, inferiore alla media europea (16,6 ettari). L’eccessiva frammentazione aziendale rende più difficile accedere alle economie di scala, con ripercussioni sui costi del lavoro e del capitale. Più difficile è l’aderenza all’agricoltura 4.0 (che coniuga meglio sostenibilità e redditività), poiché questo modello di agricoltura si avvantaggia di aziende di superfici più ampie: si impone, forse, uno sforzo di ricomposizione fondiaria per la quale c’è stata, fino ad ora, una forte carenza di iniziative.