Parliamo di foreste

Intervista alla dottoressa Alessandra Stefani, accademica dei Georgofili e direttore della Direzione generale dell’economia montana e delle foreste nell’ambito del Dipartimento delle politiche europee e internazionali e dello sviluppo rurale del Masaf: una lunga carriera che sta per concludersi con il pensionamento. Molti anni di esperienza che possono fornire riflessioni e indicazioni utili a chi rimane.

di Giulia Bartalozzi
  • 26 June 2024

Dottoressa, è a conoscenza del fatto che è stata presentata lo scorso 4 giugno una lettera aperta, da parte di UNCEM e Compagnia delle Foreste, insieme ad altri 14 importanti attori del mondo forestale italiano, con cui si sollecita i candidati alle elezioni europee a impegnarsi per dotare la Commissione di un’organizzazione amministrativa in grado di impostare le scelte tecniche e politiche a partire non dai fruitori, ma dai gestori del patrimonio forestale europeo? (Ne abbiamo parlato su Georgofili INFO). Che cosa ne pensa?
Si, sono al corrente di questa iniziativa e penso si tratti di una discussione ormai ineludibile. Sulla scorta dell’esperienza dell’istituzione, nel 2017, della Direzione generale dell’economia montana e delle foreste presso il MASAF, i cui risultati sono stati da tutto il settore giudicati positivamente, avendo comunque operato nel rispetto delle autonomie regionali, posso tranquillamente affermare che la multifunzionalità del ruolo delle foreste richiede che la sede dell’elaborazione di serie politiche forestali debba essere unica. La complessa organizzazione amministrativa europea deve essere adeguata alla attenzione rivolta al peculiare settore.

Come pensa che l'innovazione tecnologia potrà in futuro aiutare la gestione forestale? Quali ritiene essere le priorità?
Credo che l’innovazione tecnologica provochi un costante miglioramento del lavoro del forestale, purché questo non si dimentichi mai di confermare la sua attività entrando in bosco con gli scarponi ai piedi, naturalmente del modello più tecnologicamente avanzato. Credo infatti che moltissimi possano essere i supporti tecnologici, dai droni, alle foto satellitari, dagli strumenti di misura di precisione ai tree talker, dalle motoseghe a motore elettrico agli strumenti per esbosco più raffinati per diminuire fatiche, pericoli e compattamento al suolo. Ma il sopralluogo era e rimane a mio giudizio uno strumento indispensabile per assumere decisioni, sempre complesse, con l’accuratezza che richiedono.

Come si è evoluto negli ultimi 20-30 anni il concetto di gestione forestale sostenibile?
Il concetto è passato da un tema squisitamente tecnico- scientifico dibattuto in convegni e incontri di alto livello e in pubblicazioni approfondite ad una “scelta etica ineludibile”. Il concetto ha trovato posto in una delle definizioni del Testo unico delle foreste e filiere forestali del 2018 (art 3, comma 2, lett. b), e sta alla base delle politiche forestali delineate dalla Strategia forestale, che dedica al tema un’intera azione operativa, rubricata come B1. Rappresenta uno dei pilastri della Strategia europea 2030 per la biodiversità e della sua “costola forestale”, la Strategia per le foreste europee 2030. Le sue applicazioni operative si basano sui criteri e le indicazioni paneuropee definiti nei documenti del processo Forest europe fin dalla conferenza di Lisbona del giugno 1998 ed attendono di essere tradotti in impegni tecnici codificati nei piani di gestione, o strumenti equivalenti, e nei piani forestali d’area vasta che saranno redatti grazie ai finanziamenti del Fondo per la strategia forestale. Nel contesto italiano, che vede i dati dell’ultimo Inventario malinconicamente segnare un arretramento delle superfici pianificate dal 18 al 15%, scommettere sulla GFS, attraverso la pianificazione , come è stato fatto in piena concordia tra Difor e Regioni nell’ambito delle scelte di destinazione dei Fondi della Strategia forestale, significa stimolare l’assunzione di responsabilità verso un patrimonio inestimabile di interesse per la collettività, sostituendo all’abbandono culturale prima, e colturale, poi, il senso di una responsabilità sociale e collettiva dei gestori pubblici e privati. Grazie alla pianificazione, si può passare da modelli di utilizzazione “preleva e fuggi” a scelte responsabili e di lungo periodo. Casi pilota e buone pratiche sono ormai diffuse, e molti sono i professionisti in grado di tradurre la teoria in ottime previsioni e realizzazioni pratiche.

E, analogamente, secondo Lei c'è stata anche un'evoluzione nella percezione dell'uomo comune nei confronti delle foreste?
Si, certamente, ma salvo qualche illuminata piccola percentuale, è ancora una percezione labile, che va da attaccamento viscerale ad una sorta di convinzione globale della precaria situazione delle foreste del mondo uguale a quelle europee uguale a quelle italiane. E soprattutto per quelle italiane, sembra prevalere la continuità dello slogan di buona memoria divenuto famoso a commento degli esiti del primo inventario delle foreste italiane del 1987, oggettivamente ben sintetizzato e di immediata comprensione, che non si attaglia più così bene alla situazione delle foreste nazionali risultati di successivi inventari. I boschi italiani ed europei crescono in superficie e complessità, ed assicurano funzioni indispensabili ma devono essere seguiti nella loro evoluzione e costantemente oggetto di attenzioni e cure che possono estrinsecarsi anche con interventi di taglio eseguiti da professionisti sulla base di precisi progetti, all’interno di evoluzioni guidate dagli studi sulla crescita spontanea nelle foreste e attentamente pianificati. Tagliare secondo le regole da tempo sperimentate i boschi in Italia non significa distruggerli, come periodicamente viene manifestato, e recentemente amplificato dai social media. Non è mai facile spiegare situazioni complesse e tecniche gestionali, perché spesso la percezione “di pancia” è dominante.

Com'è lo stato di salute delle nostre foreste, considerando i nuovi patogeni e i cambiamenti climatici?
Le nostre foreste sono il risultato di un’intensa opera dell’attività umana, che da millenni si rivolge ai boschi per le sue necessità, e che le ha plasmate e modellate rispondendo al pensiero forestale dell’epoca ed alle reali capacità tecniche. Molte delle specie, anche tra le più diffuse, quali i castagneti, sono naturalizzate e non spontanee, e diffuse per le loro capacità di attecchimento ed il pregio delle produzioni, che spesso non vedono il legno come primo e privilegiato prodotto. Incendi boschivi, schianti da vento, sovrapascolamento, patogeni di nuova introduzione o di lunga e consolidata coabitazione non sono perciò una novità per le foreste italiane, che hanno risposto con le loro caratteristiche di resistenza e resilienza in serie successionali dinamiche, ben studiate e conosciute. La crisi climatica si inserisce in queste dinamiche accentuando alcuni fenomeni, ed ampliandone le dimensioni, come avvenuto per gli effetti della tempesta VAIA, e la prevedibile successiva infestazione da bostrico, che si ampliata ben oltre le aree del nord est italiano, ovunque la vegetazione di abete rosso in purezza abbia subito danni da successive ondate di prolungata siccità. Ove le specie sono autoctone, e miste, la reazione alla crisi climatica delle compagini forestali è evidente ad uno sguardo attento dei forestali. Specie diffuse prevalentemente in aree meridionali si stanno spostando verso Nord, e specie di media quota verso stazioni di maggiore altitudine. Dove si tratti di specie alloctone, o artificialmente propagate in purezza in stazioni lontane dagli optimum prediletti dalla specie, gli effetti della crisi si manifestano con evidenza assoluta. Alcune specie si avvantaggeranno di queste dinamiche, sostituendosi nei varchi aperti dal deperimento delle prime, ed altre subiranno fino a sparire, come è successo, ad esempio, per gli olmi nostrali colpiti da grafiosi negli anni 80 del secolo scorso. Le pinete litoranee artificiali, colpite da numerose avversità di nuovo ingresso aggiuntesi alle ben conosciute, lasciate alla normale evoluzione naturale, sarebbero certo sostituite da querceti mediterranei, comportando mutamenti di paesaggio non sempre accettati e graditi. Complessivamente, i dati dell’ultimo Inventario aggiornati al 2015 segnalano che l’80 della superficie dei boschi italiani non è interessata da danni evidenti e che circa un ulteriore 16% è interessato da danni lievi. La superficie afflitta da danni evidenti o molto evidenti era compresa tra il 3,3 e l’1%. A questi dati vanno aggiunte le risultanze dei danni da VAIA e bostrico, i cui effetti saranno evidenziati e censiti nel prossimo Inventario, previsto per il 2025.

La proposta del World Economic Forum di realizzare nuove foreste con 1000 miliardi di alberi entro il 2050 può essere un obiettivo raggiungibile?
Non lo è sicuramente, e lo stesso Forum ha riaggiornato recentemente le previsioni. Per piantare con relativa certezza di attecchimento 1000 miliardi di alberi, considerando che almeno il 30% delle piantine messe a dimora non supera i primi tre anni dall’impianto (perché attecchire in un rimboschimento è una eventualità non scontata per ogni piantina) occorre produrre almeno 1300 miliardi di piantine forestali, con un investimento in termini di spazi adeguati, di risorse umane e finanziarie non di poco conto, che al momento non paiono immaginabili. Tra le risorse ingenti da utilizzare per i vivai, ancor prima di rimboschire, occorrono spazi adeguati e dotazioni ingenti di acqua di buona qualità per l’irrigazione. Per le quantità desiderate, occorrerebbe sottrarre spazio ai terreni agricoli di buona qualità, sottraendo acqua per le irrigazioni, diminuendo le produzioni agricole ed alimentari, utili a sfamare la popolazione umana, stimata in crescita. E’ ragionevole tutto questo? No di certo. Indubbiamente, la proposta, molto enfatizzata dagli organi di stampa perché certamente suggestiva, è stata concepita come una provocazione, per alimentare il dibattito sulla necessità di rispondere agli effetti della crisi climatica con un deciso cambio di passo. Mettere a dimora molti alberi nelle città e nelle zone intercluse periurbane è sicuramente un progetto importante, soprattutto se si tratta dell’albero “giusto” nel posto “giusto” seguito dalle “giuste” cure colturali. Ma non basteranno gli alberi a mitigare gli effetti della crisi climatica. Servono impegni importanti e diffusi in ogni settore della nostra società per una transizione ecologica realmente efficace.

Che cosa ne pensa della pratica del "Forest Bathing", oggi diffusa anche in Italia?
Penso sia una pratica molto interessante, che può essere realizzata con semplicità per un suo effetto calmante indubbio, ovunque sia praticata. Sappiamo che i boschi hanno positivi effetti sul sistema nervoso, la pressione cardiaca, l’umore, semplicemente con una passeggiata ed un soggiorno anche di qualche minuto. Per effetti di maggior rilievo su condizioni di salute fisica o mentale bisognose di cure in foresta, occorre proseguire nelle positive ma ancora puntiformi esperienze realizzate in foresta in abbinamento con medici ed infermieri specializzati in luoghi idoneamente attrezzati e con percorsi adeguatamente studiati.  E mi permetto anche di suggerire che un riconoscimento economico deve essere previsto per i proprietari boschivi all’interno dei quali si sviluppano i percorsi, che certamente devono essere mantenuti nelle condizioni più idonee per accogliere gli itinerari nel tempo. Inciampare in una radice, o battere la testa contro un ramo prospiciente al sentiero, non è di certo d’aiuto, anche se non è certo un evento remoto in bosco. Percorsi di salute studiati ed individuati per specifiche patologie, anche privilegiando tipologie particolarmente efficaci di piante, escludendo ad esempio specie allergizzanti, richiedono scelte localizzative attente e manutenzioni continue, che certamente hanno costi da sostenere. Ma complessivamente, questa nuova visione della salute in foresta porta al centro dell’interesse collettivo i boschi, ma anche i parchi pubblici, come mai prima d’ora e per nuove ragioni aggiuntive alle tante già ben chiarite. E questo è solo un bene.