L’epoca storica delle riforme fondiarie nei paesi sviluppati si è conclusa nei decenni immediatamente seguenti la fine della seconda guerra mondiale, mentre in quelli in ritardo di sviluppo è proseguita in quelli successivi, anche se sembra essersi chiusa nell’ultimo quarto del ‘900. Le difficoltà economiche e sociali della crisi nel nostro Paese hanno fatto anacronisticamente riemergere da un lungo oblio la questione dell’utilizzo di terre appartenenti ai demani pubblici. Essa è nata nel quadro della ventilata cessione di parte degli immobili pubblico con l’obiettivo di ridurre l’entità del debito pubblico e, quindi, dei relativi interessi. I modesti risultati conseguiti dipendono dalla natura dei beni messi in vendita e dal crollo del mercato. Ad un certo punto furono inseriti, accanto agli edifici, anche i terreni agricoli per i quali la domanda è rimasta elevata. Su un’operazione di (tentato) risanamento del bilancio, si è inserito il forte impatto mediatico della motivazione offerta all’opinione pubblica: mettere terreni agricoli a disposizione di giovani agricoltori per incrementare l’occupazione agricola, la produzione e quindi far crescere il Pil.
La natura complessa e contraddittoria di questi obiettivi li rende di difficile raggiungimento. La riduzione del debito pubblico richiede la cessione dei terreni al massimo prezzo possibile, ma ciò si scontra con la volontà di cederli a condizioni di favore per conseguire gli altri obiettivi con ciò provocando un introito inferiore a causa delle agevolazioni da introdurre. La grande esperienza storica italiana della bonifica integrale e poi della riforma mostra che è necessario prevedere misure che creino una sorta di dotazione d’avviamento per i nuovi proprietari. Anche queste a carico della finanza pubblica che al temine dell’operazione provocherebbe un incremento della spesa e la dispersione di un patrimonio insostituibile. Tutto possibile, nella logica però di una coerente e consapevole politica fondiaria che il nostro paese non ha e non ha avuto negli ultimi decenni.
L’aumento dell’occupazione agricola è irrealistico e, di fatto, antieconomico. La nostra agricoltura non ha bisogno di altri addetti, ma di aumenti di produttività. L’ampliamento delle superfici aziendali si muove in questa direzione, non in quella della crescita degli occupati. Non solo, ma ci si dimentica che le terre da distribuire in realtà non sono né nuove né incolte, perché già in coltivazione nelle condizioni specifiche dei singoli contesti produttivi.
Il patrimonio che al momento sembra in via di concessione è di 5.500 ettari e arriverebbe a 140.000, un’entità modesta se confrontata con una superficie agricola di 17 milioni di ha e con una Sau di 13 milioni. Le dimensioni dell’intervento sono dunque ridotte e l’incremento di produzione ottenibile ancor più modesto perché derivante solo dagli eventuali incrementi di produttività conseguiti dagli assegnatari.
Infine il contributo alla crescita del Pil: l’intera agricoltura italiana contribuisce ad esso per l’1,75%, un calcolo dell’incremento possibile, pur trascurando le conseguenze dell’indebitamento necessario, che a livello individuale non è piccolo, porta a risultati molto ridotti.
In breve, l’idea della valorizzazione del patrimonio dei terreni pubblici in sé può essere valida solo se inserita in una coerente politica fondiaria che riguardi l’intera agricoltura che ha bisogno di incrementare la sua produttività e la conseguente redditività. Le scarse risorse finanziarie vanno organizzate e gestite in questa logica, non in quella che porterebbe semplicemente alla dispersione del patrimonio immobiliare senza assicurare i troppi obiettivi proposti.
State-owned lands
In our country, the economic and social difficulties deriving from the crisis have anachronistically made the question of the use of state-owned lands resurface after remaining in obscurity for a long time. On (an attempt at) fiscal consolidation, high media profile of the reasons offered to the public has been supplied: make agricultural lands to young farmers to increase agricultural employment and production, thus increasing the GDP. But an increase in agricultural employment is unfeasible and, actually, unprofitable. Our agriculture does not need more workers, but rather an increase in productivity. The increase in agricultural area has been moving in this direction, not towards an increase in employees. Not just that, we must not forget that the lands to be distributed in reality are neither new nor uncultivated, because they are already cultivated in the specific conditions of their individual production contexts.