È indubbio che i termini centrali in questa breve nota – sostenibilità e biodiversità – siano oggi di moda e spesso utilizzati, talvolta impropriamente, in svariate occasioni e nei contesti più disparati. Entrambi hanno forti connessioni con il mondo dell’agricoltura: il termine nachhaltigkeit – in tedesco sostenibilità – compare per la prima volta nel 1713 in Germania a proposito della gestione dei tagli forestali, le ceduazioni, che dovevano essere programmati in maniera da assicurare la continuità della produzione nel tempo. Anche se il concetto di sostenibilità non viene evocato, come non leggere nella volontà di non ridurre le possibilità future nel celebre adagio degli antichi georgici romani “la terra si riposa producendo cose diverse”? Una frase che è alla base dell’avvicendamento delle colture, pratica applicata da sempre proprio per non pregiudicare le produzioni future ottenibili da uno stesso appezzamento.
Il termine “biodiversità” esprime un concetto molto più ampio di quanto comunemente si pensi, poiché racchiude la variabilità tra gli organismi viventi all’interno di una singola specie (diversità genetica), fra specie diverse e tra ecosistemi. La biodiversità potremmo dire è l’accumulo di 3,5 miliardi di anni di coesistenza e di esperienze di tutte le forme di vita, un’eredità che non possiamo perdere ai ritmi frenetici e angosciosi degli anni recenti. Ma in questo caso non si vuole parlare di biodiversità tout court ma di agro-biodiversità che rappresenta la diversità dei sistemi agricoli coltivati (agro ecosistemi) in relazione a: i) geni e combinazioni di geni all’interno di ciascuna specie; ii) specie e iii) combinazioni di elementi biotici e abiotici che definiscono i diversi agroecosistemi (Elia e Santamaria, 2013). È indubbio che l’agro-biodiversità sia anche il risultato degli usi, costumi, tradizioni e cultura, e quindi dell’azione dell’uomo sulle piante e gli animali che sono utilizzati a fini utilitaristici. La conoscenza della cultura locale, in questo contesto, può essere considerata parte integrante dell’agro-biodiversità, perché l’attività umana, attraverso l’esercizio dell’agricoltura, modella e conserva questa biodiversità.
Non possiamo dimenticare come l’agricoltura “industriale” sia un sistema di per sé “insostenibile”, “dispendioso” (per produrre una caloria alimentare ne vengono investite sette), “inefficiente” (solo il 70% dell’acqua disponibile, il 30-50% dei concimi azotati e il 45% di quelli fosfatici è utilizzato dalle colture) e “povero” dal punto di vista biologico, si basa spesso sulla monocoltura e su poche varietà selezionate (negli ultimi 50 anni le risorse genetiche vegetali si stanno perdendo, su scala globale, al ritmo dell’1 2% l’anno; la concentrazione delle multinazionali delle sementi in grandi aziende ha fuso o cancellato alcuni programmi di selezione vegetale per ridurre i costi). In futuro ci saranno meno coltivatori e i coltivatori stessi dipenderanno da un patrimonio genetico più ristretto, che potrebbe contribuire, in tempi brevi, all’insicurezza alimentare. La perdita di biodiversità rende il sistema agricolo più fragile: come rilevato da Renard e Tilman (2019) vi è una relazione diretta fra riduzione della diversità delle specie coltivate e probabilità di perdite di raccolto. La biodiversità, sono sempre gli stessi autori a ricordarcelo, è alla base dei principali determinanti della stabilità del rendimento calorico.
Le varietà moderne, concepite per soddisfare le esigenze del mercato, dell’industria di trasformazione e della distribuzione moderna, sono soggette a rapida obsolescenza. Negli ultimi si sta cominciando a rivalutare il patrimonio rappresentato dalle cosiddette “varietà locali”, anche dette landrace, farmer’s variety o folk variety; si tratta di popolazioni di piante, propagate per seme o per via vegetativa, caratterizzate da una maggiore o minore variazione genetica, comunque ben identificabile e che spesso ha un nome locale, non è stata sottoposta ad un programma organizzato di miglioramento genetico, è caratterizzata da un elevato adattamento alle condizioni ambientali e colturali dell’area in cui è stata selezionata ed è strettamente legata alle tradizioni, ai saperi, agli usi, ai dialetti e alle vicende delle popolazioni umane che l’hanno sviluppata e/o continuano a coltivarla (Zeven, 1998). Nell’ultimo secolo, quasi il 75% delle varietà locali è andato perduto, ma questa percentuale potrebbe salire fino al 90% negli Stati Uniti (Renna et al., 2018). Preservare l’agro-biodiversità rappresenta quindi il key point per garantire l’adattabilità e la resilienza degli agro-ecosistemi alla sfida globale, che dovremo affrontare nel prossimo futuro per produrre maggiori quantità di cibo di migliore qualità in modo sostenibile. Non possiamo dimenticare il duplice ruolo svolto dall’azione dell’uomo: da una parte molte componenti dell’agro-biodiversità non sopravviverebbero senza l’interferenza umana, dall’altra le scelte umane possono rappresentare una minaccia per la preservazione dell’agro-biodiversità stessa. Conservarla è un imperativo anche etico: come ricordava Antoine de St. Exupéry, “Tu diventi responsabile di ciò che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa”.