Quelli che, come me, sono nati prima della seconda guerra mondiale, devono fare i conti con tanti neologismi o con vecchi termini dei quali è cambiato o è stato aggiornato il significato. Ci dobbiamo adeguare pressoché in continuazione e, spesso, non è facile. Uno degli esempi più comuni è il significato del sostantivo “sostenibilità” e del relativo aggettivo “sostenibile”. Vado a cercare le due voci sul vocabolario Zingarelli del 1995. Mi si rimanda al verbo “sostenere”, per il quale si danno ben dieci significati: reggere un peso, prendere un impegno, mantenere alto qualcosa (i prezzi, la voce), aiutare qualcuno, nutrire, affermare un’idea, resistere, soffrire, indugiare, trattenere. Wikipedia mi aggiorna aggiungendo un undicesimo significato, riuscendo così a colmare la mia lacuna culturale. La precisazione di Wikipedia recita: “la sostenibilità è il processo di cambiamento nel quale lo sfruttamento delle risorse, il piano degli investimenti, l'orientamento dello sviluppo tecnologico e le modifiche istituzionali sono tutti in sintonia e valorizzano il potenziale attuale e futuro al fine di far fronte ai bisogni e alle aspirazioni dell'uomo”.
Adesso sono in grado di leggere l’articolo che mi è capitato sotto mano dallo strano titolo “Net zero doesn’t cut it” ovvero “arrivare a bilancio zero (di carbonio) non risolve il problema”, apparso su All about Feed del 10 giugno scorso a firma di Fabian Brockotter e Chris McCullough.
L’articolo inizia con una considerazione abbastanza banale: se la sostenibilità consiste nel mantenere lo status quo della situazione attuale, già gravemente compromessa, allora la proposta “net zero” non è di nessuna utilità. La sola strada da intraprendere è quella del “net positive”, che migliora, rigenera e ripara. È anche l’argomento del libro di Paul Polman e Andrew Winston, dal titolo, appunto, “Net positive”, pubblicato lo scorso anno per i tipi della Harvard Business Review Press. Vi si afferma che: “Il progetto “net positive” non propone di fare meno danni, ma di produrre miglioramenti”.
È opinione comune nel settore che non si può più rimandare di agire, perché non fare niente comporta un prezzo più alto che cercare di fare qualcosa. Fra l’altro, cercare di creare un futuro più verde, più inclusivo e più resiliente (altro termine divenuto di moda) crea enormi opportunità economiche. Secondo Pearse Lyons, il fondatore dell’industria mangimistica americana Alltech, dobbiamo curare il presente per salvaguardare il futuro e l’agricoltura rappresenta il più importante potenziale strumento per influenzare il futuro del nostro pianeta che deve essere in grado di fornire cibo per tutti. Mettere a tavola i 10 miliardi di persone previsti per il 2050 richiede un aumento delle produzioni alimentari del 70%. Ce la faremo?
Molti ricercatori sono ottimisticamente fiduciosi guardando, soprattutto, alle tecniche di sequestro del carbonio nei vegetali ed all’aumento dell’efficienza di utilizzazione alimentare da parte degli animali in allevamento. L’aumento della quantità di CO2 sequestrata dall’atmosfera nelle piante dipende soprattutto dal miglioramento delle pratiche di gestione dei pascoli e delle foreste, mentre l’ottimizzazione dell’efficienza alimentare negli animali si ottiene attraverso la corretta formulazione delle diete e l’equilibrata somministrazione di molti microelementi, fra i quali il selenio in particolare.
Non ci resta che incrociare le dita, ovviamente dandoci da fare, e stare a vedere quello che succede, purché non ci dimentichiamo che le fonti di gas serra quantitativamente più importanti non sono certo soltanto quelle dovute alle attività agricole.