È difficile che la ripresa economica sia alle porte e ritorni a vele spiegate nel nostro mondo. Come lo è l’esercizio minuzioso, ma vano, di spiare ogni micrometrico spostamento di questo o quell’indice per dedurne i sintomi di un sostanziale miglioramento. Così, in un clima di grave incertezza trovano spazio teorie economiche che si propongono come il toccasana. Appaiono o tornano alla ribalta vecchie ricette che la storia e l’economia reale hanno da tempo cancellato, ma che vengono accolte con l’incosciente concorso dei mezzi di comunicazione. Semplici. A portata di mano. Quasi per virtù magiche capaci di risolvere problemi attorno ai quali ci si è affannati con scarso successo.
È il caso della teoria della decrescita, da noi conosciuta con indubbia sensibilità al marketing delle idee, come “decrescita felice”. Una teoria che piace e affascina anche per i suoi aspetti morali che richiamano antiche virtù dismesse e nuovi sacrifici propiziatori. Molto diffusa, soprattutto nei paesi sviluppati, il suo moderno profeta è il francese Serge Latouche. Ma non è una novità. Teorie di questo genere esistono sin dall’antichità più remota. Semplificando molto si può dire che essa propone la riduzione volontaria dei consumi per ricondurli a modelli più austeri e ripescati da un passato percepito come più virtuoso. Accanto a quella, che ne consegue, della produzione di beni che diventerebbero superflui. L’obiettivo è favorire relazioni più equilibrate fra la natura e l’uomo nell’uso delle risorse e fra tutti gli uomini per eliminare disparità e conflitti. Un messaggio seducente e accattivante, ma troppo simile al mitico ritorno dell’età dell’oro, quella che concilia l’uomo e l’ambiente, la protezione delle risorse ed il loro impiego, i consumi e la produzione.
Oltre il messaggio sorge il dubbio che qualche cosa non torni. Consideriamo proprio l’agricoltura e l’alimentazione come paradigma. Ogni essere umano dovrebbe spontaneamente ridurre i propri consumi di beni agricoli e, allo stesso tempo, ogni agricoltore limitare la produzione. Ciò implica minor impiego di terra e di mezzi di produzione, minori capitali e un incremento del lavoro e della fatica. In due parole la riduzione della produttività agricola. Ma questo modello sembra solo un sogno: la popolazione tende ad aumentare e quindi i consumi procapite e quelli totali crescono in quantità e in qualità per l’effetto demografico. Lo sviluppo delle conoscenze fa crescere anche i requisiti sanitari e nutrizionali che implicano tecniche colturali sempre più evolute e costose che però sarebbero bandite per non incidere sugli equilibri naturali.
Minor disponibilità di cibo non implica la pace universale, ma il ritorno ai conflitti per procurarsene, la riduzione della durata e della qualità di vita, la rinuncia al progresso scientifico. In breve l’abbandono di un percorso di benessere faticosamente compiuto in circa dieci millenni di agricoltura.
Nei paesi ricchi si può vagheggiare la decrescita perché comunque vi è la garanzia di un elevato tenore di vita. In quelli poveri o alle soglie dello sviluppo non è così. Oltre ai popoli che ancora soffrono la fame vi sono quelli che stanno arrivando al benessere e che vedrebbero svanire nella disperazione il loro sogno per regredire verso un passato di fame, carestie, malattie e guerre per il cibo a cui tentano di sottrarsi.
Il calo della produzione agricola conduce a gravosi tagli dei consumi anche per gli agricoltori che perderebbero l’incentivo a produrre per il resto della popolazione. Minore produzione e consumo produrrebbero un anacronistico ritorno all’economia di sussistenza, a consumi più modesti, a condizioni sanitarie inferiori.
Se questa è la strada per la ripresa è evidente che non condurrebbe lontano, anche perché trascura il fatto che il progresso da sempre ha consentito di ampliare e migliorare l’offerta di alimenti, consentendo un’alimentazione migliore ad un numero sempre più elevato di esseri umani. Rifiutare questo fatto in tutto il sistema economico e non solo in agricoltura significa ricondurre l’umanità nel buio della notte dei tempi.
È questo un futuro auspicabile?