La catena MD, secondo player italiano nel settore discount, ha diffuso un lungo comunicato sui dati di bilancio della sua semestrale 2020. Conti d’oro. Fatturato in crescita quasi del 16%, 15 nuovi store entro fine anno, raggiunti i mille dipendenti, investimenti programmati per oltre un miliardo di euro entro il 2021. Tutto bene, benissimo, complimenti. Nel comunicato la catena controllata dal cav. Patrizio Podini – con buona ragione – sottolinea le scelte di fondo della policy aziendale e della crescita: attenzione alla qualità, alla sicurezza dei prodotti alimentari e alla valorizzazione delle eccellenze di territorio; responsabilità e spirito di servizio verso la comunità; investimenti per la sicurezza di dipendenti e clienti (oltre 6 milioni di euro); sviluppo della logistica; attenzione al digitale e ai pagamenti smart; investimenti nella sostenibilità e nel plastic free. Conclusione: MD cresce perché premiata dai clienti che qui trovano la massima convenienza di acquisto, tant’è che Altroconsumo “ha incoronato MD tra le catene più convenienti dove fare la spesa nel 2019”.
C’è qualcosa di sbagliato in tutto ciò? Assolutamente no, la catena mette in vetrina con orgoglio i suoi risultati, come si dice, lucida l’argenteria di casa. Quello che qui voglio sottolineare è che questa catena, tra le ragioni del successo e i suoi obiettivi di crescita, manco si sogna di fare un riferimento qualunque al rapporto corretto coi fornitori, col mondo produttivo, con chi produce e commercializza la frutta e verdura che MD vende. La mission aziendale è la convenienza, null’altro. In sostanza i prezzi “bassi e fissi”. Punto. C’è qualcosa di male, di scorretto, di eticamente sbagliato in tutto ciò? Assolutamente no, le catene competono sulla convenienza, è il loro mestiere. La differenza è che alcune catene sono (o dicono di essere) più virtuose nel rapporto coi fornitori, altre invece fanno quello che vogliono, perseguono unicamente i loro interessi e i loro obiettivi di crescita. Facendo ciò magari fanno anche l’interesse delle comunità dove operano in termini di posti di lavoro, di relazioni di rete con altre imprese (logistica, eccetera), di valorizzazione dei territori, di servizi per i clienti-consumatori… tutto buono e giusto, però resta il fatto che prima viene la loro ‘sostenibilità’ e poi quella dei loro fornitori. Ai poveri produttori chi ci pensa?
Queste considerazioni le faccio a mente fredda dopo il clamore suscitato dalla trasmissione di Rai3 “Presa diretta” dedicata al Prezzo ingiusto, quello che viene pagato appunto ai poveri produttori di ortofrutta dalle catene della GDO. La trasmissione Rai, che ho rivisto a mente fredda, è piena di imprecisioni e valutazioni dilettantesche: come si fa a parlare di prezzi senza parlare di quantità prodotte e disponibili sul mercato, come si fa a mettere insieme il periodo del lockdown con quello estivo? Come si fa a dimenticare che l’ortofrutta è la seconda voce del nostro export agroalimentare, che nel 2017 faceva 1 miliardo di saldo attivo nella bilancia commerciale, che è leader in sicurezza alimentare, certificazioni, ecc? Che durante il lockdown ha continuato , assieme ai Mercati, a rifornire gli scaffali della GDO, accollandosi tutti i costi supplementari di sanificazione degli ambienti e delle linee di lavorazione e a tutela degli addetti? Come si fa a dimenticare tutta la filiera che sta a monte e a valle dell’ortofrutta, dalle sementi all’irrigazione, dalla agrochimica alle macchine-tecnologie-imballaggi, alla logistica, ai trasporti? Tutto questo non vale nulla? Anche queste non sono eccellenze?
Dei primati della nostra ortofrutta si sono dimenticati anche alcuni commentatori che bene conoscono il settore, che sono corsi in soccorso della GDO, che non ne ha alcun bisogno ma che però è sensibile alle ‘carezze’ della stampa compiacente. La trasmissione Rai ha messo alla sbarra la GDO (non tutta) ma anche il sistema ortofrutta, criminalizzato per il caporalato, le baraccopoli in Puglia, i ghetti del lavoro nero, lo sfruttamento indegno di un Paese civile. Certo, tutto questo è uno sfregio per il settore ma queste situazioni sono l’eccezione, non la regola. Intanto adesso c’è una legge. Poi, francamente, queste bidonville erano (sono?) alla luce del sole, tutti le conoscevano e sapevano dov’erano… perché non si è fatto mai nulla da parte delle autorità competenti?
Un unico merito voglio attribuire a questa trasmissione: non c’è solo la filiera dell’illegalità, dello sfruttamento della manodopera in nero, che va colpita. C’è anche una filiera assolutamente regolare, alla luce del sole, con la manodopera tutta in bianco, che subisce il ricatto del prezzo ingiusto, di pratiche sleali che vanno dalle promozioni sottocosto, ai volantini che umiliano il lavoro dei produttori, alle aste a doppio o triplo ribasso, alle richieste di scontistiche o contributi per ‘nuove aperture’ o altre invenzioni del genere. E’ da qui che nasce il prezzo ingiusto. Tutto questo non è sfruttamento di posizione dominante? Non è prendere per il collo il mondo produttivo e commerciale ben sapendo che nessuno oserà (quasi mai) ribellarsi? Tutto questo la trasmissione lo ha detto, e qui sta l’unico merito ai nostri occhi. Seguiremo con attenzione l’iter del recepimento della Direttiva UE sulle pratiche sleali. Cambierà qualcosa? Vedremo , intanto prendiamo atto che il famoso art.62 è stato una mezza bufala.
Proponendo l’esempio di una filiera virtuosa e di una catena distributiva che “dà a ciascuno il suo”, alla fine della trasmissione si è detto: “Quanto costa ridare dignità ai lavoratori / braccianti? Bastano 10-15 centesimi in più al chilo e cambia il mondo”. Ma con quei pochi centesimi in più cambia anche il conto economico della filiera e delle imprese, si evitano abbattimenti, estirpazioni indiscriminate, si mantengono superfici produttive e si salvano decine di migliaia di posti di lavoro. I consumatori sono d’accordo? Perché le catene più virtuose non danno l’esempio, non con dichiarazioni di principio ma con fatti concreti?
* direttore del Corriere Ortofrutticolo