Sull’onda del cosiddetto “green new deal” si moltiplicano le iniziative per piantare alberi nelle nostre città, contornate da grande seguito mediatico.
Sia chiaro, il verde è importante, specie se arboreo, e contribuisce certamente alla cattura delle polveri sottili e al raffrescamento durante i periodi più caldi, oltre ad apportare indubbi benefici di tipo psicologico e ricreativo.
Ma non è altrettanto evidente che sia sufficiente la messa a dimora di un albero per rendere piacevole un luogo. Per raggiungere tale obiettivo, così richiesto dai cittadini di tutto il mondo, bisogna realizzare spazi urbani da vivere, in un sapiente ed equilibrato mix di ambienti accoglienti e protetti, dotati di idonee sedute ed attrezzature e, perché no, di adeguate strutture di semplice ristoro, magari con prodotti del territorio. Non bisogna poi dimenticare le esigenze di facile accessibilità e visibilità degli spazi aperti nonché di una attenta scelta delle specie vegetali in termini di attecchimento, cura e manutenzione.
E’ necessario, in sintesi, realizzare spazi seguendo il dettato di un noto testo anglosassone che suggerisce di progettare “with people in mind”i, avendo cioè ben presente ciò che la gente vuole e richiede.
Al riguardo , penso a molte realizzazioni recenti, che hanno creato spazi non a misura d’uomo e con poca attenzione alle sedute, all’ombra estiva e alla sicurezza percepita.
Si tratta, in altri termini, di effettuare una serie di interventi di “microprogettazione” degli spazi in tutte le città, con l’aiuto e la consulenza delle comunità coinvolte attraverso anche le strutture di decentramento civili e, perché no, religiose, come faceva a Londra l’amico e maestro Tom Turner dell’Università di Greenwich.
Tale processo progettuale, se ben attuato, avrebbe il vantaggio di creare spazi strutturati in base alle esigenze dei residenti che potrebbero essere poi coinvolti nei processi di cura e vigilanza, come avviene ad esempio a Berlino.