Lorenzo Pignotti, fedele interprete della politica di Pietro Leopoldo, realizzò nel 1784 un eccezionale contributo, venendo incontro ad un’esigenza che in Toscana era sempre più avvertita. In quell’anno pubblicò infatti a Firenze, presso lo stampatore Giuseppe Tofani, le sue Istruzioni mediche per la gente di campagna. L’agile testo era diviso in due parti, nella prima venivano esposte pratiche regole per “conservare la sanità”, nella seconda si affrontava il complesso problema delle terapie, suggerendo rimedi semplici e di facile preparazione anche nelle località più sperdute.
Troppe persone languivano, o morivano, per affezioni mal curate, nelle campagne lontane da centri abitati di rilievo. Lievi malattie potevano divenire mortali per mancanza di adeguate e tempestive terapie che chiunque avrebbe potuto praticare con semplice buona volontà e con il rispetto di regole elementari. “Vi sono delle malattie”, scriveva infatti Pignotti, “la cura delle quali richiede l’abilità dello sperimentato medico; ve ne sono altre, così facili a conoscersi, così facili a medicarsi che la loro cura può impararsi dai libri in un momento. Queste malattie poi, trascurate o mal medicate, come avviene appunto nelle campagne, divengono spesso fatali. Il nostro progetto è d’insegnare la medicina appunto di queste, rimettendo la cura delle altre alle persone della professione e di tirare, s’è possibile, questa linea di divisione fra le malattie facili a conoscersi e a curarsi e quelle che ricercano la cura d’un abile professore”.
Proprio in campagna un’opera con queste caratteristiche avrebbe potuto avere diffusione ed utilità, anche per combattere la terribile piaga dei ciarlatani. Occorreva conoscere nel modo più approfondito le caratteristiche delle principali malattie, comprenderne il decorso e valutare la loro gravità. Per questo Pignotti dedicava largo spazio alla delineazione di quegli aspetti fisici che potevano costituire il primo, importante indizio di una reale affezione. “Una delle parti più importanti di questo trattato deve consistere nell’esposizione dei segni delle malattie, i quali mostreranno quando si deve ricorrere al medico e quando si può sperar di medicarle senza il di lui aiuto e solo colle regole che saranno insegnate”.
Pignotti era pronto a difendere l’impostazione della sua opera, che correva il rischio di apparire, “leggiera e di pochissimo conto” e non esitava a ribadire lo scopo che si era prefisso: “L’autore non cerca che l’approvazione delle persone sensate, ei non espone al pubblico verità nuove, né pretende di scrivere un profondo e completo trattato di medicina, che non sarebbe qui a proposito … Non scrive né per gloria, né per interesse, ma per giovare al pubblico, tanto è lontano da questi fini che egli occulta il suo nome. L’utilità pubblica è quella che ha unicamente in vista e se, con questo trattato, giungesse a salvar la vita a un sol uomo, sarebbe abbastanza contento”.
Gli ideali illuministici di pubblico bene e di felicità sociale, diffusi a piene mani dal Granduca Pietro Leopoldo, fino dal suo arrivo in Toscana nel 1765, trovavano in queste parole una piena conferma. Pignotti operava in sintonia con un indirizzo politico preciso, di cui condivideva i fini e gli ideali ed al quale voleva offrire il proprio contributo scientifico, con assoluta determinazione.
Il medico figlinese si rivolgeva ad un pubblico di ogni età e desiderava delineare le più comuni patologie fino dai primi anni di vita, perché la prevenzione era, a suo giudizio, la migliore delle terapie. Le Istruzioni mediche si aprivano proprio con Regole di sanità per i fanciulli. L’inizio della vita era determinante per il corpo ed i suoi organi. Nei primi anni si formava, infatti, quel “buon temperamento” che poteva far sperare in una prolungata esistenza. Pignotti riscontrava un’alta mortalità infantile e riteneva che ciò fosse dovuto non alla malignità della natura, ma alle pessime consuetudini usate nel trattare e curare i piccoli.
La negligenza poteva causare gravi danni ed era necessario conoscere in primo luogo la “fisica educazione dei bambini”, soprattutto perché nelle campagne non solo erano presenti i figli dei contadini ma anche quelli di numerosi abitanti delle città, che inviavano a balia la loro prole. La mancanza di tempo per l’incombenza di attività lavorative, il desiderio di non alterare la bellezza del seno, la maggiore attrazione esercitata dalla vita mondana rispetto a quella familiare, la ricerca di un’aria più pura e della quiete agreste, spingevano molte donne ad affidare i propri figli a nutrici campagnole, non occupandosi di loro per mesi.
Pignotti riscontrava molti errori nel comportamento di balie e levatrici, che infliggevano ai pargoli veri e propri tormenti, dei quali gli infanti avvertivano i circostanti piangendo disperatamente. Fra gli errori più comuni delle levatrici, il medico notava quello di stringere e di modellare le membra dei neonati, “come se fossero di pasta”, per togliere eventuali difetti, istigando le madri a seguire un analogo comportamento. Tale pratica non eliminava eventuali deformità ma generava dolori e disagio, giungendo a provocare, in alcuni casi, veri e propri danni fisici.
Un altro errore diffuso era quello di alimentare i bambini, subito dopo la nascita, con miele o zucchero disciolti in acqua. Ciò era necessario solo per quei piccoli che non fossero stati allattati dalla madre, o per quelli che non avessero evacuato normalmente. Pignotti raccomandava poi di non dare ai bambini che soffrivano di dolori intestinali, l’olio di mandorle dolci, perché tale prodotto era di difficilissima digestione. Criticava, con estrema decisione, anche la diffusa abitudine di avvolgere strettamente i neonati con larghe fasce. Ormai da tempo i medici denunciavano inascoltati i gravi danni che potevano essere provocati alla circolazione ed alle ossa da strette fasciature, ma le madri e le balie erano sorde ad ogni raccomandazione in tal senso, soprattutto perché l’aver limitato alla parte superiore del tronco i movimenti dei piccoli, che venivano collocati in appositi ceppi di legno, consentiva loro di svolgere serenamente le faccende domestiche.
Il medico figlinese ribadiva l’importanza dell’igiene esortando le madri e le balie a lavare spesso gli abiti dei fanciulli che, per loro natura, sudavano molto e quindi si sporcavano più degli adulti. Egli riteneva che, a partire dal quarto mese, fosse già possibile iniziare lo svezzamento, dando al bambino “qualche altro cibo … cioè un poco di pappa fatta con l’acqua pura o con brodo lungo”. Occorreva però fare attenzione, non dovevano essere alimenti pesanti o frutti poco maturi perché la loro digestione e assimilazione sarebbe risultata assai difficile. Si doveva poi proibire categoricamente di far bere ai bambini decotti di papavero, o di altre piante soporifere per indurli a dormire o a calmarsi. Tali farmaci potevano infatti provocare astenia e danni cerebrali.
Dall’età infantile, l’attenzione di Pignotti si spostava, successivamente, a quella adulta e ad essa il medico dedicava un apposito capitolo. Le sue Regole di Sanità erano rivolte a tutti ma, in particolare, agli abitanti delle campagne. Quattro, a suo parere, erano gli elementi dai quali dipendeva la “conservazione” della salute: l’aria, l’acqua, il cibo e le condizioni atmosferiche. Generalmente in campagna gli agricoltori respiravano aria salubre e da questo derivava la loro robustezza ma, talvolta, essi commettevano alcuni errori che finivano per infettare l’aria con miasmi nocivi, come nel caso in cui le stalle si fossero trovate all’interno dell’abitazione.
Le stalle dovevano essere separate dagli ambienti in cui si svolgeva la vita quotidiana e dovevano essere costruite a Tramontana, in modo che il calore del sole fosse meno cocente e non facesse fermentare le “materie putride” in esse contenute. Molti contadini non volevano però rinunciare alla comodità della vicinanza degli animali da accudire e soprattutto al calore prodotto dal bestiame che, nelle giornate più fredde, rendeva più piacevole la vita nell’abitazione. La stalla si trasformava talvolta in luogo di riunione della stessa famiglia dell’agricoltore che, per la presenza di una temperatura più confortevole, non esitava a dar vita alla più pericolosa delle promiscuità. L’unico rimedio era quindi quello di aumentare lo spessore del pavimento e delle pareti che confinavano con la stalla, per evitare contaminazioni maleodoranti con gli altri ambienti.
Lo stesso problema si presentava quando i depositi di letame venivano collocati troppo vicino ai casolari. In questo caso, oltre a rendere pestifera l’aria, si correva il concreto rischio di contaminare anche l’acqua dei pozzi, per le infiltrazioni di liquami nel terreno. Pignotti raccomandava quindi di trasportare le deiezioni degli animali ed i rifiuti delle stalle il più possibile lontano dalle abitazioni, per evitare ogni sorta di inquinamento, anche se l’operazione era faticosa per il contadino, più incline a percorrere brevi tratti con carichi pesanti.
Pagine di grande interesse erano dedicate dal medico figlinese alle caratteristiche delle case coloniche. Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena aveva dato il massimo impulso alla delineazione di una nuova tipologia abitativa rurale, che rispondesse a criteri di praticità e di igiene. L’ingegnere Ferdinando Morozzi, poliedrico funzionario dell’ufficio dei Capitani di Parte Guelfa, aveva reso concreta la volontà del Granduca realizzando nel 1770 quell’agile trattato architettonico Delle case de’ contadini che avrebbe avuto larga fortuna e successive edizioni fino all’inizio del XIX secolo.
Pignotti riprendeva dunque un tema ben noto e ampiamente dibattuto all’interno dell’Accademia dei Georgofili, l’organo più sensibile alla realtà delle campagne toscane ed alle possibili innovazioni da introdurre nel vitale settore agroalimentare. Non a caso, presso la prestigiosa istituzione, Giuseppe Muzzi, il 7 Settembre 1785, aveva presentato una specifica Memoria sull’architettura delle case rurali, chiaramente ispirata allo scritto di Morozzi.
Il medico figlinese sottolineava soprattutto gli aspetti sanitari del problema, invitando a costruire le abitazioni in spazi aperti, evitando boschi e valli profonde, dove la scarsa penetrazione della luce solare e l’umidità potevano creare condizioni favorevoli all’insorgere di numerose patologie. Nel caso della Maremma senese era poi necessario edificare ogni abitazione nei luoghi più elevati, soprattutto sulle colline, per evitare il più possibile le febbri malariche. Non era stato ancora scoperto il legame fra la zanzara anofele e l’insorgere della malattia, ma si comprendeva con chiarezza l’esistenza di un nesso fra le acque stagnanti e la malaria, ben individuando nelle paludi il luogo privilegiato per contrarre la terribile affezione.
Particolare cura era dedicata da Pignotti al problema dell’acqua potabile. L’acqua pura era indispensabile per mantenere una buona salute. Essa era necessaria sia come bevanda, sia come parte integrante del lavaggio e della cottura dei cibi ed occorreva prestare la massima attenzione per evitare ogni contaminazione. La rena filtrava l’acqua rendendola limpida e liberandola da ogni impurità, il medico raccomandava perciò di far scorrere sempre l’acqua per uso domestico attraverso strati di rena, che consentivano di ottenere un prodotto eccellente e privo di fattori di rischio.
Un tema dolente era poi quello della alimentazione, spesso carente per quantità e qualità. Pignotti riteneva il cibo dei contadini generalmente sano ma metteva in guardia nei confronti del pane, nel cui impasto erano generalmente presenti diversi tipi di cereali che potevano presentare aspetti di maggiore o minore digeribilità. L’uso della saggina, ad esempio, doveva essere moderato proprio per la sua durezza, che poteva creare difficoltà agli stomaci più deboli.
Spesso i contadini, per portare a compimento le dovute attività agricole, erano esposti all’inclemenza del tempo, nelle diverse stagioni dell’anno. Il medico figlinese raccomandava di guardarsi dal sole e dalla pioggia che potevano essere fonte di numerose patologie. Era infatti necessario evitare le insolazioni, particolarmente frequenti durante la mietitura, che vedeva l’attiva partecipazione di quasi tutti i membri della famiglia colonica. Pignotti suggeriva di non dormire all’aperto, nei mesi estivi, durante le ore più calde del giorno, “esposti al vivissimo sole”, perché molti si risvegliavano “attaccati da una febbre ardente”. La fatica, il sudore invitavano poi a dissetarsi frequentemente ma era bene non bere acqua fredda quando il corpo fosse stato accaldato, perché il contrasto di temperatura avrebbe potuto provocare congestioni o disturbi di varia entità.
La pioggia era estremamente pericolosa e numerose malattie da raffreddamento, per effetto della diminuzione della temperatura e dell’umidità, potevano avere origine in organismi debilitati dalla fatica o da carenze alimentari. Se si era colti dal cattivo tempo nei campi, era bene non fermarsi, perché il movimento avrebbe riscaldato il corpo e facilitato l’evaporazione. Non appena si fosse giunti a casa, era però bene provvedere subito al cambio dei vestiti ed a fare un pediluvio caldo per scongiurare effetti fisici negativi. Nel caso di una leggera indisposizione da raffreddamento venivano consigliati alcuni efficaci decotti che avevano il compito di riscaldare e tonificare le membra: "Si prenda una manciata di fiori di sambuco. Vi si getti sopra libbra una d’acqua bollente. S’addolcisca con un poco di zucchero”. Oppure: “Si prenda un pugno di rosolacci, si faccia come sopra e s’addolcisca con un’oncia di miele”. Oppure: “In libbre due d’acqua bollente si tenga per otto minuti una ciocca di salvia, indi si levi. S’addolcisca con zucchero o miele”.
Pignotti dedicava la seconda parte delle sue Istruzioni mediche per la gente di campagna alla “cognizione e cura delle malattie”, entrando nel vivo del problema che si era prefisso di trattare. La prima manifestazione palese di una alterazione nell’equilibrio dell’organismo era la febbre e, proprio a quest’ultima, il medico dedicava largo spazio nel suo agile contributo. Sintomi comuni, in tutte le manifestazioni febbrili, erano l’accelerazione del polso e l’aumento della temperatura corporea. Se solo essi fossero stati presenti si sarebbe stati chiaramente di fronte a forme patologiche miti e benigne, se invece fossero comparsi delirio, convulsioni, ventre gonfio, dolori di petto ed emottisi, occorreva il pronto intervento del medico, perché la forma era senza dubbio acuta e maligna.
Nel caso di lieve affezione febbrile si consigliavano alcune bevande rinfrescanti: “Si prendano tre once d’orzo. Si lavi prima nell’acqua calda per pulirlo dalla polvere, indi si getti in sei libbre d’acqua e si faccia bollire tanto che l’orzo sia scoppiato. Si coli e a questa decozione colata si aggiunga un’oncia e mezzo di miele ed un’oncia di aceto”. Oppure: “Si prendano due once di mandorle ed una di semi di popone o di zucca. Si pestino bene nel mortaio, indi vi si getti, appoco appoco, una libbra d’acqua. Si agitino nell’acqua, indi si coli per un panno. Si pesti di nuovo il resto, vi si getti una libbra d’acqua di nuovo e si replichi sino in tre volte. Si può addolcire la bevanda con un poco di zucchero”.
Pignotti descriveva con cura gli errori che venivano spesso commessi nel trattamento dei febbricitanti. Il più comune era quello di dare “brodi di carne assai densi” anche ai malati che manifestavano nausea e disappetenza. Ciò significava che lo stomaco e l’intestino erano debilitati e che era necessario tener leggero il paziente, non ancora in grado di digerire correttamente. Altra pratica assai dannosa era quella del salasso che non risolveva alcun problema ed aveva invece, come effetto, quello di diminuire le forze del malato, allontanando il momento della guarigione.
Molto interessante era il capitolo dedicato alle Febbri intermittenti: terzane e quartane, le terribili febbri malariche che costituivano la spina nel fianco di ogni agricoltore di pianura. Definite “periodiche” per gli intervalli che le caratterizzavano, potevano essere curate efficacemente con la “kina kina”, ossia con il chinino. Pignotti consigliava la somministrazione giornaliera di questo medicamento per tutta la durata della manifestazione febbrile ed anche negli intermezzi, privi di alterazioni evidenti della temperatura corporea. Egli sosteneva, infatti, che spesso i contadini non si ristabilivano, nonostante il chinino, perché interrompevano troppo presto la terapia, ritenendosi guariti nel momento in cui la febbre fosse scomparsa.
Anche il “cholera morbus” veniva affrontato, e descritto come “violento e copioso vomito unito, nello stesso tempo, a un abbondantissimo scioglimento di corpo con dolori di ventre, sete grande”. Era in questo caso necessario l’intervento del medico ma, in attesa del suo arrivo, era opportuno “non … tentar di fermare queste evacuazioni, soltanto devono facilitarsi con delle bevande diluenti, come acqua d’orzo, o leggiero brodo di pollastra”.
Un capitolo specifico era dedicato alle donne. Pignotti affermava che alcune realtà naturali che caratterizzavano il sesso femminile, potevano assumere aspetti pericolosi per la salute, come il ciclo mestruale, la gravidanza ed il parto. Per queste tre manifestazioni della fisicità femminile il medico riscontrava alcune differenze fra le contadine e le donne di estrazione sociale più elevata, o comunque residenti in centri abitati di rilievo. Generalmente le prime avevano pochi fastidi perché erano robuste ed abituate alla dura realtà del lavoro dei campi ma, sottoponendosi a continui sforzi, potevano andare incontro a seri inconvenienti. Nel corso del ciclo mestruale molte donne soffrivano di emicrania e di dolori addominali che, in alcuni casi, potevano divenire così molesti da costringerle a letto per alcuni giorni. Le contadine risentivano in minor misura di questi disturbi, anche perché il tipo di vita che erano costrette a condurre e le incombenti necessità agricole non consentivano loro veri periodi di riposo.
In caso di gravidanza con disturbi, Pignotti prescriveva alcune bevande contro la nausea, a base di “magnesia alba, da grani dieci ai venti”, raccomandando alle contadine di non fare sforzi, di non cimentarsi in lavori pesanti, spesso all’origine di numerosi aborti. Se tale eventualità si fosse verificata era importante rivolgersi subito ad un medico, per evitare emorragie o altre pericolose complicazioni.
Il momento del parto era estremamente delicato ed occorreva fare attenzione a quelle levatrici che avessero assunto l’atteggiamento di voler forzare i tempi della natura. Se il bambino era vivo e nella giusta posizione, pronto cioè ad uscire di testa, la nascita sarebbe avvenuta senza eccessive complicazioni ma, di fronte ad un quadro clinico diverso, non si dovevano avere esitazioni ed era necessario rivolgersi subito ad un medico. Uno degli inconvenienti legati al puerperio era la febbre da latte che, a giudizio di Pignotti, derivava alle donne di città dalla scarsa attitudine all’allattamento. L'affezione era infatti rarissima in campagna, dove le contadine irrobustivano il petto con lavaggi e dove era inconcepibile il ricorso a balie per la nutrizione dei propri figli.
Un ultimo consiglio che Pignotti rivolgeva con calore alle donne di campagna, in caso di parto, era quello di non alzarsi subito da letto e di non riprendere con lena le consuete, faticose occupazioni domestiche. Era assolutamente indispensabile riposare alcuni giorni, per riprendere le forze. I rischi che un corpo indebolito poteva correre erano gravi e la salute di una puerpera era strettamente connessa anche a quella della nuova vita che era nata con fatica e travaglio e che ora doveva essere accudita ed allattata.
Seguendo le direttive leopoldine, Pignotti si faceva poi promotore dell’innesto del vaiolo, esortando “i parochi, i padroni e i fattori” a convincere i contadini a non temere questa pratica innovativa. L’inoculazione appariva l’unico metodo per salvare giovani vite da quella terribile malattia, che era mortale in percentuale altissima. A giudizio del medico, il vaiolo era poi più pericoloso per gli adulti che per i bambini ed era quindi ideale procedere all’inoculazione in giovane età.
Un capitolo di estremo interesse era dedicato alle Malattie originate dai mestieri. Pignotti aveva fatto senza dubbio tesoro del celebre contributo di Bernardino Ramazzini: De morbis artificum diatriba, apparso a Modena nel 1700 e, proprio come Ramazzini, divideva le varie patologie in categorie, a seconda delle attività manuali alle quali fossero stabilmente legate. Per esempio mugnai, fornai, vagliatori di grano e scalpellini soffrivano spesso di tosse e di asma, per effetto delle polveri respirate nel corso degli anni. Il rimedio suggerito era lo stesso indicato da Ramazzini, ossia proteggere le vie respiratorie con maschere da applicare sulla bocca e sul naso.
I vasai, costantemente dediti alla realizzazione di pentole e piatti in terracotta, venivano avvelenati dal piombo che era presente, in larga misura, nella vernice con cui quegli stessi manufatti venivano resi impermeabili, mentre i conciatori di pelle ed i “votacessi”, intossicati da vapori venefici, soffrivano di gravi irritazioni agli occhi e finivano spesso per divenire ciechi.
Pignotti concludeva le sue Istruzioni mediche per la gente di campagna con un capitolo dedicato al modo di rianimare gli annegati. Non era raro, nella realtà agreste, che contadini o lavoranti fossero travolti da fiumi, o cadessero accidentalmente in pozzi e cisterne ed il figlinese illustrava regole elementari di pronto soccorso, in parte valide ancor oggi. Per prima cosa era necessario praticare la respirazione bocca a bocca, descritta nei minimi particolari, poi occorreva asciugare e riscaldare l’annegato ponendolo vicino al fuoco. Per far rinvenire il malcapitato, Pignotti suggeriva alcuni singolari trattamenti che, per sua stessa ammissione, potevano suscitare perplessità nei lettori, ma la cui efficacia era comprovata dall’esperienza.
Innanzitutto si doveva “spingere del fumo di tabacco dentro gl’intestini”, per stimolare le parti interne. Il modo di procedere era semplice: “Primo, introducendo nell’ano del paziente un cannello di qualunque materia non tagliente, indi empiendosi la bocca di fumo di tabacco e soffiandolo nel detto cannello. Secondo introducendo nell’ano la canna di una pipa bene accesa, indi applicando un’altra pipa vuota sopra quella accesa, in forma che si abbocchino insieme e soffiando per il foro sottile della pipa vuota, cingendo col fazzoletto, o con altra cosa simile, l’orlo ove si abbocchino le due pipe, affinché il fumo non possa sortire per questa parte ma sia obbligato a scaricarsi tutto per il cannello introdotto nell’ano”.
Poi si doveva procedere scottando le piante dei piedi con pietre calde e infine pungere con aghi o spilli l’annegato sotto le unghie. A questo punto, se un barlume di vita fosse rimasto nel corpo, il poveretto avrebbe dovuto riprendersi e dare qualche segno tangibile di reattività, ma non si doveva “perdere il coraggio” prima di aver persistito “indefessamente, … avendo dimostrato l’esperienza che vari annegati, per molte ore apparentemente morti, si sono ravvivati”.