Il numero 27 (5) – 2020 della rivista Global Change Biology (Wiley) pubblica un "opinion paper" firmato da Lorenzo Genesio (IBE-CNR), Roberto Bassi (Univ.Verona) e Franco Miglietta (Accademia dei Georgofili e IBE-CNR) dal titolo “Plants with less chlorophyll: A global change perspective”.
L'articolo discute di un tema nuovo ma che è già molto discusso in ambito accademico: nuove piante a basso contenuto di clorofilla (pale-green) possono diventare uno strumento per coniugare produzioni agricole e azioni di mitigazione del cambiamento climatico. Il ragionamento è paradossalmente semplice anche se non del tutto intuitivo. Si gioca su due fronti: le piante-pallide riflettono di più la luce solare e possono, se sono ben costruite, contribuire ad aumentare le rese colturali.
Ma andiamo con ordine.
Superfici più riflettenti per ridurre il riscaldamento globale
Tutti sappiamo che l'energia primaria di cui dispone il nostro pianeta arriva con la luce del sole. Ma non è altrettanto chiaro a tutti che la temperatura media alla superficie della terra dipende da un complesso bilancio fra la quota di energia che viene riflessa dal nostro pianeta e quella che, una volta assorbita, viene riemessa sotto forma di calore. Calore che poi resta in parte “intrappolato” dai cosiddetti gas ad effetto serra nell’atmosfera. Per capire questo “bilancio energetico” basta rifarsi alla nostra esperienza diretta: quando indossiamo abiti scuri sotto il sole estivo soffriamo molto più il caldo di quando invece indossiamo abiti più chiari. Ciò che i nostri occhi percepiscono come “colore scuro” altro non è che il risultato di un maggior assorbimento della luce da parte dei pigmenti che colorano l'abito che indossiamo. Il colore chiaro si ottiene invece quando molta luce è riflessa. E così come fa un abito scuro le piante con molta clorofilla assorbono molta energia luminosa, ne convertono solo una piccola frazione in zuccheri attraverso la fotosintesi e riemettono il resto come calore. Le piante a basso contenuto di clorofilla (che abbiamo già sopranominato “pallide”) riflettono invece una frazione più elevata di radiazione solare, ne assorbono meno e di conseguenza emettono meno calore.
E da qui prende le mosse l’idea discussa nell’Opinion paper: se coltivassimo specie più “riflettenti” potremmo contrastare, pur solo in parte, l’effetto globale di riscaldamento dovuto all’aumento dell’effetto serra.
Ma le “piante pallide” possono produrre come quelle normalmente verdi?
La luce assorbita dalle piante è la fonte di energia primaria che permette loro di crescere e produrre tutto ciò che noi poi mangiamo. Se aumentiamo la frazione di luce riflessa coltivando piante più pallide ci aspettiamo che la luce assorbita sia inferiore, ma che potrà invece essere superiore la produzione di zuccheri e di biomassa. Inutile negare che qui la questione si fa complessa perché i meccanismi biologici che regolano la fotosintesi nelle piante tutto sono, tranne che semplici. La clorofilla è uno dei composti fondamentali per trasformare la luce del sole in energia utilizzabile per la crescita della pianta. Ma essa è anche un pigmento assai fragile che le piante devono proteggere dagli eccessi di luce che la distruggerebbero. La maggior parte di noi neanche immagina quanto sofisticati siano i meccanismi di foto-protezione che si sono evoluti nelle piante superiori. Non abbiamo modo di percepire, ad esempio, le trasformazioni che avvengono in una foglia quando essa è raggiunta improvvisamente da un raggio di sole; si scatena una serie di reazioni velocissime che servono a evitare danni alla preziosissima “antenna” del sistema di assorbimento della luce. E sono eventi talmente complessi a livello biochimico e biofisico che la ricerca non è ancora riuscita svelarli del tutto. Ma i meccanismi di foto-protezione, che funzionano bene e che difendono in modo eccellente la preziosissima fragilità del sistema, sono anche meccanismi che costano, e anche molto, in termini energetici. L’idea è che piante più “pallide”, con meno clorofilla, possono essere paradossalmente essere più produttive di quelle verdi. Assorbendo meno luce e accumulando quindi meno energia, è vero, ma anche spendendo meno per proteggersi da periodici eccessi di luce e diffondendo meglio la luce all’interno della chioma. Deve esistere quindi una combinazione ottimale fra l'assorbimento della luce e il costo energetico della foto-protezione che da il miglior risultato in termini di produzione.
Perché le piante sono verdi ?
Ma se esiste una combinazione ottimale fra assorbimento e foto-protezione, perché allora le piante in natura sono così intensamente verdi e perché hanno così tanta, e forse persino "troppa" clorofilla? Perché l’evoluzione non ha naturalmente selezionato piante più pallide? La risposta implica un altro livello di complessità che ha a che vedere con l'evoluzione delle piante e la loro necessità di competere per la luce negli ambienti naturali. Le piante pallide potrebbero essere più produttive anche in natura, ma sarebbero anche inevitabilmente meno competitive; la competizione fra organismi vegetali si fonda infatti molto sulla capacità di sottrarre luce, assorbendola, ai competitori, ovvero alle altre piante che mirano a occupare lo stesso “posto al sole”.
Se la superficie riflette più luce solare, ci possono essere altre conseguenze per il clima?
La scienza del clima è sempre stata un gran bel grattacapo. Il sistema climatico terrestre è dinamico e indissolubilmente legato alla scala della dimensione stessa del nostro pianeta e a un sistema globale di circolazione interconnessa fra le varie parti del globo. Ciò che avviene in un punto qualsiasi della terra non è irrilevante per un qualsiasi altro punto. Si cita spesso la metafora per cui un piccolo evento in un punto geografico scelto a caso può teoricamente far variare il tempo atmosferico in un altro punto anche molto distante. Si tratta del celebre “Butterfly effect” che il meteorologo Edward Lorenz propose come titolo di un suo intervento alla 139esima edizione della Conferenza dell’American Association for the Advancement of Science (AAAS) nel 1972: “Does the flap of a butterfly wing’s in Brazil set off a tornado in Texas?” . Motto che sintetizza la difficoltà di fare esperimenti in climatologia, specialmente in assenza di un “pianeta B” utilizzabile come controllo. Non resta che l’applicazione rigorosa di quello che sappiamo, l’approfondimento di fenomeni fisici e biofisici che legano indissolubilmente, sul nostro pianeta le relazioni fra la sue componenti fisiche e biologiche. E’ ovvio che se il paesaggio agricolo di tutto il mondo, improvvisamente “cambiasse colore”, diventando cioè più chiaro, ci potrebbero essere delle conseguenze locali e forse anche globali. Un territorio di indagine che la scienza climatica sta già affrontando oggi, ma su cui mancano ancora risposte esaustive.
E’ socialmente accettabile il variar del colore dei nostri paesaggi?
E così, in un crescendo di complessità, l’Opinion paper ci accompagna fino alle conclusioni. Ponendo un interrogativo che coinvolgono anche il livello sociale: ammesso che le nuove piante pallide potranno esserci d’aiuto nella lotta al cambiamento climatico contribuendo anche a una sostanziale intensificazione delle produzioni di alimenti, è realistico ipotizzare una trasformazione così profonda del colore del paesaggio agrario a cui siamo abituati? La risposta è semplice: il paesaggio agrario è cambiato tante volte anche nella storia recente. E l’introduzione di colture con altri colori non sarebbe che un altro cambiamento. Ce lo testimonia per esempio l’esplosione della coltivazione della colza in Europa centrale (+200% negli ultimi 20 anni) che con le sue ampie fioriture gialle ha letteralmente cambiato, senza peraltro creare problemi, il colore delle campagne tedesche e francesi.
E gli agricoltori?
E’ naturale che gli agricoltori cerchino sempre di operare nel modo più conveniente per il loro reddito. Se e quando le “piante pallide” saranno una realtà e potranno essere usate con successo in sistemi di produzione agraria, la loro introduzione nella pratica agricola sarà relativamente semplice. Ma l’agricoltore dovrà avere comunque diritto ad un incentivo per il servizio ambientale che la coltivazione di piante pallide potrà portare alla società. Ciò apre un altro importante capitolo da discutere per l’agricoltura di domani: l’urgenza di trovare una strada per remunerare il beneficio ambientale di determinate pratiche agricole. Le ultime generazioni dei Piani di Sviluppo Rurale delle Regioni italiane, hanno già iniziato a trattare questa importante materia, ad esempio attraverso meccanismi di pagamento di specifiche pratiche agricole che possono contribuire alla riduzione netta delle emissioni di gas ad effetto serra (si veda ad esempio il recente PSR-Toscana). Ma questa strada andrà percorsa con sempre maggior decisione per funzionare da incentivo fondamentale per la sostenibilità dell’agricoltura e la sua auspicata armonizzazione con le nuove esigenze della società che ambisce a una migliore integrazione fra uomo e natura.