L' Accademico professore Paolo Ranalli, al quale sono legato da un antico rapporto di amicizia e stima, mi aveva abituato a frequenti iniziative di tipo tecnico-scientifico assolutamente pregevoli. Avevo anche osservato che la sua cultura specialistica -agraria, con una prevalenza sulle coltivazioni erbacee- si andava evolvendo verso aspetti sempre più riportabili a tematiche generali circa il ruolo delle coltivazioni in un mondo ormai molto più popolato di quanto gli indici di capacità di tenuta del pianeta consentissero. Anche su questo punto lo seguivo volentieri perché la mia sensibilità era assimilabile alla sua, ma quando, recentemente, si è presentato, in modo sorprendente, al pubblico con un volumetto di narrativa, lo stupore è stato tanto notevole quanto grande la curiosità. L'amico Paolo ha dato alle stampe, per i tipi de "Ledizioni" di Milano, un agile volume dal titolo "Resilienza: impariamo dalle piante". La prima impressione è stata la seguente: l'impegno dell'Autore è di tipo intellettuale; si scrive delle piante coltivate -e non- perché si crede in loro come indispensabili compagne di vita. Poi viene tutto il resto, complesso, poliedrico, stupefacente. Andiamo per gradi.
In tutta la scrittura c'è l'occhio vigile del narratore che, forte del suo "background" tecnico-scientifico, afferma che la grande sfida del clima influenza in modo significativo l'agricoltura. La comunità umana mondiale spera ciononostante che si possa essere in grado di assicurare gli alimenti a tutti, nonostante che solo il 10% della superficie coltivata possa essere classificata come non soggetta a stress, mentre il restante 90% subisce stress di varia intensità in grado di limitare il potenziale produttivo delle piante. Divengono pertanto fondamentali le pagine destinate a descrivere, con proprietà, la resilienza degli ecosistemi -tra i quali si sottolinea la buona capacità degli ecosistemi mediterranei, rispetto a quelli tropicali- e si inquadra, in modo leggero ma non approssimato, la centralità della biodiversità e la stabilità ecologica e di come quest'ultima possa essere fortemente perturbata. Proprio da queste premesse indispensabili ci viene fatta la domanda fondamentale; se gli esseri umani si presentano come le creature assolutamente privilegiate in termini di "dominio del mondo", possono comunque imparare dalle piante per vivere meglio in questo mondo ormai densamente popolato, ma per certi versi piccolo, inquinato, tormentato dal clima che cambia? Oppure l'uomo è troppo superiore e può prescindere dalle piante? La risposta è immediata e basata sull'ovvia constatazione: la biomassa del pianeta è, almeno all' 80%, rappresentata dalle piante e se loro si estinguessero, noi cesseremmo di esistere, mentre, al contrario le piante vivrebbero senza gli uomini, come hanno già fatto per lunghissimo tempo sul pianeta.
Quindi il volume, dopo questa assunzione, diviene per diverse pagine, una attenta descrizione della resilienza naturale delle piante o della resilienza "aiutata" dal nostro intervento, soprattutto per le piante coltivate; aiuto che si esprime in varia maniera, dalle tecniche agronomiche sino agli interventi genetici. Chi studia agricoltura sa che già dai tempi decisamente precedenti la consapevolezza del cambiamento del clima, cioè dagli anni '60 del secolo passato, si avevano chiari dati sui fattori di riduzione delle produzioni che si identificavano a larga maggioranza negli eventi negativi ambientali. Pertanto, noi possiamo e dobbiamo intervenire sulla capacità di resilienza delle piante coltivate e anche su quelle che crescono naturalmente nei vari ecosistemi del pianeta, ma, siccome anche noi esseri umani abbiamo una nostra resilienza, possiamo intervenire su di noi similmente a come facciamo sulle piante? Peraltro, in situazioni di stress, gli uomini, forniti di un paio di gambe, possono schivare il pericolo oppure allontanarsi di gran lena; le piante, invece, hanno radici ben fissate nel suolo e non possono scappare. Hanno sviluppato, però, strategie di resilienza al danno: se manca l’acqua, approfondiscono le radici nel terreno per andare a cercarla; se le temperature sono basse, il seme rimane quiescente per poi germinare, quando le condizioni diventano più favorevoli; se c’è molto caldo, rimodulano le vie di sintesi di taluni metaboliti che le conferiscono tolleranza. Gli esempi di resilienza che ci offre la Natura sono da sempre sotto i nostri occhi. Gli uomini che possiedono un cervello per ragionare hanno sicuramente maggiori potenzialità per superare le difficoltà della vita.
La risposta di Ranalli su questo punto ci interessa molto, ma dobbiamo ammettere che si entra in un altro ambito e cioè quello della nostra salute mentale perché buona parte dei suggerimenti diventa di tipo psicologico, quindi solo in parte rassicurante.
Si può anche facilmente immaginare che una impostazione di questo tipo dovesse finire con il sottolineare ancora una volta l'essenzialità della convivenza del corpo umano con il suo microbiota e quindi dell'essenzialità dell'asse intestino-cervello arrivando a proporre nuove opzioni terapeutiche come gli psicobiotici, sottocategoria di probiotici, che se ingeriti, producono effetti positivi su alcune malattie psicopatologiche. Arrivando persino a qualche considerazione su cibo e buon umore.
Dal volume si può quindi concludere che le piante rimangono organismi dai quali la vita sul pianeta non può prescindere; gli uomini possono imparare dalle piante a "lavorare", se pur a livello psicologico, sulla propria resilienza.
Aggiungo una mia considerazione: a patto di non dimenticarsi mai che dalle nostre "sorelle" piante ci distingue una inesorabile diversità di piano organizzativo.
Grazie Paolo, ci hai regalato un libro che ci farà ragionare!