La sgangherata riforma del mercato europeo dello zucchero del 2006, che tutti applaudirono (a proposito di ‘follie’ dell’Europa) che ci ha consegnato mani e piedi alle importazioni da Francia e Germania, privandoci per sempre di una commodity strategica per la nostra industria agroalimentare, portò alla chiusura di quasi tutti i nostri zuccherifici: invece di puntare sull’innovazione e sulla ricerca preferimmo una montagna di milioni, sul cui utilizzo non è mai stata fatta una indagine esaustiva. Chi invece ha puntato sull’innovazione nel suo settore (le patate) è il gruppo Pizzoli che nel sito di uno degli zuccherifici chiusi (a San Pietro in Casale nel Bolognese) ha aperto un impianto-modello all’avanguardia per le patate surgelate, il più grande di tutto il sud Europa. Da scelte (politiche) sbagliate è nata una grande opportunità per il settore pataticolo nazionale, in grande difficoltà. Così si fa crescita, occupazione, e si dà una mano al made in Italy.
Di made in Italy si è parlato tanto negli ultimi mesi, per la protesta dei trattori che inalberavano cartelli in cui invitavano i consumatori a comprare italiano e non le ‘schifezze’ che vengono dall’estero. Intanto non tutto ciò che viene dall’estero va considerato una ‘schifezza’. Anzi. Se guardiamo ai dati dell’export-import di ortofrutta fresca e leggiamo che abbiamo importato quasi 4 milioni di tonnellate e ne abbiamo esportato per 3,5 milioni, capiamo che occorre cautela prima di dare certi giudizi. Tra export e import il giro d’affari della nostra ortofrutta fresca è di poco superiore agli 11 miliardi di euro, un valore che conferma la vivacità e il dinamismo delle nostre imprese. E poco importa che il saldo positivo sia crollato, passato in pochi anni da 1 miliardo a 543 milioni di euro. L’import che cresce va considerato un dato fisiologico per un settore colpito da avversità di ogni tipo, climatiche e fitopatologiche, dalla crescita dei costi di produzione oltre che dal calo costante dei consumi. E’ sull’export che dobbiamo spingere e fare di più, anche se i 5,8 miliardi di euro a fine 2023 sono un risultato su cui nessuno era disposto a scommettere. Sul fronte dell’apertura di nuovi mercati scontiamo un ritardo importante non solo nei confronti della Spagna ma anche di Polonia, Grecia, Olanda ecc. stando in Europa. Senza considerare l’aggressività di paesi extra-Ue come il Cile, il Perù, l’Argentina, la Turchia. C’è un Comitato per l’internazionalizzazione al lavoro presso il ministero (Masaf) cui è lecito chiedere e attendersi risultati. Giusto chiedere, come fanno i trattori, di comprare più italiano ai consumatori. E chiedere alla GDO di privilegiare il prodotto italiano quando è disponibile a parità di stagione (e di smetterla con la politica delle primizie a tutti i costi, costose e quasi sempre insapori). Ma attenzione a non cadere in richieste di autarchia: impossibile e autolesionista chiudere le frontiere dentro i confini europei, siamo grandi esportatori, faremmo autogol. Si può chiedere di mettere dazi all’import da paesi extra-UE (tipo il Marocco) dove i costi e le condizioni del lavoro creano enorme dumping sociale ed economico…ma il ministro degli Esteri marocchino Nasser Bourita sull’argomento ha ribattuto che l’accordo Marocco-UE alla fine favorisce l’Europa che gode di un surplus commerciale di 10 miliardi a suo favore. Come si vede la questione è molto, molto complicata. Però qualcosa di più a difesa del made in Italy si può fare, coinvolgendo in primo luogo le catene della GDO che sono un po’ il convitato di pietra nella protesta dei trattori. E qui c’è il tema del prezzo minimo sotto il quale non si potrebbe acquistare dal produttore, il ‘giusto’ prezzo che si deve riconoscere all’impresa agricola. Ma anche qui le cose sono molte complicate.
Due voci autorevoli (e libere) del mondo retail come Mario Gasbarrino e Francesco Pugliese sono intervenute sul tema del divario dei prezzi tra produzione e al consumo e sui ricarichi ‘stellari’ della Gdo ai danni dei fornitori. Gasbarrino ammette che gli argomenti sono validi ma che questi ricarichi non si traducono in ‘margini’. Il reparto ortofrutta non ha una redditività superiore agli altri “che potrebbe spiegare questa sproporzione tra prezzo all’agricoltore e prezzo al consumo”. La domanda finale è: “Questa ricchezza dove va a finire? Chi se la intasca? Io in 35 anni di mestiere non sono riuscito a spiegarmelo, si parla di filiera troppo lunga, ma io ricordo che quando tra i primi abbiamo scavalcato i mercati centrali all’ingrosso e siamo andati direttamente sul produttore i margini non sono mica aumentati”.
Pugliese dal canto suo tira in ballo “l’eccessiva frammentazione della GDO e – ancora più – del mondo agricolo, perché piccolo può essere bello, ma solo se si lavora insieme, con condivisione, come fanno le formiche”. Sulle accuse alla GDO “che lascia solo una minima parte dell’utile per il mondo agricolo”, Pugliese cita le cifre dello studio Ambrosetti secondo cui “all’agricoltura (con il 17,7%) e alla GDO (con l’11,8%) resta la parte minore” della filiera del valore dal campo alla tavola. Certamente sarebbe il momento di aggiornare queste cifre con una nuova indagine indipendente affidata ad un ente di ricerca super partes (Ismea?) per fare chiarezza una volta per tutte su come viene distribuita questa ricchezza e chi se la intasca, per dirla con Gasbarrino, distinguendo tra le varie filiere dei freschi e trasformati. Il problema non sono i presunti margini della GDO (che ci sono ma sono comunque da dimostrare, da ‘pesare’) ma perché i produttori non riescono a spuntare prezzi remunerativi per i loro prodotti, nonostante i livelli di aggregazione raggiunti. Qui non c’entra l’Europa, c’entrano i ritardi e la qualità dell’aggregazione raggiunti da coop, consorzi e OP. Ci si aggrega solo per captare i contributi o per essere più efficienti e competitivi sul mercato? Invece di tanti convegni autocelebrativi, anche qui bisognerebbe fare chiarezza con una indagine indipendente.
E’ chiedere la luna?
*direttore Corriere Ortofrutticolo e CorriereOrtofrutticolo.it