Si è chiuso in sei mesi il blitz di Lactalis sul gruppo Parmalat, tanti quanti ne sono occorsi per portare la sua quota di proprietà da pochi punti percentuali ad oltre l’80% del capitale. Finisce così la storia di Parmalat, protagonista di uno dei più gravi scandali finanziari e poi di un risanamento che ne ha dimostrato le potenzialità. E si apre la strada ad una doppia serie di riflessioni.
La prima riguarda la grande attenzione iniziale, concentrata su tre questioni: la salvaguardia dell’italianità delle nostre imprese, la strategicità del settore, la latente tensione con la Francia. Tre argomenti che hanno smosso il Governo a decretare d’urgenza sulla salvaguardia dei settori strategici, comunque troppo tardi, e a rendere disponibile la Cassa Depositi e Prestiti per compiti impropri. La seconda, più amara, è che l’attenzione è scesa e al dunque nessuno si è mosso: né le banche, ancora una volta ambigue, né qualche imprenditore in veste di Cavaliere Bianco.
Questo è il vero punto, le altre questioni sono marginali. Quando ci si interroga sulla scarsa crescita italiana si dovrebbe riflettere che mancano una politica industriale generale e le strategie individuali, oltre alla voglia di intraprendere. È un Paese bloccato, e l’ha dimostrato. Compiuto il salvataggio si è avuta l’impressione che nessuno sapesse che cosa fare per lo sviluppo del gruppo, che è una multinazionale e fattura in Italia circa il 20% del totale, ma meno dei francesi di Lactalis che ora oltre ai formaggi di Galbani, Locatelli e Invernizzi, avranno anche il latte di Parmalat, sperando che li valorizzino meglio.