Le tante agricolture che nel 1861 erano praticate nella nostra penisola erano diverse per ragioni geografiche, pedologiche, storiche, strutturali e sociali.
Accanto a questi elementi di specificità vi erano almeno quattro ordini di problemi generali: a) la riforma dei regimi fondiari, per eliminare situazioni eccessivamente rigide di gestione del fattore terra; b) l’adozione di un’unica politica agraria da realizzare sia sul piano dello stimolo produttivo sia su quello delle scelte relative agli scambi con l’estero; c) l’emancipazione sociale delle popolazioni agricole che si trovavano in condizioni di forte arretratezza rispetto ad altre fasce di popolazione; d) l’introduzione di innovazione tecnica per stimolare il progresso produttivo, economico e sociale delle campagne.
Questo insieme di problemi si interseca con un’altra sfida, quella dell’evoluzione economica e sociale degli Italiani, in particolare delle loro esigenze alimentari connesse alla dinamica demografica e all’evoluzione dei consumi individuali stimolati dall’incremento dei redditi e dal miglioramento delle condizioni di vita.
Nei 150 anni dell’Unità l’Italia ha dovuto affrontare la necessità di offrire il cibo ad una popolazione che da 25 milioni di abitanti è passata agli attuali 60, con una percentuale di addetti agricoli che dal 70% crolla all’attuale 4% e con un contributo al Pil che dal 40% degli inizi oggi non arriva al 2%. Per poter avere un’idea del cammino compiuto basti pensare che nel 1861 le nostre condizioni erano paragonabili a quelle di un paese che oggi definiremmo in via di sviluppo, nel 1961 si collocavano al livello attuale dell’Egitto o della Romania, mentre ora siamo fra i dieci paesi più sviluppati.
Il cammino di crescita del Paese è stato accompagnato e, nei momenti più difficili, sostenuto dal progresso della nostra agricoltura che ha visto moltiplicarsi le rese: con una superficie agricola ridotta quasi del 50% il volume della produzione si è circa quadruplicato. La produzione di frumento, dopo essersi moltiplicata per un fattore di 2,5 volte sino agli anni ’60, rimane circa il doppio di quella degli inizi quando però la superficie era più che doppia quindi moltiplicandosi per quattro. Anche quella di riso, a parità di superficie, è cresciuta di circa quattro volte; quella di mais di un fattore superiore a 4; quella delle patate di circa il doppio, pur avendo visto una riduzione di superficie di 6 volte; la produzione di vino è triplicata, quella di olio è più che doppia. Le esportazioni di ortaggi, frutta e vino, trascurabili fino al primo decennio del Novecento e valutabili per ciascuna categoria di prodotti attorno al migliaio di quintali, oggi sono pari a 9 milioni di quintali per le colture orticole, a 27 milioni per la frutta e a 21 milioni per il vino, nonostante l’impennata dei consumi.
Anche le produzioni zootecniche mostrano risultati importanti. La produzione di latte, ad esempio, è superiore di oltre dieci volte a quella iniziale e del 50% nei confronti degli anni ’60. Il patrimonio bovino si è moltiplicato per due, ma era triplicato nel decennio 1961/70, quello suino per cinque e la produzione di latte addirittura per undici, nonostante i vincoli imposti dalle quote, infine le esportazioni di formaggi sono a loro volta cresciute di dodici volte.
Nello stesso tempo i consumi alimentari registravano una vera e propria rivoluzione. Le calorie medie giornaliere sono salite da 2600 a circa 3600 con un incremento dei consumi proteici di origine animale che hanno sostituito quelli vegetali, ma oltre all’incremento quantitativo vi è stato un rilevante miglioramento qualitativo che caratterizza profondamente il modello alimentare italiano.
La nostra agricoltura ha dato un’importante contributo al rafforzamento dell’Unità del Paese sul piano concreto, un fatto da non trascurare nel momento in cui si affrontano le sfide legate al mercato globale.
Il testo è tratto dall’articolo pubblicato su AGRIMPRESA, marzo 2011
(foto: Archivio dei Georgofili)
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