“Sono stato un salame, quella persona è un salame, avere due fette di salame in tasca, fare il salame per non pagare dazio, salame in barca” e molte altre frasi, un tempo frequenti oggi forse più rare, attribuiscono al salame un senso di persona stupida, uno stolto o uno che fa lo stupido e danno quindi un significato spregiativo a un cibo che è invece buono, apprezzato e desiderabile. Tutto deriva da un cambiamento di uso di un temine che fino al XVIII secolo e oltre identifica il pesce salato e quindi il salame o salamen è il baccalà che identifica ancora oggi una persona inespressiva da qui il detto di “essere un baccalà”.
La parola salume deriva dal latino tardo antico salumen per indicare l’impiego del sale per conservare gli alimenti. Inizialmente e nel basso Medioevo, almeno per quanto ne sappiamo, il termine salamen indica i più diffusi alimenti conservati con il sale, i pesci e in particolare quello che ora è chiamato o baccalà o anche erroneamente stoccafisso. Non solo, ma il pesce salato, fino al Quattrocento, è venduto nelle botteghe dei Lardaroli, insieme alla carne e ai salumi. Dovrebbe, ora, essere chiaro come, a livello gergale, si sia giunti ad avere una corrispondenza semantica tra la parola baccalà e il termine salame. Infatti, in questo contesto traslato i due termini sono sinonimi e stanno ad indicare una persona insulsa e ottusa. Sarebbe la consistenza dura (data dalla salagione) che accomuna i due prodotti, che rimanda alla cocciutaggine tipica dello stupido e per questo soprannominato, indifferentemente, sia salame che baccalà, quest’ultimo pesce conservato importato su imbarcazioni dai mari dei Nord e da qui forse il detto “salame in barca”, come l’analogo adagio “fare il pesce in barile”.
Ma come nel passato si chiamano gli odierni salami? Nella salumeria dell’antichità romana questo nome non esiste e gli insaccati conservati con il sale sono indicati come botulus o insicia (insaccato) o hanno un nome che richiama il luogo di origine e da qui la possibile derivazione della lucanica o luganiga come salsiccia della Lucania. Dal medioevo in poi è spesso usato il termine di salsiccia da sale e ciccia (carne). Il primo documento nel quale si nomina il salame è un ordine del 1436 di Niccolò Piccinino (1386 – 1444), Signore di molte terre dell’appennino parmense, condottiero al soldo del duca di Milano che proprio a Parma, dove ha una base operativa, richiede "…porchos viginti a carnibus pro sallamine…”, ovvero venti maiali per farne salami. A Parma quindi la parola salame ha già il significato che oggi gli attribuiamo. Oltre un secolo dopo la parola salame, indicante specificatamente il preparato che oggi conosciamo, compare nel manuale Il Trinciante (1581) di M. Vincenzo Cervio, mentre nell’anonimo libro Il Cuoco Piemontese ridotto all’Ultimo Gusto, terza edizione, Torino 1845 il capitolo X De’ Salumi è dedicato al baccalà e al tonno salato e chi volesse conoscere qualche cosa su quelli che oggi sono denominati salumi deve consultare il capitolo IV Del Porco dove si parla della salagione delle carni di questo animale, del Giambone ossia prosciutto, sanguinacci, cervellati, salsicce, salsiccioni di porco ossia andouilles e la parola salame come oggi intesa non compare ancora.
La parola salame, nonostante possa sembrare d’origine semplice (sale) è ambigua e al tempo stesso contraddittoria e già la sua terminazione indica un complesso, una quantità e una collettività come in sartiame (complesso delle sartie di una nave o dei cavi che sostengono la navicella di un aerostato), saettame (quantità, insieme di saette di un soldato o di un esercito), collettame (merce varia, trasportata per conto di più clienti con un veicolo unico) ecc. Una parola che indica alimenti trattati e conservati con il sale e non quali siano questi alimenti che infatti variano di tempo in tempo. Sicché, per estensione, il termine salamen finisce per costituire la radice etimologica di salume e specificatamente di alcuni insaccati, tra cui il salame e la bresaola, il cui suffisso saola, sta ad indicare proprio il sale e la salagione cui è sottoposto questo pregiato prodotto.
Che le parole cambino di significato non è una novità e spesso rimangono per contenuti diversi, basta vedere quel che è successo con l’arrivo dell’automobile e oggi il carrozziere non costruisce e non ripara più le carrozze, il baule dell’auto non è più cassa da viaggio con coperchio per trasportare oggetti personali, il cruscotto non contiene la crusca per alimentare il cavallo e che il cocchiere aveva davanti a sé, la freccia non è un dardo o un’asticciola si leva dal lato destro o sinistro dell’auto ma una luce che lampeggia.
Che le parole restino ma possono cambiare di contenuto e significato è un fatto spesso dimenticato. Tutto scorre, tutto si muove e nulla sta fermo, e che questo avviene anche per le parole antichissima è l’idea che panta rei del filosofo greco Eraclito di Efeso (535 a. C. – 475 a. C.). I nomi non solo cambiano di significato con il passare dei tempi, ma anche da luogo a luogo e in territori e paesi anche vicini lo stesso oggetto ha nomi diversi o lo stesso nome è assegnato a oggetti differenti. Considerazioni queste quasi banali, ma spesso dimenticate soprattutto quando si cerca di risalire alla storia di un oggetto, alimento o cibo ricostruendo la storia del nome ma non del suo contenuto che spesso non coincidono come ricorda anche Umberto Eco intitolando il suo libro Il Nome della Rosa. Ma questa è un’altra storia, come quella del Salame di Felino che va tagliato in fette dello spessore di un grano di pepe e soprattutto allungate in ossequio del detto di “fette lunghe e discorsi brevi”.